"Alpinisti" sulla Mole di Novara, una visita alla Indiana Jones

testo e foto di ROBERTO ORLANDO*

Dicono che una volta arrivati lassù nelle giornate più limpide si veda anche il Monviso. Ma è soltanto una delle attrazioni dell'ascesa, un'esperienza a metà strada tra cultura e avventura, un'esplorazione alla Indiana Jones ma senza i rischi della versione cinematografica, una scalata fino a 100 metri di quota adatta però a gambe di qualsiasi età e in piena sicurezza. Nello stile insomma di Kalatà, impresa sociale di ambito culturale che aggiunge al suo carnet di visite tra meraviglie artistiche e architettoniche fino a poco tempo fa inaccessibili al pubblico la meta numero tre. Dopo la cupola del Santuario di Vicoforte e i meandri segreti di Santa Maria delle Vigne, a Genova, ecco la carta per il tris d'assi: la cupola della basilica di San Gaudenzio, a Novara, chiusa ormai da anni e in gran parte mai svelata al grande pubblico. 


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La cupola è considerata la sorella minore della Mole Antonelliana, anche se in realtà è la figlia primogenita del vulcanico architetto Alessandro Antonelli (nato a Ghemme, qui vicino, nel 1798), al quale toccò in sorte di battezzare la sua creatura soltanto poco prima di morire, nel 1888, dopo quarant'anni di cantiere, tra lunghissime sospensioni dei lavori, guerre d’indipendenza, revisioni progettuali e dissidi con la committenza. Stessa sorte non gli spettò invece con la sua opera più nota, la Mole di Torino appunto, che fu completata e aperta al pubblico nel 1889, cioè l'anno dopo la scomparsa di Antonelli. 


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Ma ora saliamo, il resto della storia si può raccontare un gradino alla volta. Si parte dall'ingresso laterale della basilica, e si accede alla base del campanile, che prima dell'innalzamento della cupola antonelliana era il simbolo di Novara, nonché l'edificio più alto con i suoi 92 metri di slancio. Anche il campanile ha una storia da non sottovalutare, a cominciare dall'autore, quel Benedetto Alfieri, zio del poeta Vittorio, architetto ufficiale del Regno di Sardegna succeduto nientemeno che a Filippo Juvarra. Lo stile barocco personalizzato da Alfieri qui è molto evidente e stupisce fin dai primi passi all'interno della torre, che è "innervata" da due scale a chiocciola, una per salire fino alla cella campanaria e l'altra per discenderne: da una si vede l'altra e viceversa, ma le due rampe non si incrociano mai. In vetta, ma noi non ci arriveremo, si trova il più grande concerto di campane a "Sistema Ambrosiano" esistente: in tutto nove campane, la più grande delle quali è purtroppo irrimediabilmente fessa.   


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Gira che ti rigira, si arriva al primo step dove si attraversa un camminamento sospeso per entrare alla base della cupola, a 25 metri di quota. E’ qui che la guida introduce all’avventura il gruppo di una quindicina di visitatori (i posti sono naturalmente contingentati). Si comincia con la storia della "fabbrica di San Gaudenzio": nel luogo in cui oggi sorge la basilica fino dal 1019 c'era la chiesa di San Vincenzo, di cui restano soltanto tre cappelle. La posa della prima pietra del nuovo edificio, firmato da Pellegrino Tibaldi, avviene invece nel 1577 e la consacrazione sarà 13 anni dopo, anche se il cantiere non si potrà considerare chiuso fino al 1711.  


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Se questo è il preludio, la tappa successiva conduce subito nel vivo della “spedizione”. Intanto a questo livello è custodito il grande compasso in legno – 11 metri di raggio - che l’architetto utilizzava per disegnare le centine della cupola. Ma l'attrezzo è solo una curiosità, la scena in realtà è dominata da una coppia di archi ciclopici, che si innestano l'uno sotto l'altro e che poggiano come altre tre coppie gemelle sulla struttura portante del presbiterio cinquecentesco della basilica. A colpo d’occhio si ha subito l'idea del peso che questi archi raddoppiati dovranno sostenere nei secoli: 5.572 tonnellate, cioè due milioni di mattoni, oltre alla guglia in cemento armato, frutto di un intervento postumo non proprio delicato che si era reso necessario nel 1931 per un distacco di materiale dalla struttura originale. Gli archi da soli valgono la visita e rivelano il genio di Antonelli, oltre a essere il segno tangibile del suo inganno alla committenza.


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Ma che inganno? La riposta si trova in un altro tabellone, qualche gradino più sopra, che raffigura schematicamente l'evoluzione del progetto di Antonelli. Il quale nel 1841 propone ai finanziatori dell'opera un disegno dell'opera, più che un progetto, non troppo audace e in linea con i tempi: una specie di Pantheon di Roma o meglio l’imitazione molto verosimile del Campidoglio di Washington. In realtà, mentre Gustave Eiffel a Parigi si preparava a raggiungere nuove e impressionanti altezze con la struttura metallica e la sua rivoluzionaria torre in metallo, Antonelli aveva in mente di arrivare abbondantemente oltre i limiti conosciuti dell’architettura con un materiale povero, un prodotto locale ma ben collaudato: il mattone. Insomma, la bozza poco ambiziosa che l’architetto sottopone ai committenti, riuscendo così a convincerli, in realtà è un falso. Il progetto vero è nascosto nel cassetto, ma le opere murarie cominciano e proseguono in funzione dell’obiettivo finale. E infatti dopo diverse revisioni progettuali e altri trucchi la cupola sale sempre più in alto grazie a nuove serie di colonne, fino a 126 metri di quota dove nessuno era mai arrivato con una cupola interamente costruita con i mattoni.  


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Ed è lì che siamo diretti, anzi, un poco più sotto, alla base della guglia. Ma per raggiungere la nuova meta bisogna dotarsi di caschetto da cantiere e imbragatura. E’ persino divertente bardarsi per il balzo finale e non è certo il caso di preoccuparsi. L’imbragatura si userà soltanto per un breve tratto, lungo una scala ampia e ben protetta, messa in sicurezza da Kalatà come tutto il resto del percorso.


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Prima però si procede in fila indiana, su per una scala angusta che si arrampica tra le colonne della basilica. Attraverso le finestre si comincia ad avere un’idea del panorama che ci attende. In breve si raggiunge il primo anello della cupola che spalanca una vista da vertigine sull’interno della chiesa: del resto siamo già a 50 metri di altezza e si sale ancora. Da qui in poi si svelano altri segreti, uno dei quali riguarda la struttura che regge la cupola: non è quella che si vede dall’esterno, ma è invece una sorta di endoscheletro composto da 24 archi sulle cui colonne curve se ne sovrapporranno altre per creare anelli sempre più stretti fino alla base della guglia. Si sale a 75 metri con un passaggio all’esterno da cui sembra di poter sfiorare la cima del campanile. Quassù i minori di 14 anni si devono fermare e non certo a causa della sconvenienza del programma: il fatto è che per un breve tratto dell’ultimo balzo fino a 100 metri si dovrà salire assicurati ad un cavo d’acciaio con un doppio cordone da fissare all’imbragatura. La prova di abilità non consiste tanto nell’ascesa, che è agevole e sicura, ma nell’impiego dei due grandi moschettoni che si devono agganciare e sganciare alternativamente e più volte alla “via ferrata” che scorre lungo la parete poco sopra il passamano.


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Da qui in poi comincia la parte forse più affascinante del percorso, attraverso un intrico di archi e contrafforti in mattoni che fanno meditare sull’ingegnosità delle soluzioni studiate da Antonelli per spingersi oltre, per continuare a salire come in una vera e propria apoteosi. 

Lungo questo tratto, uscendo di nuovo all’aperto, si gode della vista migliore e più comoda del panorama. Si vede tutta la città, ovviamente: il duomo e gli altri edifici storici, come Casa Bossi in cui Sebastiano Vassalli ambientò il suo “Cuore di pietra” affidando le sorti del romanzo a un architetto tormentato dalle sue manie di grandezza, cioè proprio Antonelli. E poi quando il cielo è terso da qui si distinguono all’orizzonte il Monte Rosa e il Monviso appunto, la collina di Superga e lo skyline di Milano che del resto è a soli 44 km in linea d’aria da Novara.


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L’ultimo strappo conduce a 100 metri di quota, alla base della guglia in cemento armato, che è accessibile solo attraverso una serie di scale di legno a pioli. Pertanto non si procede oltre, qui ci si ferma solo per dare un’altra occhiata al panorama da un piccolo balconcino che sovrasta la vetta del campanile lì accanto. Quasi due ore e 450 scalini dopo la partenza, siamo alla fine del percorso e con la voglia di prenotare un’altra visita. Impresa non facile, anche se Kalatà organizza dal venerdì alla domenica cinque tour quotidiani, per accompagnare lassù circa trecento persone. Ogni gruppo sale con una guida e con un responsabile della sicurezza che chiude la fila.  

A visita conclusa niente souvenir, però si può adottare uno degli scalini appena percorsi con una donazione di 50 euro: il gradino avrà il nome del suo benefattore, il quale avrà anche diritto a un'altra visita della cupola.   


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Nicola Facciotto, fondatore e anima di Kalatà, è molto soddisfatto dell’accordo di project financing con il Comune di Novara (che curiosamente è proprietario dell'opera) e dall’accoglienza che la riapertura della cupola ha avuto in città, anche in termini di sponsorizzazioni: “Il successo è stato superiore a quello ottenuto nelle altre città in cui lavoriamo. Abbiamo prenotazioni fino alla fine di ottobre e l’idea è quella di tenere aperte le visite fino a che le condizioni meteo lo consentiranno”. 


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Una volta tornati con i piedi per terra, intendo anche in senso figurato, non crediate che sia finita. Vicino all’altare della basilica, sulla sinistra, è custodita la statua originale - in lamine di bronzo rivestite d’oro - del Cristo Salvatore che fino agli anni Ottanta stava sulla guglia. Opera dello scultore Pietro Zucchi, è alta cinque metri e fa una certa impressione. Quella che invece svetta in cima alla cupola è la sua copia in vetroresina.  

 (info e prenotazioni online https://kalata.it/esperienza/cupola-di-san-gaudenzio/)


*ROBERTO ORLANDO (Nato a Genova in agosto, giornalista professionista dal 1983. Ultimo capocronista del Lavoro. Dopo uno scombinato tour postrisorgimentale che lo conduce in molte redazioni di Repubblica è rientrato tra i moli della Lanterna. Viaggia, fotografa e scrive. Meno di quanto vorrebbe)



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