Alinari e l'Italia com'era - 1/ Roma, la città sparita
di ROBERTO ROSCANI*
(accompagnamento musicale di Riccardo Calogiuri)
Roma sarà pure la città Eterna, ma questa eternità non è una linea retta, è fatta di mille cesure, fratture, tempi che si spezzettano. Se guardiamo all’epoca moderna il mutamento più grande è avvenuto certamente il 20 settembre del 1870 (centocinquant’anni fa tondi tondi lo scorso anno, ma anniversario quasi dimenticato perché caduto in un brutto momento per la memoria) quando ormai fuori tempo massimo il potere temporale dei papi si chiuse con qualche salva di cannone e le penne dei bersaglieri. Si concludeva un’era lunghissima, l’istituzione pontificia aveva tenuto in mano le chiavi della città per millecentoventi anni, un tempo paragonabile all’epoca romana classica, da Romolo e Remo alla caduta dell’Impero d’Occidente. Di quella cesura e di quello che accadde nei decenni successivi proverò a raccontare usando le immagini straordinarie dell’Archivio Alinari.
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E allora cominciamo da Porta
Pia, dalla battaglia che non doveva esserci. Papa Mastai Ferretti aveva
raccomandato una resistenza solo simbolica. I generali non gli diedero retta e
furono cannonate e morti, quasi settanta (48 tra gli italiani e 20 tra i
papalini). Di quella battaglia non restano immagini, ci sono le testimonianze
vere del prima e del dopo. Ma come, direte, sui libri delle medie c’era la foto
dei bersaglieri che sparano e corrono davanti alla Porta… Ebbene quella foto era un falso, fatto persino
nel posto sbagliato, la scattò Gioacchino Altobelli (stampa all’albumina da
negativo al collodio umido, per chi ama i dettagli). I bersaglieri li aveva
fatti mettere in posa il generale Cadorna e quell’immagine divenne un santino.
Quelle vere nell’archivio Alinari ci mostrano un esercito vincitore ma non
esultante, coi suoi accampamenti nei prati di villa Torlonia sulla Nomentana,
con le tende alzate attorno al laghetto, lo stesso sotto il quale per timore
dei bombardamenti il Duce si fece costruire un bunker domestico.
(Foro Romano e Campidoglio Autore non identificato 1900-1912 Archivi Alinari)
No, non c’è nulla di epico in questi ragazzi che si fanno immortalare senza le giubbe, stanchi e forse accaldati (Roma a fine settembre sa essere ancora afosa, specie per chi viaggia con pesanti pantaloni di fustagno, con magliette e camicioni ruvidi e pesanti.
La vulgata vuole che la Roma papalina fosse una piccola città provinciale. Sul provinciale d’accordo, sul piccola un po’ meno: Roma aveva nel 1871 212mila abitanti, sostanzialmente lo stesso numero di Torino (che era stata capitale sabauda da sempre), Milano ne aveva meno di 250 mila, Firenze capitale italiana dall’Unità aveva visto crescere i suoi abitanti tra il 1861 e il 1871 da 150 a 200mila. Solo Napoli era davvero una grande città con mezzo milione di abitanti. In più Roma non era una città immobile come potremmo credere e la sua boccata di modernità stava arrivando per mano di gente come il cardinale De Merode e dalla speculazione edilizia. Oggetto delle trasformazioni degli anni che precedono l’Unità era la grande zona di via Nazionale, un’area di orti e giardini, di vigne destinata a diventare forse la prima strada romana così ampia da sembrare progettata dal barone Haussmann, l’urbanista di Napoleone III che ridisegnò Parigi. Una modernità a prova di barricate che in strade tanto larghe non si possono innalzare.
De Merode e i suoi amici di
curia certamente non erano ben visti dal nuovo potere sabaudo. Ma i loro appetiti
vennero incorporati dal nuovo stato in cui il solletico della rendita si univa
a una straordinaria propensione ai lavori pubblici. Così l’esordio Savoia a
Roma avvenne partendo da una tragedia: la grande inondazione che il 28 dicembre dello stesso 1870 sommerse la città. Se girate nei quartieri affacciati sul
Tevere, tra Campo Marzio e Ponte fino a via del Corso o piazza Navona trovate
ancora all’altezza dei primi piani le lapidi di marmo che indicano l’altezza
raggiunta dalle acque del fiume. Il Re, che non aveva mai visto Roma, venne in
visita, creò una commissione per trovare una soluzione. Il decisionismo sabaudo
non fu così efficiente e ci vollero anni, ci volle Garibaldi e le sue idee
strane di un canale navigabile che sostanzialmente togliesse il fiume dalla
città riducendolo a un ruscello portando le acque del Tevere lontano dalla
città, per convincere le Camere a fare qualcosa.
(Breccia di Porta Pia: militari a Villa Torlonia foto Tuminello 1870 Archivi Alinari)
Il qualcosa sono i Muraglioni. Fu un cambio
urbano epocale: per farli vennero demoliti palazzi e strade, sepolte rovine
romane nella zona del Foro Boario, edifici seicenteschi, pezzi della città
medievale e soprattutto si cambiò irrimediabilmente il rapporto tra la città e
il fiume. Come era Roma? Le case a bordo del fiume, il corso irregolare che si
allarga e si restringe. Il progetto dell’ingegner Canevari (vincitore della
gara) prevedeva dei muraglioni altissimi, le banchine lungo il fiume e una
distanza costante tra le due spallette di cento metri. Nel progetto si doveva
anche cancellare l’Isola Tiberina che però fu salvata, per fortuna.
Per completare i muraglioni ci si mise quasi un quarantennio e fu quello in cui Roma cambiò maggiormente il suo volto. Ci furono gli interventi di “riempimento” dei vuoti urbani (l’Esquilino, via Venti Settembre in cui si allineavano i ministeri con le loro grandi moli) che finirono per riempire il perimetro delle Mura Aureliane nei secoli svuotato dalla infelice decrescita di Roma.
La città in epoca imperiale
contava un milione e mezzo di abitanti e nel medioevo era arrivata ad averne
50mila. Ma insieme alla nuova edificazione si fa strada l’idea di una
ristrutturazione radicale della città vecchia, specie di quella medievale
strettamente tessuta a quella classica e a quella rinascimentale. Gli edifici
medievali, infatti si erano abbarbicati e sovrapposti alle strutture antiche e
alle rovine che avevano lasciato, il Rinascimento coi suoi palazzi signorili
aveva diradato le case e aperto le piazze ma il tessuto restava fitto e
inestricabile. Le cose erano destinate a mutare, e il nuovo secolo s’annuncia
con le demolizioni.
A dire il vero gli abbattimenti non sono
proprio una novità romana: nel 1860 a Firenze era stata abbattuta la cinta
muraria, nel 1902 a Bologna avviene la stessa cosa, a Milano sono i Navigli a
farne le spese. E’ un’ansia che mette insieme lo spirito positivista del
progresso (quanti interventi vennero fatti per bonificare l’aria mefitica dei
vicoletti) e quello bolso del nazionalismo che vuole dar lustro al paese e alla
sua monarchia un po’ provinciale e che si accanisce con le stradine strette e
le case appoggiate ai monumenti. Insomma il moderno era nemico di
quell’abitudine così romana e papalina in cui le plebi condividevano le strade
e i luoghi dei palazzi nobiliari.
(Teatro di Marcello Fratelli Alinari 1890 ca. Archivi Alinari)
Il piccone non l’ha inventato
Mussolini (anche se lui ci ha messo molto del suo). No, le prime grandi
demolizioni precedono il fascismo e in qualche modo lo preparano. L’archivio
Alinari ne è straordinaria testimonianza. La zona della città più toccata non
poteva essere che la più centrale, quella attorno al Campidoglio e ai quartieri
che lo connettevano da una parte all’antico Ghetto e dall’altra a Palazzo
Venezia, poi con gli anni seguirà l’area in direzione del Colosseo. Oggi abbiamo un’idea del Campidoglio come di
una colle, un’arce, separato dalle case, con due grandi strade attorno, coi
tornanti che salgono tra palazzi antichi e alberi. Un secolo fa il Campidoglio
era stretto dalle case e sulle rampe c’erano le “fraschette”, le osterie o le
botteghe artigiane. In direzione del Ghetto c’era piazza Montanara. Un luogo di
ritrovo di operai e braccianti in attesa di lavoro. Una piazza di caporalato,
diremmo oggi con pastori e contadini, con le loro scarpe di stracci e gli
ombrelli necessari a seguire le greggi fin dentro la città. E accanto il Teatro
Marcello stretto tra le case, nei fornici romani c’erano magazzini e falegnami,
fabbri e maniscalchi, riparatori di pentole di rame, carbonai e venditori di
finimenti, nei piani alti le residenze dei nobili.
I Savoia scelsero questo
pezzo di città per creare il loro monumento celebrativo connettendolo
strettamente ai fasti della Roma antica. Il progetto era quello dell’Altare
della Patria. Un monumento gigantesco che non aveva davanti una piazza ma un
mare di case. Per far posto ai marmi del Vittoriano (il milite ignoto arrivò
molto più tardi, giusto il 4 novembre del 1921 a ricordo di quella tragica
catastrofe che fu la prima guerra mondiale). Per realizzarlo fu demolito tutto:
gruppi di case, interi isolati, persino qualche palazzo rinascimentale
nobiliare “limato” per ingrandire le strade. Cadde la Torre di Paolo Terzo, le
case che avevano ospitato Giulio Romano e Pietro da Cortona, due artisti che
avevano dato lustro a Roma. Fu abbattuto persino un arco che connetteva il
Campidoglio a Palazzo San Marco, e che venne spostato per “dar fiato” al
Vittoriano. Il non lontano Circo Massimo conteneva le ciminiere della fabbrica
del gas e lo scheletro metallico del gazometro. Andò tutto via.
(Veduta del Foro Boario Autore non identificato 1900-1912 Archivi Alinari)
E i romani? A migliaia vennero
spostati, allontanati dando inizio ad un’epoca che col fascismo trovò il suo
acme. Dal 1929 cadde la spina di Borgo per far spazio a via della Conciliazione,
poi toccò a Corso Vittorio, quindi all’intero quartiere Alessandrino dove ora
c’è via dei Fori Imperiali.
I romani, i poveracci che
riempivano il centro della città furono spostati in periferia, anzi il più
lontano possibile dalla città, nelle borgate di nuovo insediamento in case
popolari poverissime. Il paesaggio della città cambiò radicalmente e piazza
Venezia, la grande platea davanti al monumento che doveva commemorare i Savoia,
diventò il teatro di Mussolini. La gente in camicia nera si trovò a guardare il
balcone di Palazzo Venezia al posto dei marmi dedicati a Vittorio Emanuele.
La città che oggi conosciamo
e che ci appare “storica” è frutto di cambiamenti radicali avvenuti giusto
cent’anni fa. E le foto Alinari ci aiutano non solo a ricordare cos’era la Roma
di prima ma anche a vedere in filigrana i cambiamenti (urbani, di senso comune,
di stratificazione sociale, di gusto estetico) di questa strana, contraddittoria
modernità.
*ROBERTO ROSCANI (Nato a Roma nel 1952. Dal 1974 all’Unità, dove mi sono occupato molto di Roma, di cultura e poi di politica. Appassionato di storia - la laurea ce l’ho ma talmente tardiva da essere quasi una scusa per i soldi spesi in tasse universitarie - e di architettura, tagliatore di capelli in quattro: occupazione molto in voga nel Pci dei miei anni)
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