Alfonsina e la bici, la donna che sconvolse il Giro e l'Italia misogina

di ANGELO MELONE* 

In un certo senso divide anche ora, con la sua memoria. Sconosciuta a molti ma per tantissimi un simbolo della storia della bicicletta e delle conquiste femminili (non solo nello sport). Praticamente in tutte le interviste rilasciate da donne che, a vario titolo, saranno coinvolte nel raccontare il Giro d’Italia che sta per iniziare arriva puntale la citazione a “lei”. E nella piccola chiesa sul passo del Ghisallo a picco sul lago di Como – il vero santuario del ciclismo – insieme alle bici di Coppi, Bartali, Merckx c’è appesa la sua.

Le gesta e il coraggio di Alfonsina Strada sono state raccontate molte volte, ma la piccola donna travagliata, fortissima e ribelle, divenuta famosa – osannata e dileggiata – nella prima metà del secolo scorso attendeva qualcuno che le desse voce, che le permettesse di raccontare la storia della sua caparbietà, dei suoi drammi, della sua dolcezza.

L’ha trovata in Simona Baldelli, in un romanzo appena uscito, un libro sul ciclismo eroico e sul grande circo che gli girava intorno, ma soprattutto sulla storia appassionante di una donna dolce e triste, ma coraggiosa nello sfidare la fatica e le convenzioni per mostrare di non essere da meno dei maschi.


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Alfonsina fu la prima che, per più volte, ruppe tutte le convenzioni (e le leggi, anche non scritte) correndo con gli uomini. E mostrando, ogni volta, di essere incredibilmente al loro livello. Fino a completare – ultima, sì, ma non ritirata come tanti colleghi maschi – un massacrante Giro d’Italia nel 1924 che la rese famosa in tutto il mondo.

Che cosa volesse dire per lei “come gli uomini” sta nel dialogo che Simona Baldelli  immagina quando per la prima volta – dopo essere già tanto nota quanto esecrata dal giudizio sociale – si propone ai dirigenti della Gazzetta dello Sport per partecipare a una grande corsa, il Giro di Lombardia:

Varale prese la tessera e la studiò con attenzione. Poi gliela consegnò. «Allora dovreste sapere cosa c’è scritto, ovvero che certe competizioni sono riservate solo ai corridori. Quindi agli uomini».

«È colpa della nostra lingua» disse.

I due uomini si sporsero verso di lei contemporaneamente. «Cosa?».

Sicuro, precisò Alfonsina. I termini corridori o ciclisti definivano un insieme misto ed era impossibile distinguere con esattezza chi lo componeva. «Queste cose le so persino io che ho fatto solo due anni di scuola, figuriamoci dei professoroni come voi. Piuttosto, per il futuro, inventate delle parole più precise» concluse.

Cougnet scoppiò a ridere così forte che gli sfuggì la pipa di bocca. Varale, invece, era rimasto impalato come uno stoccafisso. 


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(La bici al museo del Ghisallo)

Ma questo è già dopo. Il “prima” di Alfonsina è una vita di stenti in una famiglia piena di figli e malattie che si spostava nella malsana campagna emiliana alla ricerca di un lavoro, e “Ogni volta le case erano più piccole, se case si potevano chiamare le capanne di calce e foglie, e l’aria più fitta di zanzare e mosconi. E il pane sempre scarso”. Fino alla folgorazione, a un catorcio di bicicletta che un medico regala al padre quasi come elemosina e che lei ruba di notte trovando la felicità: “Anche il nome era bello. Lo ripeté tante volte che la parola oltrepassò il significato originale e si trasformò in un marchingegno da favola. Era un cavallo magico, cui non serviva nemmeno la biada; una macchina inesauribile, capace di scavalcare pianure e montagne”. 

Non andava in bici, lei “era” la bicicletta in tutti i suoi pensieri. E andava istintivamente sempre più veloce. E’ l’inizio del Novecento, la “sartina” poco aggraziata scompare tutti i giorni a ora di pranzo dal laboratorio di Bologna (dove va con “il catorcio” che ha strappato al padre in un clamoroso gesto di ribellione) per andare ad allenarsi, e la domenica va a vedere i ciclisti correre alla Montagnola tra l’ironia del pubblico solo maschile. 

Lì incontrerà l’amore della sua vita, Carlo Strada, un uomo mite e visionario che la sposerà e la sosterrà sempre prima di finire in manicomio. Ancora dolcezza e tragedia si mescolano. La sposerà subito e lei non lascerà mai quel cognome che contiene il futuro che l’attende. E almeno ora la signorina Morini ha più forza per reagire alle furie delle altre lavoranti che si sentono infangate dal fatto che “la matta non stesse al suo posto”. Per non cedere al prete che piomba nel tugurio dei Morini inveendo: “Pio X l’aveva affermato chiaramente nell’ultima enciclica: “Le donne erano state fatte per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l’onestà del debole sesso”… Il velocipede favoriva la delinquenza… “Non commettere atti impuri! - tuonò -. La bicicletta conduce all’onanismo”. Nella cucina si fece un silenzio stordito. Nessuno aveva mai sentito la parola.


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(Alfonsina Strada esce dal suo negozio)

E trova soprattutto la forza per incassare gli insulti. Che la inseguono nella vita quotidiana e da bordo strada nelle gare, anche quando ormai inizia a vincere tanto da finire sui giornali. Quelli che nel momento più importante della sua vita le ricorda l’organizzatore del Giro d’Italia che ha il coraggio (ma anche molto da guadagnare dalla notizia clamorosa della partecipazione di una donna) di iscriverla: “Le conseguenze cui aveva accennato Cougnet erano ben altre. Si trattava delle riviste su cui venivano canzonate le donne che facevano sport, le offese dei tifosi, le prediche dei preti, lo scherno degli uomini al governo. Non gli sarebbe sembrato vero di cantare vittoria. Lo vedi, poveraccia che non sei altro? Avevamo ragione noi, vali meno. Ti credevi chissà chi, al pari dei maschi, e invece sei solo una povera illusa, una matta. Carne di scarto. Vacca, logia. Rabbrividì. Sulla bicicletta non ci sarebbe stata solo Alfonsina, ma tutto questo. Una responsabilità immensa. Era in grado di assumerla?”.

Se la assume, quella responsabilità. Ed è la vera molla che le permette di completare oltre tremila chilometri (su strade bianche) in dieci tappe. Vincendo il boicottaggio dei maschi che via via la accolgono, subendo le ironie anche maleducate dei giornali che poi sono costretti a trasformarla in eroina (riceverà persino i fiori e un premio in denaro dal Re), incassando insulti e ingiurie da un pubblico che – alla fine – va agli arrivi solo per vederla e portarla in trionfo. 


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(Alfonsina Strada anziana)

Ha vinto, anche se il suo meraviglioso lato malinconico e ribelle riesce sempre a vedere il “marcio” dietro i riflettori dei tanti appuntamenti – anche da circo – alla quale per anni viene invitata in tutto il mondo “la donna più veloce”. Coglie persino la tristezza negli occhi della Zarina e dei piccoli Romanov mentre la premiano al Palazzo d’Inverno insieme ai più famosi assi del pedale.

Quella di Alfonsina Strada è la storia di una grande donna del Novecento. Dopo i riflettori continua con serenità, nella bottega ciclistica aperta con il secondo marito e nell’affetto dei grandi (da Coppi in poi) che la vanno a trovare. Il tempo degli scherni – fino alla canzone “Bellezza in bicicletta” composta quasi ironicamente su di lei che certo bella non era – è alle spalle. La sua piccola amica di gioventù, che ritroviamo vecchia nel nuovo millennio, trova le parole per inaugurare una via che le viene dedicata: “Non so nemmeno come chiamarla. Ciclista non mi piace, la sminuisce… Chiunque monti una bicicletta può essere definito ciclista e lei era infinitamente di più. Lo sai, Alfonsina? Una giovane italiana è salita nello spazio, due anni fa… In molti l’hanno ammirata, qualcuno ha avuto parole di scherno, andasse a fare la calzetta, piuttosto. Cosa dicevano a te? Diversa, sbagliata, diavolo in gonnella, matta, vacca, logia. Ma tu avevi il destino nel nome, e ci hai indicato la strada”. 


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(Simona Baldelli  "Alfonsina e la strada"                Sellerio editore                  euro 17)


Ma forse è giusto che il nostro racconto si concluda in maniera particolare, come era lei. Simona Baldelli dice di averlo incubato senza riuscire a scriverlo fino ad aver incontrato Alfonsina. Aveva le sembianze della grande astrofisica (e innamorata delle bici) Margherita Hack che la stava interpretando, seduta in una vecchia bottega ciclistica, nel video che accompagna la bella canzone dei Têtes de Bois. Per chi vuole ancora un po’ di emozione, eccolo



*ANGELO MELONE (Nato nel '56, giornalista prima a l'Unità poi a Repubblica. Ama fare molte cose. Tra quelle che lo avvicinano a questo sito: la passione per i viaggi, tanta bicicletta e i trekking anche di alta quota)  


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