Al Pizzo dei Tre Signori, prealpi proletarie

di MARINA MORPURGO*

A me piacciono quelle montagne un po’ ruvide, spartane, scabre, proletarie. Quelle valli che le imbocchi e ti pare che una macchina del tempo ti abbia risputato negli anni Cinquanta, niente bar con gli aperitivi, niente frivolezze da cittadini, sentieri che hanno la dolcezza di una badilata nei denti, pensati per montanari che hanno il dislivello nel Dna e nei polpacci e non perdono tempo con gli zigzag. Quindi mi piacciono molto le Orobie Valtellinesi, anche se è un amore ambivalente perché sono un parco naturale ma ogni volta che ci vado incontro qualche moto da trial e dunque mi inviperisco per giorni, e faccio segnalazioni che immancabilmente non sortiscono alcun effetto. Tu chiamale, se vuoi, zone protette.

Il Parco delle Orobie Valtellinesi come dice il nome si affaccia sulla Valtellina con versanti ripidi e boscosi, così ripidi e boscosi da aver resa impossibile la nascita di impianti di sci, con l’eccezione di quelli della Valgerola, che con le sue poche piste perlopiù ombrose e difficili è una località per veri amatori (infatti io la amo). Il parco conta una serie di valli che probabilmente non avrete mai sentito nemmeno nominare – Val Malgina, Val d’Arigna, Val Cervia, Val Fabiolo… – e pensare che di fronte, dall’altra parte dell’Adda e a pochi chilometri, ci sono le vette blasonate e arcinote del granito delle Retiche: il Badile, il Cengalo, il Disgrazia…

Di qua le Prealpi, di là le Alpi. E le Prealpi sono Cenerentola, ma come sappiamo Cenerentola per quanto malvestita era molto bella, e aveva le sue carte da giocare. E le Orobie hanno le loro cime “speciali”.

Vi racconto dunque di una salita sulle Orobie al pizzo dei Tre Signori, che porta questo nome non a caso, ma in ricordo della storia di questi luoghi dove per secoli si confrontarono (in genere poco pacificamente) il Ducato di Milano, la Repubblica di Venezia e gli svizzeri delle Tre Leghe: è una montagna di confine, una montagna che vigilava tre territori, e infatti può essere salita da ben tre province diverse. Si può partire dalla provincia di Sondrio, di Lecco o di Bergamo, con scelta ampia ma con la certezza che comunque sarà una discreta scammellata, e che sarà bene non soffrire di vertigini. L’altezza del Pizzo è relativamente modesta: 2.554 metri che però sembrano molti di più per l’assenza di alberi, per i banconi di roccia, e le nebbie che quasi sempre lo avvolgono, a una cert’ora del giorno. E quando si arriva in cima la soddisfazione è tanta.

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Noi siamo partiti dal versante di Sondrio, e dunque dalla Valgerola, passando per il rifugio Falc (ferant Alpes laetitiam cordibus), dove abbiamo pernottato. La strada carrozzabile arriva fino a Pescegallo, ovvero a 1450 metri di quota, ma dato che noi ci vogliamo un po’ male decidiamo di aggiungere un po’ di dislivello partendo da Gerola Alta, che è 400 metri più in basso. Il sentiero per il rifugio Falc inizia dove c’è la stazione di partenza della telecabina dell’Enel (scordatevi di poterla usare per barare arrivando al lago di Trona, dove c’è la diga) e risale la valle della Pietra. Dopo poco ci si prospetta una possibilità di scelta: continuare lungo il sentiero tradizionale che si addentra nella valle, oppure prendere una deviazione sulla destra che risale un costone boscoso, e poi ci fa passare dal rifugio Trona Soliva. Dato che il sentiero “normale” prosegue con pendenza moderata per poi salire bruscamente, mentre la deviazione sulla destra parte subito ripida decidiamo che via il dente via il dolore e ci troviamo ad arrancare su un sentiero facile ma dalla pendenza gambicida. Finalmente sbuchiamo su prati più dolci e vediamo il rifugio Trona Soliva, che raggiungiamo dopo un paio d’ore di cammino (volendo, il rifugio si raggiunge meno faticosamente partendo dalla frazione di Laveggiolo: ma il percorso è meno bello e la soddisfazione minore).

Dopo una sosta frugale ci rimettiamo in marcia. Adesso il sentiero è molto più pianeggiante, e risale il lato destro della valle: dobbiamo puntare verso la Bocchetta di Varrone. Siamo su un terreno aperto, alpestre.

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 La minor fatica è compensata dal fatto che per alcuni tratti bisogna guardare bene dove si mettono i piedi, perché la traccia è stretta e a tratti franata, e carambolare di sotto non sarebbe simpatico. Qui incontriamo un gruppo di marmotte per nulla intimorite dalla nostra presenza.

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 Finalmente arriviamo con un ultimo breve strappo alla Bocchetta e sulla destra, appena più in basso, vediamo il rifugio Falc, in un avvallamento tra cime dirupate, a 2120 metri di quota. Sono zone selvagge, queste, e qui nel gelido inverno 1944-1945 vennero a nascondersi i partigiani, incalzati dai rastrellamenti che portarono i nazifascisti a incendiare quasi tutti i ricoveri degli alpinisti lecchesi.

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Avete presente quei rifugi delle Dolomiti dotati di tutti i comfort, quasi degli alberghi e ristoranti in quota? Ecco, scordateveli. Il rifugio Falc è un rifugetto di quelli di una volta: pulitissimo ma semplice, con i bagni all’esterno, letti a castello in due stanze comuni. In compenso ha una stufa a legna dalla quale escono teglie di lasagne e altre prelibatezze, e una bibliotechina di qualità eccezionale, e al posto della tradizionale pila di vecchi numeri di notiziari del CAI c’è una raccolta di Internazionale. Gli amici di Elisa, che gestisce il Falc, arrivano spesso con un buon libro nello zaino, da lasciare in regalo.

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 A differenza di altri rifugi non raggiungibili se non su sentiero, l’approvvigionamento avviene, per scelta, a dorso di aiuto-rifugista, e non con l’elicottero: è arrivata su schiena umana anche una delle due cagnolotte di Elisa, che ha diciassette anni e mezzo ma si rianima come una cucciola all’ora dei pasti. 

La notte trascorre tranquilla, la stufa a legna della cucina manda su talmente tanto calore che teniamo le finestre aperte.

Al mattino ci attende una salita breve, dal Falc alla cima sono meno di 500 metri di dislivello. Il sentiero sale ripido sul lato sinistro orografico del vallone dell’Inferno (nomen omen, come vedremo) e dopo poco ci troviamo ai 2200 metri della Bocchetta di Piazzocco, dove ci affacciamo sulla val Biandino e vediamo le balze rocciose della nostra meta.

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  Il cammino è gradevolissimo, adesso si snoda su placconate di roccia ruvida e bitorzoluta (è il verrucano lombardo, divertentissimo da arrampicare quando non te ne resta un pezzo in mano), ogni tanto appoggiamo le mani per mantenere l’equilibrio e fare meno fatica, ma non c’è alcun pericolo. Basta non perdersi e seguire i segni bianchi e rossi, che indicano la via.

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Quando spuntiamo in vista della cupola sommitale, la sorpresa: una famigliola di stambecchi ci passa davanti in assoluta tranquillità. Da queste parti ce ne sono parecchi, ieri ne abbiamo visto uno in controluce, su un cucuzzolo terrificante.

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Adesso manca pochissimo, ma l’ultimo quarto d’ora è il più pepato. Il sentiero si fa sempre più ripido e si arriva a una zona di rocce non difficili e assolutamente non verticali ma molto lisce: si risalgono aggrappandosi a una serie di cavi abbastanza provvidenziali, specie in discesa, perché in questi pochi metri è davvero vietato cadere (in caso di pioggia, neve o ghiaccio questo tratto finale può diventare estremamente pericoloso, e ogni tanto ci sono incidenti mortali).

Si dice sempre che la cima ripaga da ogni fatica: ebbene, in questo caso è vero, il panorama è amplissimo (quando le nubi fanno la gentilezza di scansarsi).

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Si potrebbe ridiscendere per la via di salita, noi invece poco sotto la cima prendiamo la deviazione sulla destra e torniamo alla Falc scendendo per il brullo e impressionante vallone dell’Inferno, con le sue rocce e pietraie rossicce che contrastano con il verde cupo e intenso delle acque del lago omonimo. Il sentiero è molto ripido e a tratti scomodo, ma facile, e solo quando lascia il fondo del vallone per portarsi verso il rifugio diventa un po’ stretto e con qualche brevissimo passo esposto.

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 Non ancora appagati, dal rifugio facciamo un’ulteriore deviazione, attraversiamo la diga dell’Inferno e scendiamo con il sentiero che porta alla diga del lago di Trona (anche qui il terreno è estremamente pendente, c’è un breve tratto attrezzato con un cavo, e qualche passaggio semplice ma da affrontare con cautela). Dal lago si risale per un centinaio di metri, seguendo le indicazioni per Pescegallo. Arrivati a un dosso estremamente panoramico (barando allego foto scattata lì in giornata limpidissima di luglio: mostra l’affaccio spettacolare sulle Alpi Retiche) con una piccola pozza e un pascolo, il gruppo si divide e scende in parte a Gerola Alta, attraverso un bosco molto ripido e in parte a Pescegallo attraverso un bosco altrettanto ripido ma più breve!

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Dato che non siamo nati per soffrire al termine di questo giro, non estremo ma comunque impegnativo, si suggerisce una fermata strategica a Gerola Alta per acquistare il formaggio Storico Ribelle – così si chiama da queste parti il pregiato Bitto: in Valgerola hanno deciso di mantenere la lavorazione tradizionale.


(Si ringrazia Andrea Panighetti, Accompagnatore di Media Montagna, per l’affettuosa assistenza al gruppo e parte delle foto)


*MARINA MORPURGO (Ex giornalista, ora traduce romanzi, scrive libri di storia per le scuole, pascola cani e va in montagna)


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