A Zungoli, a Zungoli ...

di TINA PANE*

La giornata è bellissima, dopo molte che hanno alternato piogge, vento e umor nero. E poi è domenica, un giorno adatto per truffare la malinconia. Così, anche se in formazione ristrettissima -solo il marito, il figlio ed io, perché gli altri amici candidati alla gita stanno aspettando l’esito di un paio di tamponi - decidiamo di andare a Zungoli.

Sarà che la bellezza è negli occhi di chi guarda, sarà che cercare nuovi orizzonti è diventato un bisogno primario

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ma già la strada per arrivare a destinazione, la quieta A16 Napoli- Bari, si fa viaggio e relax in mezzo a una natura poco antropizzata, e i pochi chilometri tra l’uscita di Grottaminarda e la nostra meta bastano per spiegare al figlio - un po’ debole in geografia, come tutti i postmillennials - perché questa regione sia chiamata la Verde Irpinia.

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Benvenuti a Zungoli, dunque, provincia di Avellino ma ai bordi della Puglia

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mille abitanti e una storia lunghissima, che nasce con l’incastellamento intorno all’anno 1000 e prosegue con i Normanni, gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi e poi i Loffredo di Trevico (sì, quello che ha dato i natali a Ettore Scola), che dominarono il paese fino alla soppressione della feudalità a inizio Ottocento. Qui fu costruita la via Herculea, che metteva in comunicazione l’Appia e la Traiana, qui fu governatore nel 1618 Giambattista Basile (e pare che qui cominciò a scrivere Lo cunto de li cunti), di qui passava il Regio Tratturo Pescasseroli–Candela.

Terra di confini, scambi e commerci, terra di transumanza e coltivazioni, oggi Zungoli ha il passo lento, quasi rarefatto, di un paese alle prese con il fenomeno dello spopolamento,

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un paese che cerca, anche grazie ai recenti riconoscimenti (Bandiera Arancione del Touring e rete dei Borghi più belli d’Italia) di trasformare la sua debolezza in attrattore turistico e agganciare la tendenza - favorita dalla pandemia - a battere le strade delle province, delle regioni in cui viviamo, andando a scoprire i posti meno noti, i toponimi mai sentiti o non presi in considerazione prima.

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All’ingresso del paese, proprio di fronte a un bar che risulterà essere uno dei luoghi più animati che incontro,

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c’è un ufficio informazioni dove due gentili ragazzi mi consegnano una piantina cui butterò un occhio distratto durante la visita, preferendo girare a ruota libera. Lungo il ponte con cui si accede al centro storico

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e davanti al bel Castello Normanno, purtroppo chiuso

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stazionano i pochi stand del mercatino domenicale: qualche prodotto locale, abbigliamento e soprattutto trapunte e piumoni per affrontare l’inverno, che qui è duro.

Di fronte al Castello si affacciano due palazzi nobiliari ben tenuti e poi, appena comincio a inoltrarmi per vicoli e stradine, incontro molti lavori in corso per ripristinare le facciate e tante porte e finestre chiuse. 

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Ci sono ovunque eleganti portali sette e ottocenteschi in pietra chiara, 

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e segni di vita dove stanno panni stesi e piante. 

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C’è aria fine e un silenzio quasi inquietante che viene rotto dalla piccola folla di persone che esce dalla Chiesa della Madonna Assunta alla fine della messa.

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 C’è un saliscendi di viuzze e scale, gradinate, archi, improvvisi spiazzi ariosi e andirivieni di gatti che non si fanno avvicinare.

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Ci sono insegne testimoni di antiche attività, 

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simboli di archeologia politica e un bell’acciottolato comodo da calpestare.

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 Sotto i miei passi, sta scritto nel pieghevole, c’è tutto un dedalo di cunicoli e grotte in tufo, costruite forse in epoca romana, che servirono da abitazione, cantine e depositi, e dove ancora si stagiona il caciocavallo podolico (dal greco podos, piede), così chiamato perché le mucche sono sempre state al pascolo libero.

Si sale, si scende, si passa dal sole all’ombra, da palazzetti curati a facciate segnate dall’abbandono, da vicoli angusti a improvvise aperture di cielo e di verde.

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 Siamo nella Valle dell’Ufita, a 657 metri slm, attorniati dai monti Molara, Monticelli e Toppo dell'Anno, l’aria è buona e d’inverno la neve non manca. Nell’arco di poche decine di chilometri gli altri piccoli comuni della zona, tra cui Casalbore (1900 abitanti), Flumeri (3100), Melito Irpino (2000), Savignano Irpino (1200) e Sturno (3000) condividono con Zungoli storia, tradizioni e il tentativo di valorizzare il territorio.

Ne è prova la piccola pubblicazione Informatore Irpino - sottotitolo Tra sacro e profano - che presenta al lettore le attrattive della verde Irpinia: la tradizione enogastronomica, un tratto della via Francigena, la natura incontaminata, i riti religiosi che danno identità a queste piccole comunità, la dimensione umana del vivere, la buona accoglienza. Ma colpisce che la stragrande maggioranza delle pubblicità presenti nella pubblicazione siano di aziende, negozi e attività di Ariano Irpino, la metropoli della zona, punto di riferimento per ogni necessità o acquisto.

A Zungoli ci sono alcuni bar, una macelleria, un supermarket

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e un negozio di ceramiche artistiche; un oleificio, un paio di ristoranti, un agriturismo, un albergo e un B&B. C’è una terra fertile, dove si alleva il bestiame e si coltivano grano e altri cereali; e poi c’è la coltura dell’olivo, che qui fornisce la pregiata cultivar Ravece, un olio che ha fatto incetta di premi e intorno al quale fino all’anno scorso si organizzava un festival. E c’è soprattutto la natura, gli spazi, l’aria, che tradotti in elementi turistici potrebbero diventare passeggiate e trekking, fattorie didattiche, visite guidate naturalistiche, in un territorio in cui anche le pale eoliche, per fortuna lontane, contribuiscono a una forte connotazione paesaggistica.

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Il futuro di un posto come Zungoli, penso dopo aver incontrato Carmelo,

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 che staziona sotto la sua casa e mi aggancia, lamentandosi mitemente della fuga delle giovani generazioni, che abbandonano case e attività dei loro vecchi quando questi finiscono, sta nella capacità degli amministratori di fare un salto di prospettiva. Andare oltre l’organizzazione di una sagra stagionale, coinvolgere la popolazione, fare rete con gli altri comuni, cercare di stabilizzare e prolungare l’afflusso dei visitatori offrendo esperienze.

Sarà il periodo che fa sentire in gabbia, sarà che la città opprime più del solito in questo strano e cupo momento storico, ma più del severo fascino di Zungoli mi ha fatto bene perdermi in auto per le stradine di campagna sulla via del ritorno.

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 La natura, matrigna o no, da queste parti è ancora così bella.


 * TINA PANE (Napoli, 1962. Una laurea, un tesserino da pubblicista e un esodo incentivato da un lavoro per caso durato 30 anni. Ora libera: di camminare, fotografare, programmare viaggi anche brevissimi e vicini, scrivere di cose belle e di memorie)

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