23 novembre1980, la scossa che cancellò l'Irpinia

di MARCELLA CIARNELLI*

In questo tempo che ci sta cambiando la vita inesorabili arrivano gli anniversari di eventi che ci hanno già cambiato la vita. 1980, bisestile come questo 2020. Sono passati quarant’anni da quell’anno che si aprì con l’assassinio di Piersanti Mattarella, proseguì con la strage di Ustica e della stazione di Bologna e culminò con la tragedia del terremoto che il 23 novembre sconquassò la Campania per 90 secondi. Dopo molti anni il bilancio ufficiale di quell’evento, sicuramente non completo, è di 2914 morti, 8848 feriti, 280.000 sfollati. Un territorio grande come il Belgio che in una manciata di secondi vide cancellate storie, paesi, persone, pezzi di città. Economie e famiglie. Amori e rancori.

Di ogni evento importante ognuno cerca di ricordare dov’era al momento in cui esso accadeva. E’ capitato per l’assassinio di Kennedy e per quello di Aldo Moro. L’uomo sulla luna e le dimissioni del Papa, le uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Il terrorismo nelle sue espressioni più dure. Lady D. Faceva caldo in quella sera di fine novembre. Le scosse portarono subito dopo freddo e anche neve sulle montagne. Con i miei colleghi  e amici Maddalena Tulanti e Gigi Vicinanza il 23 novembre eravamo nella redazione dell’Unità di Napoli, in via Cervantes, a cercare di portare svogliatamente a conclusione un turno domenicale di poco lavoro. La televisione accesa per le ultime notizie che d’improvviso manda scintille. I muri che non reggono l’urto della terra che si ribella, si aprono fessure sempre più profonde. La ricerca dei muri maestri per ripararci. Ma i palazzi di cemento armato non ne hanno. Lo abbiamo scoperto in quei giorni. Uno sguardo tra noi per riuscire a capire cosa stesse succedendo. La paura. La fuga.


BERLINGUER NEL CRATERE, LE FOTO DI MARIO RICCIO



Novanta secondi sono un’eternità. C’è tutto il tempo per avere paura, tanta. Per decidere cosa è meglio fare per salvarsi da una furia sconosciuta con cui poi avremmo imparato a familiarizzare nei mesi, scossa di assestamento dopo scossa. Le scale si è sempre detto che non bisogna inforcarle. Le scale ci sembrarono l’unica uscita possibile verso la salvezza per quanto pericolosa. C’era un compatto mosaico azzurro a decorare le pareti e i ballatoi. Le tesserine cominciarono a cadere una dopo l’altra sulla nostra testa. A grappoli, da sole. Ognuna che veniva giù poteva essere un pezzo di quel palazzone fino ad allora amico. Le braccia sulla testa a difendere ingenuamente l’indifendibile ove mai la struttura non avesse resistito. Finalmente l’androne.

La strada era bianca di polvere in un silenzio innaturale. Qualcuno scappava. Poi d’improvviso si ricominciarono a sentire rumori. Le auto. Le parole. E cominciò a farsi strada la consapevolezza che il dramma della città altrove si sarebbe rivelato irreparabile. Il grattacielo dell’hotel Jolly di via Medina, costruito su fondamenta elastiche proprio per resistere ad un’onda d’urto come quella che stavamo vivendo, ondeggiava quasi a piegarsi verso di noi che correvamo verso la Questura. Bisognava avvertire il giornale, chiamare Roma. La notizia del disastro lì non era ancora arrivata. La demmo noi. Dapprima fu scetticismo. In pochi secondi fu consapevolezza. Cominciarono ad arrivare tutti i colleghi. Quell’evento è una ferita che negli anni si è rimarginata ma che ha lasciato cicatrici indelebili.

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Il palazzo di via Stadera crollato. I vicoli del centro storico, dei quartieri spagnoli diventati di colpo fragili, insicuri. A distanza di quarant’anni le impalcature sono ancora parte integrante del paesaggio. Napoli soffrì dolori e distruzioni. Nei bassi le famiglie numerose si sentivano in gabbia. La via di fuga da lì era un’utopia. La strada per giorni diventò casa. Strutture di fortuna, le auto. Maurizio Valenzi, il sindaco, diede ordine di tenere accese le luci di Palazzo San Giacomo, il municipio. Un faro in quella notte e in tutte quelle che si susseguirono. Furono giorni, mesi, di dolore e di sconforto. Di incontri che sono rimasti nel cuore. Uno dei miei ricordi più cari è la foto proprio nello studio del sindaco mentre relaziono a Enrico Berlinguer, il segretario del Pci arrivato a rendersi conto di persona, quello che avevo visto in una giornata. Me la fece Mario Riccio, fotografo, collega e amico indimenticabile.

Avevamo capito subito che il dramma si stava svolgendo altrove. Lassù, sulle montagne dell’Irpinia e in parte della Basilicata. Nei paesi che furono definiti del “cratere” in un’area grande come il Belgio. Dei 119 comuni di quella zona ne scomparvero 99. I presepi abbarbicati sulle montagne d’un colpo furono trasformati dalla furia della terra in quinte vuote di teatro, scivolati via lungo i valloni. Dal cocuzzolo al pianoro. C’era qualche muro in piedi, un quadro era rimasto attaccato alla parete, qualche lampadario dondolava al primo refolo. Un colore uniforme, grigio. E migliaia di persone alla ricerca di un riparo mentre la neve cominciava a cadere.

Al giorno d’oggi le cose andrebbero diversamente. Le comunicazioni sono altre, le esperienze del passato hanno comunque creato strutture di soccorso, il buio che non si riusciva a vincere probabilmente verrebbe squarciato con raffinati nuovi strumenti e non solo con le fotoelettriche dell’esercito. Le case non sono più quelle antiche di pietra, abitazione e stalla. E vengono costruite meglio, o almeno dovrebbero, perché un’altra drammatica conseguenza di quel disastro è stata una ricostruzione lenta, condizionata dalla burocrazia ma più di tutto dalla criminalità organizzata che mise da subito le mani sulla miniera d’oro di stanziamenti che arrivarono in proporzione in tempi più celeri dei soccorsi. Piatto ricco mi ci ficco. E in questo la camorra è maestra. Per il terremoto dell’80 sono stati spesi 50mila miliardi delle vecchie lire. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. I bilanci del malaffare non sono visibili ma opulenti.

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Quarant’anni fa per almeno due giorni sembrò che il tempo si fosse fermato. Ci furono tragici ritardi contro cui il presidente della repubblica, Sandro Pertini, fece sentire la sua voce. Un j’accuse drammatico dopo essersi recato in tempo reale sui luoghi devastati. Ci fu un ritardo colpevole prima che faticosamente riuscisse a mettersi in moto la macchina degli interventi. Con difficoltà e inefficienze cui invano i volontari arrivati da ogni parte cercarono di sopperire. Perché non accada un altro Belice, chiese il Capo dello Stato, davanti a quella immane tragedia. Non è andata così.

 “Fate presto” titolò “Il Mattino”, il giornale della città, mentre dalle macerie arrivavano sempre più flebili i lamenti dei feriti e i sopravvissuti si stringevano sotto le tende da campo dei soccorsi. Gli aiuti arrivarono anche da tutta Europa. Ma quel ritardo iniziale resta una delle pagine più buie nella storia di un Paese che conosce la solidarietà ma non l’organizzazione.

La neve che cominciava a cadere, i fuochi da campo, la gente sgomenta che cercava di ritrovarsi, mi comparvero davanti, guardando dal finestrino di un elicottero militare tedesco. Sotto di noi Calitri, uno dei paesi scivolati via. Caposele, Calabritto, Senerchia, Conza della Campania, l’epicentro. Nomi spesso mai sentiti prima. Alla fine i comuni colpiti furono 687 sparsi per un’area di almeno 15.000 chilometri. Una tragedia nazionale, di tutti, che nel mondo delle comunicazioni scarse non fu subito compresa. Ma numeri anche gonfiati dagli amministratori locali per non rinunciare ad un pezzo della torta della ricostruzione.

Fu difficile raccontarla quella tragedia. All’epoca per comunicare c’erano le cabine e i telefoni a gettone, sempre che le linee funzionassero. I primi cellulari arriveranno tre anni dopo ed erano genere di lusso. C’era l’ospitalità gentile di qualcuno la cui casa non era crollata e il cui apparecchio ancora funzionava. Si dettavano i pezzi. Trovare un fax sembrava il segno di un miracolo. Prendiamoci un caffè era una proposta irrealizzabile. Mangiare? Nelle mense sotto le tende con gli sfollati e con i militari che li aiutavano. Intorno c’era ovunque distruzione. Morte. Dolore.

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Proseguirono per giorni e giorni, mesi, le ricerche dei sopravvissuti. Tra il dolore dei parenti e le difficoltà dei soccorritori. Con la sensazione addosso che l’impresa, certo immane, di riportare alla normalità quella zona così grande del Paese non sarebbe mai stata realizzata. Sembra essere questo il destino inesorabile delle zone soggette ai terremoti, in pratica tutta l’Italia. Il solo Friuli è forse sfuggito a questo destino. Gente diversa, una terra diversa. Molte caserme presenti sul territorio e quindi un intervento molto più veloce. Ci andammo noi giornalisti del Sud in quella terra per vedere come avevano fatto ad uscirne. Una visita istruttiva. E deprimente. Il Sud non sarebbe riuscito a curare le sue ferite allo stesso modo. Un’analoga visita in Belice ce ne dette conferma.

Il Friuli nel 1976, la Campania poi, resero evidente la necessità che anche l’Italia si dotasse di una protezione civile organizzata per programmare interventi indispensabili in una terra che ballerina è per sua natura. L’organizzazione del dipartimento di protezione civile della presidenza del Consiglio fu affidato a Giuseppe Zamberletti, politico di lungo corso, democristiano doc, molto esperto e appassionato, ma innanzitutto convinto della necessità di un sistema di prevenzione tale da essere in grado di coordinare e organizzare la macchina dei soccorsi. Le cose adesso sono diverse per quanto riguarda gli interventi immediati. Non per la ricostruzione. L’Aquila, l’Umbria, l’Emilia, Amatrice sono lì a dimostrare i limiti e l’inadeguatezza di una macchina lenta che ancor più si inceppa per burocrazia e malaffare. Nessuna di quelle realtà è riuscita a recuperare la propria identità. Le catastrofi saranno anche in molti casi imprevedibili però resta purtroppo vero che l’interesse economico e il disinteresse ambientale degli uomini ha aggiunto danni a danni. E che l’interesse personale di un politico può deviare fondi e interventi. Gonfiare le perizie in cambio di voti.

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(Il presidente Pertini)

Zamberletti si occupò del Friuli. E poi fu nominato commissario straordinario in Campania pochi giorni dopo il sisma lavorando, lui e il suo braccio destro, il prefetto Enzo Mosino, a stretto contatto con le istituzioni locali a cominciare dal sindaco Valenzi. Un comunista e un democristiano impegnati nella stessa sfida. Era un uomo compito Zamberletti. Decisionista e garbato. Anche durante i sopralluoghi nel fango si presentava in giacca e cravatta. “Rappresentava l’autorevolezza dello stato”, ha raccontato Mosino. Quelli non erano tempi in cui si sfoggiavano felpe e divise di questa o quell’arma per segnare una partecipazione funzionale solo a sè.

A proposito della necessità di un decoro istituzionale Zamberletti una volta mi raccontò che anche lui quando arrivavano le scosse di assestamento che durarono per mesi aveva paura. Ma può un commissario straordinario correre in strada in pigiama come capitava ai napoletani? Dalla Prefettura, dove c’era il quartier generale e il suo alloggio, si allontanava con calma ma a passo veloce indossandone uno scuro. “In lontananza, nel buio della notte sembra un abito. Chi ha il tempo di vestirsi se il palazzo trema...”. La vicenda umana e professionale di Giuseppe Zamberletti che Spadolini nominò ministro della Protezione civile, ha conosciuto anche momenti d’ombra. Ma nel disastro di quei giorni terribili, nel nulla in cui bisognava recuperare i morti e salvare i feriti, in cui bisognava cercare di ricostruire un tessuto sociale smagliato dal terremoto, quell’embrione di protezione civile servì ad uscire dal tunnel in fondo al quale la luce è rimasta fioca.

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La terra non si controlla. Se decide di sussultare lo fa senza avvertire. Gli uomini non sono in grado, pur usufruendo ora di raffinate tecnologie, di avvertire il disastro prima che avvenga. Dicono che gli animali siano più capaci di farlo.  E ci si attacca a qualunque cosa. A Napoli in quei giorni correva una certezza. Che il sisma che aveva messo in ginocchio quel bel pezzo d’Italia fosse prevedibile. Sarebbe bastato leggere con attenzione “Le profezie” di Nostradamus, astrologo e scrittore del ‘500, che in un passaggio del suo scritto parlava di una terra di mare all’ombra di un vulcano che avrebbe tremato in modo disastroso dopo la visita di una regina delle rose. Nell’ottobre del 1980 a Napoli era arrivata in visita la regina Elisabetta d’Inghilterra, un paese che nella sua storia con le rose ha avuto molto a che fare. Chissà.

Quella tragedia non è stata una favola.  E resta difficile e impegnativo misurarsi ogni volta con disastri non prevedibili ma capaci di condizionare la vita di chi ci capita. Resta impossibile, anche in questi tempi così avanzati, riuscire ad andare oltre lo sgomento, il dolore ed è ancora difficile riuscire a consegnare, a chi l’ha pagata cara, le chiavi di una vita certamente diversa ma compiuta, dignitosa. Una vita.

*MARCELLA CIARNELLI (Romana di ritorno, napoletana per sempre. Giornalista per passione sempre all’Unità. Una vita a seguire le istituzioni più alte fino al Quirinale senza perdere la curiosità per ogni altro avvenimento. Tante passioni: il cinema, il teatro, i libri, il mare, i viaggi, la cucina, gli umani nelle loro manifestazioni più diverse…e la squadra del Napoli)

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