RECENSIONE - Storia di Matilde, quegli ultimi tre passi sul filo teso dell'amore

di SERGIO SABATTINI*

(immagini da Pixabay)

Non ho da vantare titoli in campo letterario. Sono un funzionario del PDS in pensione. Ma dichiaro senza reticenze che Cammina leggera mi ha intrigato, coinvolto.  Cosa mi ha colpito? In sintesi, la vicenda di una donna, Matilde,  che fin da bambina, per poter avere fiducia in se stessa, ha bisogno della valutazione dell’altro da sé: il fratello, la madre, il padre, lo psicanalista, l’amante, potrei dire gli amanti, etc. Una donna, in sostanza, cui è stata rubata o quantomeno fortemente condizionata la capacità di essere autonoma nella relazione con l’altro e che abbisogna di un timbro parentale (materno e del fratello, dell’ultimo compagno di vita Piero) per potersi sentire adeguata alle diverse situazioni in cui si viene a trovare. 



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("Cammina leggera" di Maria Chiara Risoldi    ed. Manni   pagg. 160    euro 17,50)


Ho provato un sentimento di tenerezza per quella bambina e per quella donna.  Mi è scattato un sentimento direi quasi di identificazione. E mi ha portato a riflettere sulla mia condizione di figlio in perenne combattimento con me stesso e con una madre onnipresente, onnisciente e trionfante su tutto e su tutti. Mi ha fatto riflettere su quella delicata dinamica genitori-figli che costituisce l’origine di molti stati di sofferenza di noi umani, e non solo come figlio, ma anche come padre. Mi sono trovato a domandarmi se, come padre di una figlia oggi adolescente, non sia mai stato causa per lei di frustrazione o del formarsi di vere e proprie inibizioni.


"Cammina Leggera", ex aequo premio Amadei.  La motivazione


Un buon genitore sostiene la figlia o il figlio, favorisce la crescita del suo io, cerca di non frustrarne le speranze, le aspettative, l’idea di sé che si viene formando nel tempo. È facile a dirsi. Ma assolutamente difficile a farsi. Direi, più precisamente, assai raro. Particolarmente se andiamo indietro di una o due generazioni. Al tempo in cui nelle famiglie trionfava quella che io chiamo una sorta di pedagogia della prevaricazione inconsapevole di sé, fatta di prescrizioni immotivate ed indiscutibili. 

L’unica casistica a mia disposizione è quella personale. Per esempio, a me è capitata in sorte quella che Philip Roth, nel Lamento di Portnoy, definisce una madre fallica. Quando, ancora molto piccolo, non avevo voglia di cibarmi, mi minacciava di tagliarmi il pisello con un coltello. Cresciuto di qualche anno, quando parlava di me con gli altri mi descriveva come uno che non aveva voglia di studiare, non ubbidiva, non si lavava, non si comportava bene, insomma, come il peggio del peggio. E lo faceva in mia presenza. Nei negozi in cui l’accompagnavo per la spesa, a casa delle amiche. Ed è andata avanti così per tutta la vita. 

Addirittura – ero già sposato ed ero andato ad abitare da Bologna in un paese del contado – si lamentava con me, con gli amici e con tutti coloro con cui aveva l’opportunità di parlare nel quartiere in cui abitava, accusandomi di averla abbandonata. E quando parlavamo non faceva mai cenno al mio lavoro, che era la politica. E se per sbaglio lo faceva, era solo per definirmi un perdigiorno. Da ragazzo ero una promessa del calcio, mai una volta che mi sia venuta a vedere giocare. E questo in verità vale anche per mio padre. Dopo la morte di mia madre, tra le sue carte, ho trovato un sacco di mie fotografie, che mi rappresentavano a diverse età e in varie occasioni, comprese quelle sportive, e di ritagli di giornale relativi alla mia esperienza politica e istituzionale. 

La sua linea educativa nei miei confronti è risultata, post mortem, evidente: tenermi il più possibile basso in pubblico ed essere liberamente orgogliosa di me in privato. Ma guai a farmelo sapere. Perché lo faceva? Non so bene. Ma è del tutto evidente che questa linea educativa non può che comportare frustrazione ed anche dolore nell’educando. È a questo proposito che ho provato un sentimento di solidarietà per Matilde. 

Il libro ci parla, attraverso la narrazione della protagonista al suo psicoterapeuta, di diversi episodi verificatisi nell’infanzia e nell’adolescenza, dei danni che possono venire dalla relazione con una madre onnipotente e con un fratello che per affermare se stesso necessita della devozione dell’altro. La devozione, la vera devozione, non si ottiene attraverso la messa in atto di comportamenti coercitivi di qualsiasi tipo. Non si deve nemmeno “ottenere” nella relazione tra due persone. O esiste come libera scelta soggettiva ed è reciproca o è frutto di una frustrazione, di un ricatto, che ha a monte una violenza. Ecco perché ho provato un sentimento di solidarietà per Matilde, e sono stato disposto anche a perdonarle quel suo ricorrente bisogno di descriversi bella, piacente, intelligente. 


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È del tutto evidente la ragione del bisogno che ha di affermare se stessa contro le frustrazioni che ha dovuto subire fin dall’infanzia. Maria Chiara le chiama violenze. Che a lungo andare distorcono l’immaginario di un essere umano e ne possono inibire le capacità affettive. Ad esempio, spingendolo a sopportare le umiliazioni inflitte da un fratello maggiore, come mezzo per ottenere consolazione da lui e dalla madre.  “Come se tollerare la sofferenza – fa dire l’autrice a Giacchetti, lo psicoterapeuta – fosse il prezzo da pagare per poter provare piacere”. Così come è del tutto evidente che un simile dressage comporti una distorsione di quella dote propria di tutti che è la capacità di sedurre. 

Questa distorsione è messa in tutta evidenza nei colloqui tra Matilde e il suo psicoterapeuta. C’è un passaggio che considero emblematico. “Giacchetti si è dovuto impegnare a sgomberare il verbo sedurre dalle sfumature drammatiche con cui la mia infanzia l’ha colorato. Ha usato tutti gli strumenti possibili, mi ha fatto riflettere sui sinonimi, positivi e negativi: conquistare, affascinare, incantare, inebriare, lusingare e stregare, rapire, irretire, adescare, circuire…”. 

Questi sinonimi sono tutti univoci, vanno tutti dal soggetto che agisce all’oggetto dell’azione. Fanno emergere, in sostanza, un’idea di seduzione tutta frutto di un’azione del soggetto nei confronti dell’altro da sé, senza che quest’ultimo possa interagire. Una idea di seduzione che sarei portato a definire aggressiva ma anche reattiva, e tutto considerato incompleta, cui la protagonista è stata ridotta da un sistema di relazioni frustranti fin dall’infanzia.

L’idea di seduzione che mi sono fatto nel corso della vita è sensibilmente diversa, molto più prossima, per esempio, a quella espressa da Karen Blixen in Ehrengard, là dove fa dire a Herr Cazotte: “(…) Voi affermate che un artista è un seduttore, senza rendervi conto che gli fate il più grande complimento. Tutta la disposizione mentale dell’artista di fronte all’universo è quella di un seduttore. E infatti, che cosa vuol dire seduzione se non l’abilità di indurre, con infinita sollecitudine, pazienza e perseveranza, l’oggetto sul quale concentriamo i nostri pensieri a rivelarci, spontaneamente e con estasi, la sua più intima essenza?” 

Cioè un’idea secondo cui l’atto del sedurre prevede una sorta di reciprocità pacifica, vorrei dire “programmatica”, comunque non dispotica né aggressiva, che ricorda tanto quella immaginata da Aristofane nel Simposio col suo racconto delle anime che si inseguono. La seduzione come ricerca dell’altro da sé per misurare e completare se stessi. In cui i protagonisti sono due. Alla pari, diciamo così. Non come atto unilaterale, frutto di una primitiva voracità o rapacità, volto esclusivamente alla soddisfazione di se stessi. 

Non saprei dire, francamente, se questo modello, diciamo così piratesco, sia frutto più tendenzialmente esclusivo della cultura maschile. A naso mi pare di no. Direi che è più propriamente tipico della natura umana e del suo carattere istintuale fondamentalmente vorace. Altra cosa, e assai diversa, è la reazione che talvolta segue la delusione per una seduzione mancata o respinta o per la fine di un amore o per un tradimento. In questo caso la reazione femminile e quella maschile, come ricorda Matilde al suo compagno Piero, tendono a divergere:

 “Voi uomini siete meno in contatto con le emozioni di quanto non lo siamo noi donne, così succede che noi soffriamo di gelosia molto più di voi. Non avete sfumature: o non provate niente, e rimuovete il sentimento, o lo agite brutalmente, arrivando perfino a uccidere. È una generalizzazione che ha ovviamente le sue eccezioni. Noi donne soffriamo, ci aggrovigliamo, facciamo scenate, piangiamo. Il luogo comune ci vede solitamente vittime delle infedeltà dei mariti più che carnefici. Si crea inconsapevolmente una divisione delle emozioni: la controllante e il controllato, la gelosa e il fiducioso. La secondina e il carcerato. Ulisse e Penelope. Tu eri Ulisse e io Penelope. Non voglio più essere Penelope”. 



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In realtà ciò che sembra rimanere sottotraccia è il vero problema connesso alla gelosia: quello del delirio di possesso dell’altro da sé.  Le espressioni “mia moglie”, “mio marito” e tutte quelle consimili, in cui compare l’aggettivo possessivo riferito da un umano a un altro essere umano, sono destituite di fondamento dalla abrogazione della schiavitù nel mondo. Ci si può dare in amore per sempre o per un breve incontro, ma senza mai essere espropriati di se stessi. Fin tanto che questa specie di habeas corpus non è entrato nella testa di tutti, avremo a che fare con atti sempre più intollerabili per qualsiasi coscienza che si voglia reputare civile. 

Nel finale di Cammina leggera, la crisi di Matilde, innescata dalla morte del fratello, si manifesta nella forma della insopportabilità di quelli che lei ritiene essere i tradimenti del suo compagno Piero. Per questa ragione decide di interrompere il suo lavoro di psicanalista e addirittura di lasciarlo e si rifugia per un periodo di tempo in un buen retiro in cui, con l’aiuto di un nuovo psicoterapeuta, cerca di dipanare la matassa della sua vita affettiva ridotta ad un groviglio apparentemente inestricabile. Si tratta di una donna sui sessant’anni, con un vissuto ricco e complesso. Inevitabilmente, è un lavoro di ricostruzione fatto di lacrime, dolore e ricordi, nel corso del quale la sua relazione con Piero resta in bilico, fino al raggiungimento di un punto di equilibrio come punto di partenza di un nuovo inizio.

Nel colloquio finale con Piero, dopo il rientro dal suo rifugio, la protagonista del racconto mostra che il processo di ri-alfabetizzazione cui si è sottoposta l’ha messa in grado di affrontare i conflitti legati alla sua relazione. Non li ha eliminati. Li ha resi gestibili. Parlando del loro rapporto e della sua gelosia, Matilde afferma:

“(…) Ti ricordi il film The walk? Quello che racconta la storia del funambolo che nel ’74 camminò su un filo teso tra le Twin Towers?”

“(…) Siamo funamboli, Piero. (…) Camminiamo sul filo”.

“Se fai la traversata – commenta Piero – con il cavo di sicurezza non ha più senso, è come far finta, è da codardi”.



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“Amare – conclude Matilde – è camminare sul filo senza cavo (…) Una cosa non deve mai fare un funambolo, distrarsi gli ultimi tre passi. Molti funambuli muoiono perché dimenticano che mancano ancora tre passi, amarsi è come prolungare all’infinito quegli ultimi tre passi”.

 A differenza di molte Grandi narrazioni che tutti noi abbiamo frequentato in gioventù, le cosiddette microstorie sono quelle che ci offrono una rappresentazione più prossima alla realtà. Siamo imperfetti e, per vivere, dobbiamo sudare sangue e anche soffrire. Non sempre ci riusciamo, per debolezza, viltà, egotismo, e per tante altre ragioni ancora. E anche questa è una caratteristica che ci lega gli uni agli altri. Un filosofo diceva che vivere significa vivere per morire. Un grande poeta nostro, Leopardi, profondo materialista, non si discostava di tanto da una simile visione. Mi permetto una generalizzazione: non solo amare, ma vivere è camminare sul filo, è come prolungare all’infinito quegli ultimi tre passi dell’equilibrista.

Infatti, se non ci facciamo sopraffare dalla quotidianità, dai suoi rumori, dai suoi riti, e manteniamo vigili e allertati tutti i nostri sensi, possiamo scoprire come la vita e le sue manifestazioni, e anche l’amore, a qualsiasi età, costituiscono una occasione e una possibilità per affinare questi stessi sensi e la nostra capacità di capire le cose. Perché capire le cose, cioè saper guardare a dove siamo, dove ci dirigiamo, come ci muoviamo, etc., aiuta a continuare a camminare sul filo. Perché è vero – quantomeno è vero per me - che camminiamo sul filo senza cavo di sicurezza ed è vero che il nostro scopo è solo quello di continuare a camminare.

 

 *SERGIO SABATTINI  (Sergio Sabattini ha avuto una lunga carriera prima nel Partito Comunista di Bologna, poi nel Partito Democratico della Sinistra del quale è stato parlamentare per due legislature. La sua ultima carica è stata sindaco di Porretta Terme)


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