L’Italia “coast to coast”. In bicicletta 5) Da Grosseto a San Benedetto del Tronto

di ALESSANDRO CALDERONI e ANGELO MELONE* 

Tutto nasce da un gruppo di amici innamorati della bicicletta e sensibili al fascino di un’idea – “coast to coast” – che partendo dagli Usa ha conquistato il mondo. Due coste ci sono anche qui da noi. E così un anno dopo l’altro, per quattro o cinque giorni alla fine di maggio, tutti in sella sui percorsi tracciati da uno di loro – Alessandro – che fossero i più belli anche se spesso i più faticosi. Da un mare all’altro, da Sud a Nord. Li raccontiamo seguendo gli appunti di Alessandro, per chi ha la curiosità di leggerli e anche per chi volesse provare a farli, ognuno con il suo ritmo: l’importante del viaggio, si sa, è viaggiare. In quanto tempo è del tutto irrilevante.

Questo racconto è anche un atto d’amore per luoghi che rimangono scolpiti nella nostra memoria, e sono ancora meravigliosi anche nella loro ormai lunga lotta per lasciarsi alle spalle il terremoto che li ha feriti.


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Primo giorno

La partenza, come talvolta capita, è parecchio elaborata. In piena notte raggiungiamo finalmente Grosseto, tappa di avvio della nostra traversata. Al mattino cielo libecciato e nuvole proprio là dove andiamo noi: sarà una costante per 5 giorni, ma non lo sappiamo ancora. Usciamo in fila indiana dalla periferia trafficata e rumorosa. Al bivio per Scansano entriamo in collina, tra ulivi e campi di grano ma già da Preselle non si scherza: cominciano le salite.   

Il gruppo si sgrana al crescere della pendenza; cigolano i deragliatori e si smanetta sulle leve dei cambi alla disperata ricerca dei rapporti più leggeri. Il sudore lascia un'esile ed effimera traccia sull'asfalto. Al punto di ristoro di Scansano focaccia e caffè per chi lo vuole e finalmente un po' di discesa. Entriamo così nell'ampia valle del fiume Albegna che attraversiamo percorrendo campi oramai ingialliti dal grano ed assolati. 


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Lungo la strada un'Italia maremmana si mostra al nostro passaggio: vecchiette col fieno per i conigli sotto al braccio, cartelli stradali pieni di pallettoni, agriturismi ad ogni curva, gelsi con le more. A Montemerano il ginocchio dolente di uno del gruppo è per tutti una buona scusa per evitare l'ultima salitella in paese: la discesa per Saturnia alletta molto di più e di lì a poco siamo già a mollo nell'acqua sulfurea e calda delle Terme. 

La pace dei sensi viene raggiunta anche al bar con farro e gnocchetti, ma molti reclamano cibi più sostanziosi. Gli ozi di Saturnia col passare del tempo diventano forzati: il cielo si copre, poi si incupisce, le nubi si accumulano, oscurano il cielo, s'alza un ventaccio, cominciano i goccioloni. Poi fa un acquazzone seguito da un altro, l'aria si raggela, non tuona nemmeno e finisce lì. 

Bardiamo i bagagli con sacchetti di plastica gentilmente offerti dalla cassiera, intenerita e commossa, e riprendiamo la via. Sovana ci aspetta. C'è ancora salita: il gruppo pedala in souplesse ed allegria. Lasciato a sinistra il bivio per Semproniano entriamo alla grande in San Martino sul Fiora con la sua imponente chiesa. Ma ecco ora si scende nella valle del Fiora, verdissima e deserta. Gli ultimi chilometri prima di arrivare sono un tripudio di verde dalle mille sfumature e macchie continue di ginestre profumatissime. Sovana ci accoglie con la sua aria di nobiltà decaduta, con gli stemmi sul palazzo pretorio, le strade lastricate di mattoni e il campaniletto a vela nella magica piazzetta.


 

Secondo giorno 

Ci alziamo lo stesso, nonostante piova sul serio: qualcuno vorrebbe piangere ma si consola, assieme agli altri, con la colazione in taverna: visite turistiche in attesa che smetta. Smette però per davvero e quindi si parte. Pitigliano, allungata con dignità e classe sulla collina di tufo, mostra la sua bellezza da qualunque parte la si guardi. Le giriamo attorno salendo sotto le case allineate spalla a spalla e a picco sul tufo ed entrando poi nelle sue viuzze strette e popolari dove l'Ape Piaggio la fa da padrone. Una visita all'orso ben dotato sulla colonna in piazza ed alla sinagoga e poi proseguiamo la nostra strada, ancora in salita, Bolsena, sempre minacciati dalla pioggia e sbattuti da un fastidioso vento di bolina che raggela le ossa.

A Gradoli abbiamo già bisogno di calorie. Le focacce non bastano. Il rinforzo di porchetta ed il bicchiere di bianco ci danno quel giusto coraggio che serve al ciclista per andarsene via, in discesa, al freddo, sotto una quasi pioggia e sperare in un barolo chinato servito caldo. 


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Entriamo in Bolsena dopo aver costeggiato l'omonimo lago per qualche chilometro. Una fonte, una bella chiesa, naturalmente chiusa e, Dio l'abbia in gloria, una micidiale salitella: passerà alla storia come “lo strappo di Bolsena”, una rampa di garage al 15% che fa andare fuori scala i cardiofrequenzimetri. 

Ma oramai siamo in quota ed è quasi fatta. Puntiamo su Bagnoregio attraversando un gregge ed una splendida campagna. Il sole si affaccia alle nostre spalle e ci illumina la schiena mentre il vento ci aiuta nella corsa resa fastidiosa da un asfalto un po' infame.

Civita appare da lontano, in fondo ad una ripida discesa, ed è subito amore: i suoi silenzi tra i palazzi antichi, la porta in pietra lavica, la piazza della chiesa dove corrono gli asini, gli angolini nascosti. E poi quell'atmosfera unica e magica con la luce diafana del sole che appare in ritardo ma che c'è. 

Ce ne andiamo con rimpianto alla volta di Orvieto, percorrendo le colline in veloce e divertente discesa fino ai piedi della città. Saliamo in piazza. La cena è un tripudio…

 

Terzo giorno 

Il gruppo attraversa trionfalmente e contro mano il corso principale di Orvieto e poi piomba come un razzo sul fondovalle dirigendosi a Sud e costeggiando il Tevere.

 La giornata, come quelle che l'hanno preceduta e quelle che la seguiranno, è a dir poco incerta: un sole tiepido si affaccia di tanto in tanto tra le nubi e fa ben sperare. Mollata la Val Tiberina costeggiamo ora il Lago di Corbara giungendo in breve ai piedi di Todi.


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Giriamo per la città, quel tanto che basta per fare un po' di struscio e far sentire a tutti come stridono i freni di qualche bici. Poi rimontiamo con orgoglio in sella scendendo a valicare il fiume e risalendo subito dopo su per le aride colline in direzione di Bastardo e Montefalco, dove la Cantina Antonelli ci spalanca le porte sapendo bene che non possiamo portar via nulla e ci offre assaggi a volontà. 

Si riparte allora per l'ultima discesa alla volta di Spoleto percorrendo colline decorate di olivi, cipressi e belle ville. Trevi, arroccata sul colle laggiù sulla sinistra, ci guarda passare mentre veloci e sudaticci respiriamo nafta e benzene fino alle mura ciclopiche di Spoleto. L'arrivo è tutto in salita con distacchi abissali. Un minuscolo hotel ci aspetta ansioso in fondo al minuscolo cortile, con le sue minuscole stanzette, la minuscola scaletta, il loculo per le biciclette. C'è giusto il tempo per un aperitivo nella magica piazza del Duomo prima di metterci seduti, mangiare e andare a letto soddisfatti. 


Quarto giorno 

La pioggia cade inesorabile sui tetti di Spoleto. Il cielo è plumbeo e triste. Tutte le ipotesi sono sul tappeto: rientro in treno; noleggio di mezzi per risalire lo stivale; proseguimento ad oltranza “à la guerre comme à la guerre”. Il consulto finisce in niente: intanto si va e poi si vedrà. Sorpresi e turbati da tanto ardire lassù decidono, per una volta, di lasciar perdere e di sospendere così la sfida atmosferica oramai da troppo tempo ingaggiata. E al primo schiarirsi del cielo ci ritroviamo tutti, increduli più che mai, a pedalare verso la Forca di Cerro, prima salita del nostro tappone appenninico. I cigolii delle catene vengono tacitati da spruzzi di grasso di balena mentre le ruote girano come silenziosi frullatori sull’asfalto liscio e perfetto. 

Siamo al colle giusto in tempo per veder passare la corsa locale. Scendiamo anche noi, accorti ed infreddoliti, coperti alla meglio. Il consumo di calorie sale in modo esponenziale e ci ritroviamo in Val Nerina a prendere d’assalto l’omonimo bar, divorando crostatine e focacce. La marcia riprende in fila indiana con veloci cambi al vertice fino a Triponzo. Il cielo sta su e continua a graziarci mentre percorriamo l’umida valle che ci conduce a Norcia, traguardo della prima semitappa della giornata. Il gruppo si sfilaccia ed arriva alla spicciolata con crampi allo stomaco: chi reclama spaghetti e chi pane e salame, chi si dà al turismo, chi telefona a casa. Sotto il sole arrabbiato uscito all’improvviso si decide per il classico bar in piazza tra salumi, formaggi ed arancini mentre uno stuolo di turisti occupa perennemente il gabinetto e ritarda così la nostra partenza.


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 La vera salita comincia adesso ed ognuno si confronta col proprio destino. Il plotone si spezza in due tronconi: il primo prende la testa della corsa con ritmo pacato e costante, il secondo, attardatosi in acquisti di torrone e cioccolato, insegue con passo più allegro. Sotto di noi la piana di Norcia si allontana sempre più e il bosco si dirada consentendo alla vista di spaziare lontano verso ovest. La vetta di un colle senza nome, battuto dal vento gelido, ci spalanca davanti agli occhi la vastità del Piano Grande di Castelluccio, colorato dalle chiazze gialle dei campi di lenticchie. Lontano, nascosto dalle nuvole, il Monte Vettore non osa ancora mostrarsi. Ci buttiamo a capofitto verso l’immenso pianoro fendendo l’aria purissima e frizzante ma anche gelida. 

L’agriturismo offre una cena in crescendo: la farecchiata di piselli è proprio buona e darà il suo valido contributo anche l’indomani, ma la ricotta fresca non ha uguali. La passeggiata notturna nel paese deserto chiude degnamente la giornata, mentre il cane sul piazzale vorrebbe che qualcuno gli lanciasse l’ultimo bastone. 



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Quinto giorno 

Il freddo pungente del mattino insiste a non mostrarci il sole. Scendiamo dal paese imbacuccati alla meglio e, fatta la foto di rito, attraversiamo il pianoro risalendo poi alla Forca di Presta. Tra un turbine di vento e l’altro sotto di noi si spalanca la Valle del Tronto e alla nostra sinistra, finalmente, appare la parete rocciosa del Monte Vettore. 

La discesa è invitante; i record di velocità vengono frantumati ma non sono omologati per via del vento a favore. Finalmente esce il sole, quello caldo di giugno, quello che avremmo dovuto vedere fin dal primo giorno e che invece è stato così avaro con noi. L’aria è tersa ed è un piacere pedalare in discesa percorrendo boschi di querce ed acacie, lecci e ginestre profumatissime. Perdiamo quota toccando Balzo, Bisignano, Uscerno, Marsia e risaliamo fino a Venarotta pizzicando qua e là un po’ di ciliegie dagli alberi. Oramai siamo ad Ascoli, splendida città che trasuda i fasti di un tempo e l’odierna agiatezza di provincia opulenta. 

Comincia a far caldo e abbiamo fame. Il pasto del commiato è a base di spaghetti ed olive all’ascolana, ma il caffè lo prendiamo in piazza, allo splendido Caffè Meletti, elegantissimo con i suoi interni liberty. Prima un giro alla scoperta di palazzi stupendi in candido travertino e viuzze curiose, di chiese e portali decorati. 


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L’ultima pedalata si fa sulla Salaria tra filari lunghissimi di tigli odorosi e traffico insistente. Le colline marchigiane sfilano al nostro passaggio, coi loro campi di grano e di mais ancora giovane, di avena, di papaveri. Abbiamo finalmente tagliato l’Italia in due e ci lasciamo alle spalle uno spaccato autentico, fatto di cascinali con le colombaie e di cimiteri coi cipressi attorno, di bar col cappuccino smoscio e di focacce di cipolla, di ciclisti della domenica. Un’Italia che trasuda olio extravergine e vino ad ogni curva: Morellino di Scansano, Rosso di Sovana, Bianco di Pitigliano, Grechetto e Rosso di Montefalco ed altri ancora. 

La nostra traversata però finisce con una birra, bevuta al chiosco della spiaggia di San Benedetto del Tronto, dopo un bagno in mare che toglie il sudore della giornata, scioglie l’acido lattico dell’ultima tappa a cronometro, lava via i chilometri e i dislivelli, rinfresca il soprasella. Un bagno che nella retorica generale fin qui profusa è anche un po’ simbolico



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*ALESSANDRO CALDERONI (68 anni, milanese di nascita. Le mie passioni? Forse troppe. La bicicletta è la prima: cicloturista da 50 anni. Ho girato le Alpi, con una passione per i Passi: quelli sopra i 2000 li ho scalati tutti. Ho traversato l’Italia da costa a costa in 11 itinerari, con un minimo bagaglio ma con tanti amici. Poi lo scialpinismo e la montagna in genere: anche qui, fatica e soddisfazione, splendidi panorami e silenzi infiniti. La passione per la natura ha altri risvolti: coltivo l’orto, i fiori, mi piace lavorare il legno e da qualche tempo mi diletto anche col disegno botanico e naturalistico)

*ANGELO MELONE (Nato nel '56, giornalista prima a l'Unità poi a Repubblica. Ama fare molte cose. Tra quelle che lo avvicinano a questo sito: la passione per i viaggi, tanta bicicletta e i trekking anche di alta quota)  


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