La Memoria, e il silenzio dopo Auschwitz

di LAURA GNOCCHI*

La prima volta che ho visitato un lager è stato per caso. La seconda anche. Fine anni Settanta, frequentavo la quinta liceo a Recco, Genova. La preside ci fece sapere che l’Associazione degli ex Deportati organizzava, come ogni anno, un pellegrinaggio ai campi riservando posti agli studenti meritevoli che ne facessero richiesta. Meritevole più o meno lo ero, la richiesta la feci solo io. E quindi partii.

L’itinerario era quello che ha raccontato su Fogli e Viaggi l’amico Giorgio Oldrini ( https://www.foglieviaggi.cloud/blog/il-pellegrinaggio-a-mauthausen): il castello-prigione di Hartheim, Gusen, il sottocampo dove morirono molti italiani, Mauthausen dove si celebrava una cerimonia di commemorazione e dove confluivano ex deportati da tutta Europa. Allora la Giornata della Memoria non esisteva: ci sarebbero voluti altri 25 anni perché, nel 2005, una risoluzione Onu la facesse diventare ufficiale e internazionale.

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(Auschwitz)


A Mauthausen, in quel maggio, ricordo bandiere, gonfaloni, monumenti più brutti che belli, ma soprattutto tanti uomini con le casacche a strisce. Come quella che indossava Rosario Fucile, anima dell’Associazione ex Deportati di Genova, che accudiva noi pischelli meritevoli ma piuttosto inconsapevoli. Quello che vidi e in parte scoprii allora (quando non solo non esisteva Internet, ma manco i videoregistratori) è facilmente immaginabile. Forni, paralumi in pelle umana, camere a gas, la Scala della morte…

Quelle che mi si sono indelebilmente impresse nella memoria sono tre cose: il canale di scolo per il sangue su un tavolo dove operavano gli aguzzini (pensai a quanto scientifico era lo sterminio se addirittura avevano architetto un particolare così preciso e utile a velocizzare le operazioni), la radiografia di un uomo, vivo, a cui avevano segato delle ossa per ridurlo  in altezza, la frase detta da un qualche accompagnatore: “Nel Castello di Hartheim sono entrate diecimila persone e ne è uscita viva una sola. Era un paracadutista che riuscì a guidare la traiettoria e ad atterrare nella campagna circostante mentre partecipava a un esperimento su quale fosse l’altezza minima a cui aprire il paracadute prima di schiantarsi”.



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(I forni crematori a Mauthausen)


Ma soprattutto ricordo il pianto irrefrenabile di un ex deportato italiano (mi pare fosse proprio Rosario Fucile, ma non potrei giurarlo): durante la commemorazione aveva incontrato un compagno di sventura, un francese, che gli aveva buttato le braccia al collo piangendo e ringraziandolo: “tu mi hai salvato la vita!”. Quello che non gli confessò e che lo fece piangere a dirotto per lungo tempo fu questo: il furto di uno scalpello di cui il francese era stato accusato e per cui venne picchiato quasi a morte lo aveva in realtà commesso lui. Allora non ebbe, e come rimproverarglielo?, il coraggio di autoaccusarsi, ma accudì il compagno ferito e lo aiutò a rimettersi in forze cedendogli parte della sua miserrima razione. E il coraggio non lo trovò neppure trentacinque anni dopo (ma ancora una volta come rimproverarglielo?) per dire: non ti ho salvato la vita, anzi l’hai rischiata per colpa mia.

Quando tornai a Recco, al liceo, mi chiesero di raccontare la mia esperienza: lo feci in aula magna, durante un’assemblea. E di quello ricordo una sola cosa, la domanda di un compagno. “Ma perché , c’erano anche degli italiani nei campi di concentramento?”.

La seconda volta che entrai in un lager fu ad Auschwitz. Era il 1989, il muro sarebbe caduto solo qualche mese dopo, e io ero partita in macchina con la mia amica Carla per uno dei nostri soliti viaggi: si sa da dove si inizia, Milano, si sa dove si arriva , in questo caso Varsavia, quello che ci sta in mezzo lo scopriremo solo vivendo.

Una delle “cose in mezzo” la trovammo leggendo una guida turistica durante le interminabili ore di auto nella interminabile pianura polacca: quel Oświęcim che stavamo per incrociare vicino a Cracovia era nient’altro che Auschwitz. Nessun cartello lo indicava, Oświęcim  per la segnaletica stradale era solo una delle tante città che si incontravano lungo la via.


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(Mauthausen)

Eravamo praticamente da sole, quel giorno. Nessuna transenna a regolare gli ingressi, biglietti online, scolaresche. Passammo sotto la scritta “Arbeit Macht Frei”, vedemmo tutto quello che c’era da vedere e uscimmo. Cosa ricordo? Che facemmo tutto ciò in silenzio e che dopo , in macchina il silenzio continuò per tanto, tanto tempo…

Cambio di scena, luogo, epoca. Anni Duemila, sono nel mio ufficio di direttore del Venerdì di Repubblica a Roma. Sulla scrivania ho una prova di copertina (credo, ma non ci giurerei, la prima in Italia) sulla Giornata della Memoria da poco istituita. Capita per caso un alto dirigente del gruppo, la vede e dice. “ Ma perché ti occupi di queste cose? È triste, non frega a nessuno”. Non avevi ragione tu, testa di cazzo.

 

 

*LAURA GNOCCHI  (Giornalista in tanti giornali tra cui Repubblica, dove ho diretto il Venerdì. Ora lavoro in tv con Gad Lerner. Una cosa di cui sono orgogliosa: l’idea di intervistare tutti i Partigiani ancora viventi. L'abbiamo fatto, e con l'Anpi abbiamo raccolto i loro racconti in un libro, "Noi partigiani". Una cosa di cui mi vergogno: aver avuto un fidanzato genoano)


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