Stati Uniti, il giorno in cui la democrazia trionfò

di VITTORIO ZAMBARDINO*

Sono fra gli ottimisti sull’esito di questi giorni di dramma americano. Lo ero anche prima dell’assalto al Campidoglio, guidato o forse solo partecipato dall’indegno “italiano” Jake Angeli, quel simpatico tipo con le corna e mezzo nudo in pieno inverno. Sono ottimista perché mi occupo molto, per passione personale, di America e anche per un altro fondamentale motivo. 

Oggi la “mia America” è mio figlio che vive a Chicago. Da quando Michele abita negli Stati Uniti, dei quali è ormai diventato cittadino, è cambiato tutto. La mia scaletta non riguarda più i miei interessi intellettuali o professionali, ma solo i suoi problemi, le passioni e le paure che toccano lui come recente immigrato, come professionista che lavora o cerca lavoro e quale possibile paziente del sistema sanitario con tutte quelle assicurazioni che ti fanno impazzire.

“Vivo” l’America con lui. 

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A lui “l’America” ha fatto trovare la passione per la politica che in Italia non aveva neanche un po’. Merito della democrazia, che in quel paese, se hai voglia di partecipare, è viva in ogni giorno dell’anno, nella vita reale o sui social. Vive nel rapporto col tuo senatore o col tuo consigliere comunale, rapporto fisico o virtuale, ma sempre intenso, con appuntamenti fissi, di verifica e rese dei conti. Vive nel volontariato per prestare la tua opera, qualsiasi essa sia, verso i partecipanti, come volontario.

Questa abitudine c’era anche da noi, una volta. Poi è stato avvilita e presentata come uno sporco negoziato clientelare, come se la ricerca del consenso non fosse la base stessa della democrazia, come se fosse sbagliato avere un rapporto ravvicinato con chi ti voterà. Negli Usa sopravvive, nonostante Trump e i suoi discorsi allucinati e l’uso che lui ha fatto della rete: saltare tutti i livelli intermedi della politica, desertificarla e ridurla ad un appello continuo di manipolazione e mobilitazione, rinunciando a tradurre la rabbia e il disagio delle persone in un ragionamento politico, per disinnescare rabbia e creare consenso. Quello che in Italia facevano i grandi partiti della prima Repubblica.


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Questo è il lavoro ingrato della politica quotidiana, una volta da noi si diceva “spirito di servizio”: lo descrive molto bene nelle sue sofferte scelte l’ex presidente Barack Obama, nella prima parte di “Una Terra Promessa”, la sua autobiografia. Parla dello sforzo di mediare con gli interessi che si fanno avanti nelle istituzioni, che premono attraverso i lobbisti, senza dimenticare “la gente”. Descrive lo sforzo di trovare i soldi - perché la politica costa molto, bisogna pagare chi lavora a tempo pieno. Succede ovunque tranne che in Italia, dove si pensa che politica si debba farla con il puro spirito, altrimenti è reato, la chiamano finanziamento illecito e voto di scambio.

Dunque la politica costa e bisogna trovare i soldi e vai a cercarli anche da quelli che ti chiederanno cose in cambio, e nel mediare e resistere si vedrà quanto vali come politico, senza che questo ti porti fuori strada rispetto agli interessi di quella gente che ti ha votato e dovrebbe votarti. Fondamentale il libro di Barack Obama, anche se lettura “lenta”, saggistica, per capire la politica nelle sue regole generali, valide in America, in Italia e su Marte, quando sarà abitato da noi pessimi umani. 

Se c’è una cosa che si può dire di questi quattro anni passati, guardando l’America attraverso i sentimenti di un immigrato giovane, sposato con un’americana, è che il trumpismo ha inculcato paura e inquietudine anche in chi ne potrebbe essere del tutto esente. La paura dell’altro, la paura della violenza politica non controllata, il sospetto che all'improvviso la legge cambi e blocchi la tua integrazione, il timore della polizia, che se non sei del colore giusto potrebbe prenderti di mira - mio figlio è biondo, un giorno per strada un poliziotto gli ha detto: ”Più avanti ci sono dei casini, ma vai tranquillo, hai la pelle del colore giusto”. 

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Ogni straniero, anche regolarizzato, ha vissuto anni di incertezza, di nubi all’orizzonte, una limitazione di quel sentimento di sollievo, che risiede nella certezza di poter dire tutto ciò che si pensa, che è da sempre il tratto più vero dell’essere americani. Ho vissuto da vicino la paura dei miei due giovani democratici (all’inizio sandersiani, grandi discussioni) di finire in un paese che rinnegasse la sua democrazia e che non fosse più un paese-mondo, aperto a chiunque voglia studiare, lavorare, vivere libero. 

Senza arrivare a parlare di quelli che al confine meridionale hanno passato i loro anni di inferno: a proposito i media americani, che sono bravi, non hanno ancora fatto una indagine sulla fine dei bambini strappati ai genitori, in nome di una delle pratiche perverse di questi anni. Più che mai importante adesso che è cominciato il ritorno a casa degli immigrati dal sud, respinti sia dal clima sia dal Covid, che sta facendo calare anche sugli USA lo spettro di una recessione pesantissima.

Eppure queste sono ore di trionfo. Non sono impazzito, è il trionfo della democrazia, l’attacco al palazzo d’Inverno c’è stato ma non era la rivoluzione, era la catastrofe del populismo pagliaccio ed eversivo. Si è verificata fino in fondo la forza di un soggetto - che sia un paese, una istituzione o una organizzazione politica - che si misura quando è sottoposto ad una pressione insopportabile, quando subisce un’offesa plateale. 

Altrimenti avrebbe sempre ragione chi vince a Pearl Harbour e invece è sempre lui che perde la guerra. La democrazia americana ha ratificato l’elezione di Biden subito dopo la Pearl Harbour del teppisti. La risposta più concreta. 

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Per chi ha letto tutti i giorni social, per chi ha vissuto in America o ne ha seguito ogni giorno le notizie, il “colpo” del 6 gennaio non è una novità. Trump ha cominciato a prepararlo da prima delle elezioni, ha scarnificato la fiducia delle istituzioni con la costanza di un macellaio, ha avallato le più folli teorie complottiste, ha fatto “sovversivismo dall’alto”. E sotto questa cappa di tensione hanno vissuto per mesi tutti coloro che gli erano contrari, anche perché fino a quando lui non si è reso ridicolo con la gestione dell’emergenza covid, la prospettiva della sua rielezione non era poi così remota. 

E poi non è mica finita. Twitter e Facebook che tolgono la parola al presidente degli Stati Uniti sono per certi versi uno spettacolo che lascia ammirati, per la forza “spontanea” della società contro l’abuso della politica. Ma poi uno si chiede se spetti a un privato decidere che cosa è legittimo scrivere e che cosa non lo è, che si tratti del presidente o dell’ultimo disgraziato. Di certo, siamo di fronte alla coda di paglia di chi ha permesso, con le sue incompletezze e vere e proprie complicità tecnologiche, lo sviluppo della dittatura dell’insulto e del falso, e che oggi si pone come giudice della libertà di espressione. Non sentite anche voi un senso metallico, di ruggine logica in tutto questo? E poiché le cose sono sempre complicate, dopo la catastrofe social del 2016 è nato un movimento ultra democratico, che solo forse ha votato per Biden, e che vuole, nelle sue punte estreme, arrivare alla chiusura dei social. Una critica apocalittica dell’economia digitale. Nella ipotesi più soffice si preme per lo spezzettamento delle aziende e alla loro, di fatto, sottomissione alla politica. 

Povera e cara America: fra i problemi da affrontare in questi quattro anni ci sarà non solo un popolo di settanta milioni di trumpiani che stanno là, con le loro idee e la loro organizzazione (in piccola parte armata), ma anche le tentazioni estremiste di mettere mano alla libertà di espressione, per evitare “il fascismo”, come lo chiamano da quelle parti.

Che tutto sommato è una bella contraddizione in termini. 


*VITTORIO ZAMBARDINO (1951. Ha fatto il giornalista. Ora è vecchio. Si è occupato in ordine cronologico di politica, di sport e di cultura digitale. Non è credente, ma è tifoso del Napoli. Ama il suo cane)


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