Slab city, il sogno hippie al confine della libertà

VIRGINIA BOTTI CAFFONI*

È una serata tarda di fine febbraio, l’aria frizzante che entra dai finestrini mi dà sollievo dopo il caldo della giornata passata in viaggio. Il vecchio camper traballante che è stata la mia casa negli ultimi due mesi attraverso il sud degli Stati Uniti avanza sul suolo dissestato nel buio pesto del deserto californiano. Intravedo la cresta scura delle Chocolate Mountains che si stagliano sul cielo nero pece. Non vedo ma immagino la desolazione tutto intorno, di chiaro solo un poco di terreno sabbioso e roccioso ai lati di quel piccolo pezzo di strada illuminato dai vecchi fari della nobile bestia che ci porta verso la destinazione.

Insieme a me i due improvvisati compagni di viaggio: Amanda alla guida, proprietaria del camper, che in fuga dalla frivolezza della vita sulla East Coast viaggia attraverso il paese alla ricerca del suo posto nel mondo. Ray appoggiato come me fuori dal finestrino, incontrato sulla strada durante il suo viaggio zaino in spalla dal Canada agli Usa. 1jpg

(foto di Virginia Botti Caffoni)

Abbiamo seguito le poche indicazioni che, sbuffando, ci ha dato la donna alla pompa di benzina di Niland, dove abbiamo rifornito il camper e comprato tanta acqua e un po' di provviste. Chissà quante altre volte si è sentita rivolgere quella domanda da gruppetti di hippie su mezzi malmessi, in quella desolata cittadina in mezzo al nulla. Il suo dissenso è palpabile.

Il percorso comunque è semplice: continuate per questa strada, e quando trovate il ristorante messicano girate a destra. Poi, sempre dritto verso le montagne.

Ed ecco che finalmente, dopo neanche mezz’ora dal ristorante messicano, appare il primo segnale. Un rettangolo chiaro si avvicina nell’oscurità, è la parete bianca di un piccolo rudere sul lato della strada, e su di essa la scritta: 

Slab City

you’re almost there

Non avevo mai sentito parlare di Slab City prima di incontrare Amanda in Florida, quando sul suo divano bucato avevamo costruito a grandi linee il nostro itinerario, la sua fuga e il mio viaggio che per qualche tempo avevano coinciso. Lei me ne aveva parlato come un luogo irraggiungibile, e in effetti la posizione non era nemmeno segnata su Google Maps.2jpg  

(foto di Virginia Botti Caffoni)

 Ci troviamo in una comunità di hippies, insediata negli anni '50 in una zona molto povera del sud della California, precedentemente sede di un’isolata base militare, ora casa di chi ha scelto per qualche tempo, o per sempre, di vivere a contatto con la terra e al di fuori della società. Le abitazioni sono roulotte, camper, tende, auto dismesse, vecchi bus, pali piantati nel terreno con tetti di lamiera.

C’è chi dorme in un sacco a pelo e chi si è portato un materasso, c’è chi si è munito di cisterne per l’acqua e chi per lavarsi si reca alle hot springs che si trovano a qualche passo dalla Salvation Mountain.

La Salvation Mountain, simbolo di Slab City. È la prima cosa che vedi, quando arrivi: un ammasso di detriti, paglia, pittura che anno dopo anno Leonard ha arricchito con decorazioni e sculture e disegni coloratissimi, dedicati a Dio inteso come amore. God is Love. A noi la montagna, e l’area costellata di rottami e detriti recuperati e trasformati in opere d’arte tutto intorno, l’ha mostrata proprio Leonard, quando all’alba è uscito dal furgoncino in cui viveva e come ogni giorno si è messo all’opera. Oggi Leonard è morto. L’opera nella quale si è impegnato tutta la vita, però, è ancora lì.

Ho passato tre giorni fuori dal mondo, a Slab City.

Mi sono abituata a fare i bisogni dietro la duna che più mi rassicurava, a lavarmi con le taniche d’acqua di cui ci eravamo provvisti a Niland. Ho passeggiato tra le sabbie e scoperto le vite nelle roulotte attrezzate con serbatoi d'acqua e generatori, le vecchie auto trasformate in piccole case, un pullman incastrato per metà sotto la sabbia che era diventato una storta abitazione, una biblioteca con scaffali pieni di libri e vecchie poltrone in cui leggerli letteralmente in mezzo al nulla, e la lapide della bibliotecaria sepolta proprio lì, vicino al suo paradiso in terra.

E uno skate park tra le dune, e un cafè in cui fermarsi all’ombra delle tende svolazzanti a bere una bevanda calda offerta da una vecchia coppia del luogo, e i negozietti di manufatti e collanine e cibo che gli abitanti scambiano tra loro.

Ho conosciuto le storie svariate e forti delle persone che ho incontrato sul mio cammino: spesso sfuggivano dalla società a causa di tragedie personali o vite complesse, c'erano ex carcerati o chi era rimasto solo al mondo. Sicuramente non tutte, nel mondo, erano state persone buone. Ma avevano rinunciato a ogni bene materiale per vivere con se stessi, e magari ritrovare la propria anima.3jpg  

(foto di Virginia Botti Caffoni)

C'è un mondo intorno a Slab City.

L’inquinatissimo Salton Lake, così tossico da far morire tutti i pesci che ci finiscono dentro costellando le rive di cadaveri che restano lì a essiccare, e le cittadine dall’aria post-apocalittica che lo circondano. Il perfetto spettacolo naturale del Joshua Tree National Park, in cui il deserto del Mojave e quello del Colorado si incontrano dando origine a sinuose formazioni rocciose, alcune basse altre imponenti, intervallate da cespugli e piante del particolare albero di Yucca di cui il parco è pieno, e da cui prende il nome. 

La West Coast, quella la conosciamo tutti.

Il Messico, a meno di un centinaio di chilometri.

È in mezzo al nulla ma a un passo dal mondo.

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(foto di Virginia Botti Caffoni)

Slab City è ancora lì. Dopo 10 anni, io non ci sono mai più tornata. Da internet, da Google Maps, vedo che le cose sono cambiate.Si trovano addirittura degli ostelli, che immagino non essere altro che tende spartane nella sabbia, ma che simboleggiano un afflusso certo maggiore di visitatori rispetto a quando mi trovai lì io. Si vedono moderni camper parcheggiati nei pressi della città, che potrebbero trasportare turisti curiosi forse poco consapevoli, che potrebbero sporcare un po' la perfezione di questo luogo. 

Non lo so che cosa è cambiato, non lo so oggi cosa ci si può trovare. Nelle foto che ho scattato, nella mia memoria, resta uno di quei magici luoghi dove quando arrivi ti senti libero davvero. Deve quindi essere ancora così. My last free place.

VIRGINIA BOTTI CAFFONI (*Classe 1985, nata a Milano ma con l’Asia nel cuore. Vado in giro per il mondo da quando ho fatto la prima profilassi antimalarica e sto bene quando ho una matita e un biglietto aereo in mano)


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