Provenza, divina luce e mille tori di corsa / 1
di ANDREA ALOI
Millenovecentonovantasette. Quel pomeriggio d’agosto pieno nell’arena di Châteaurenard c’era una luce impressionista, accompagnata da una frusta di caldo appena addomesticato dal mistral, il vento che corre giù furioso dalla valle del Rodano. Difesi da alti platani, con mia moglie Patrizia e il quasi tredicenne Giovanni avevamo trovato ottimi posti all’ombra e mancavano pochi minuti all’inizio della course camarguaise quando passò tra i gradoni un venditore di gelati sulla cinquantina mal portata, con un naso da pugile sfinito, degno di una pagina di Genet. Aveva disposto la merce in una scatolotta di polistirolo dipinta di blu e con la voce graffiata dal pastis invitava all’acquisto: “Menthe, citron, vanille, chocolat… voilà la glace, voilà la fraîcheur”. Una infinita tenerezza triste. Non ci voleva, non la volevo, perché ero nella Provenza piena di grazia, avevo esordito in vacanza con una insalata rinforzata da formaggio di capra e un bel gotto di muscadet fresco. E c’erano tori. Neri. I biou occitani.
Agili, profumati di merda e fieno, con tutte le buone intenzioni di incornare uno qualsiasi dei ragazzi vestiti di bianco - dalla maglietta ai pantaloni lunghi alle scarpe ginniche - che li provocavano, si facevano caricare e inseguire, quindi protendevano all’indietro la mano munita di un crochet, una sorta di piccolo rastrello, verso il biou, tentando di staccare una coccardina tenuta ferma in mezzo alla fronte da uno spago o uno dei fiocchi posti alla base delle corna. Corna nude, non protette. Letali. Proprio per niente facile, la course camarguaise ha avuto migliaia di feriti e i suoi morti. Razeteur si diventa frequentando l’apposita scuola, ce n’è una quasi in ogni paese e si sale per gradi, cominciando da bambini, un bel passo sono le prime courses per i novizi a sfidare giovani torelli cocardier, con le “armi” emboulé, coperte da sferette di metallo.
Il bello, il molto bello è che nella course camarguaise i tori, favolosa concrezione di potenza e fierezza, a fine gioco se ne tornano illesi sui loro zoccoli bisulchi al camion che li ha portati all’arena, quindi a casa, con gli altri della manade, della mandria: pascoli salati vicino al mare, terrasabbia, tanta gustosa salicornia da smangiucchiare guardando pigramente i fenicotteri rosa e lassù un cielo azzurro carico, un indaco eterno. Il saluto delle Sfere Sublimi alla terra che ci hanno donato.
Hanno brucato e adesso dormono. Aragon, che oggi all’uscita è stato osannato, Mytron, Milo, Ventadour, l’elegante Souchet, Monfrin talvolta riottoso alla carica. Calmi respiri nel corteo di albe di cristallo e sere funestate da zanzare proverbialmente voraci e per loro innocue.
Quell’anno la Cocarde d’Or, il premio di miglior razeteur, l’aveva vinto ai primi di luglio nell’arena romana di Arles Stéphane Rouveyrolles, di Moussac, dalle parti di Nîmes, un volpacchione di tre cotte ma onesto, mai trucchi tipo affrontare il toro dalla parte del suo occhio debole, e splendido atleta ragionatore, perfetto nell’immaginare ed eseguire traiettorie di avvicinamento e fuga. In arena si deve correre per distanziare il toro che ti insegue ma nello stesso tempo lo si deve avvicinare fino al momento di raggiungerlo col crochet per strappare i piccoli trofei custoditi dalle ampie corna a lira. Un equilibrio magico di esperienza e cuore, non lo ripagano i premi per coccarda e fiocchi.
Se guardi un toro di razza camarga di fronte, le lunghe corna si levano in alto e infatti per colpire abbassa molto la testa; il toro da lidia, da corrida, ha invece corna che si protendono in avanti, parallele al terreno. Il primo è poderoso ma lieve di corsa, viaggia sui quattro quintali; il secondo va ben oltre la mezza tonnellata ed è il quadrupede più simile a un tir che esista. Solo per chiarire che raramente un esemplare di ganado bravo spagnolo ti viene a cercare dietro le barriere che circondano l’arena, mentre il toro di Camargue le salta spesso (come un cervo, solo meno benevolo). Insomma, ti insegue pimpante anche fuori ufficio. O qualche volta si limita a un terrificante colpo di petto contro i legni color granata, protendendo le corna verso l’uomo in bianco, che nel mezzo secondo utile per salvarsi l’arteria femorale ha poggiato un piede sul gradino a base della barriera ed è saltato oltre, come una molla. Con quel colpo il biou ha ammonito: non provarci più. L’uomo ci proverà ancora e sempre.
Un razeteur non diventa ricco, qualche bel soldino lo vedono solo i migliori, gente come Laurent Baldet, Ludovic Zerti, Christian Garrido, lo spettacolare, generoso Mouloud Bensalah, per restare alla fine degli anni Novanta. Baldet, Cocarde d’Or ’95, biondo di lungo pelo e prestante, l’ho visto sfidare se stesso nel giorno della despedida, dell’addio alla course. A Fontvieille, doveva essere per forza a Fontvieille, Laurent è nato lì. Canali d’acqua a bordo strada, pioppi tremuli, papaveri di un calligrafico rosso-papavero, grano che cantava al mistral. Rischiò molto, era l’enfant du pays, non poteva deludere. Un toro gli lacerò i pantaloni e Laurent salutò la sua gente che lo applaudiva in piedi per l'ultima volta. La piccola figlia saltava di gioia, la moglie era svenuta qualche minuto prima.
In Provenza non si dedicano statue ai matador della lidia spagnola, che pure è seguitissima e allevamenti di toros da corrida in Camargue ce ne sono diversi. No, i monumenti sono riservati ai tori da course. È terra-frutteto di Francia, è curata zolla contadina, è praterie salmastre. Christian Chomel, “Chocho”, otto volte Cocarde d’Or negli anni Ottanta e in diverse occasioni trionfatore nel Muguet d’Or (in Francia il mughetto è il fiore che si offre del Primo Maggio), lasciate le arene era diventato allevatore. Lucien Volle, monsieur Cocarde d’Or (ne aveva vinte sette tra gli anni Quaranta e Cinquanta), dopo i successi da razeteur era stato guardiano nella manade Laurent e infine operaio agricolo.
I tori e i dolci meloni di Cavaillon, l’allevamento delle manades grandi firme: Lescot, Clément, Thibaud, Aubanel, Ribaud, Lautier. Il Carreto Ramado stracolmo di gioielli dei campi che sfila il 15 di agosto alla Feria di Saint Remy trainato da sfilze di muscolosi cavalli color miele di razza ardennese, le nobili donne vestite all’arlesiana per dire meglio la festa. Occitania, fratelli nostri di animo forte e gentile. La terra e l’arena. Radici di riti pagani che se le smuovi sanguinano. Anche ora, nonostante la prostituzione turistica e i violinisti che ti scassano le orecchie appena ti siedi a un tavolo per cena o ti appresti a regolare i conti con l’anchoïade, delizia di olio, aglio e acciughe in cui tuffare le meglio verdure del pays, parente strettissima della piemontese bagna cauda. Alle bocche del Rodano amano i loro cavalli di Camargue dal mantello grigio e bassotti al garrese, strumento di lavoro dei gardian nelle immense tenute, dove si allevano i biou da course e da bistecca, da pavé (una specie di sublime sanpietrino di carne appena scottata), da stufato: è il succulento boeuf gardianne (sono ricordi nel senso vero, non mangio carne da dodici anni). Ma fin dalla prima corsa, ad Arles, più di seicento anni fa, l’adorazione complice è per i tori. Per alcuni tori.
(1 - continua)
clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook
clicca qui per rilanciare i nostri racconti su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram