Prima tappa, Torino - Una crono nella città dell'auto, fra i caffè di Gozzano e i velocipedi del libro Cuore

di CLAUDIO MERCANDINO*

L’atto inaugurale del Giro d’Italia nell’ex capitale dell’automobile? Il paradosso è solo apparente. E infatti la metropoli che per un secolo si è identificata con le quattro ruote, simbolo di potenza e di velocità, ha scelto di celebrare il pedale a modo suo: con una prova lampo, una cronometro individuale di 8,6 chilometri da percorrere d’un fiato, con il fruscio dei tubolari sull’asfalto, il frullo dei deragliatori, il vortice scintillante di un incontro di raggi – quelli delle ruote e quelli del sole - su un tracciato urbano che in un quarto d’ora accompagna i “girini” e i loro tifosi lungo secoli di storia.

D’altra parte, al di là delle apparenze, tra Torino e la bicicletta corre un rapporto solido. Sul finire dell’800 si contavano in riva al Po circa cinquemila velocipedi, un sesto dell’intero parco circolante italiano (soltanto Milano, con 6200 mezzi, superava il capoluogo sabaudo), e di lì a una decina d’anni Edmondo De Amicis poteva raccontare ironicamente la nuova moda della pedalata: «La bicicletta mi rubava care compagnie, allontanava da me antiche amicizie» scrive l’autore di Cuore nel 1906 in La tentazione della bicicletta, descrivendo «commendatori a palla o cavalieri arcati fuggir sulle ruote a traverso la piazza verso lo stradone di Rivoli, col viso levato a bere l’aria primaverile», mentre «un senso amaro d’invidia e di rammarico mi trafigge». Altri venticinque anni e un’altra torinese illustre, la principessa Maria Josè di Savoia, rimpiangerà di non poter uscire in bici, proibitale per ragioni di etichetta, mentre dalle finestre al secondo piano di Palazzo Reale abbraccia con lo sguardo piazza Castello.


LA CLASSIFICA DOPO LA PRIMA TAPPA

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(dal sito giroditalia.it)


Ed è proprio da piazza Castello, il cuore di Torino, che parte la 104ª corsa rosa, in uno spazio che, dominato dalla magnificenza della Cupola guariniana della Sindone da poco restituita al pubblico dopo un lungo restauro, mette insieme gli stili architettonici più diversi, dal medievale al Barocco al moderno Razionalismo. Nel raggio di cento metri un mondo di tesori da scoprire. Al centro della piazza Palazzo Madama, sede del Museo di Arte antica, che riassume in sé due millenni, con i ruderi della romana Porta orientale, l’antico Castello degli Acaja e la facciata juvarriana voluta da Giovanna Battista di Savoia-Nemours. Alle spalle degli atleti il Palazzo Reale (con l’attigua Biblioteca Reale che custodisce il celebre Autoritratto di Leonardo e il suo Codice del volo degli uccelli), il Duomo e la manica dell’edificio che lungo via XX Settembre, di fronte all’antico anfiteatro romano e alle Porte Palatine, ospita la Galleria Sabauda. Alla loro destra la Real Chiesa di San Lorenzo, anch’essa un gioiello del Guarini, nascosta da una facciata “civile” che regala al visitatore la sorpresa inaspettata dei ricchi interni e della luminosa cupola ad archi incrociati. Sul lato sud la Torre Littoria, via Roma che conduce al “salotto” di piazza San Carlo e al suo celebre “Caval ‘d Brons”, il monumento equestre di Emanuele Filiberto, e poi via Accademia delle Scienze su cui si affacciano il Museo Egizio e Palazzo Carignano, sede del Parlamento Subalpino e del primo Parlamento italiano (e oggi sede del Museo del Risorgimento), di fronte allo storico ristorante Del Cambio dove Cavour pranzava, tra una seduta e l’altra, accanto a una finestra da cui poteva essere chiamato dal suo attaché al momento di votare.

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Ai tempi del conte Camillo la bicicletta si chiamava “biciclo” e aveva la grande ruota anteriore entrata nell’iconografia della preistoria del pedale. Ma appena quindici anni dopo sarebbe nata la Milano-Torino, la più antica delle classiche del ciclismo, il cui primo vincitore (su otto partecipanti, solo quattro dei quali giunti al traguardo di corso Giulio Cesare) sarebbe stato l’entomologo lombardo Paolo Magretti. Pionieristico il tempo di gara: dieci ore e nove minuti. È, quella del 1876, una Torino che vive ad altri ritmi. Deve ancora nascere Guido Gozzano, che nel 1907 inserisce la bicicletta in una sua poesia («Dalle mie mani in fretta / prese la bicicletta. E non mi disse grazie. / Non mi parlò. D’un balzo salì, prese l’avvio») e che qui, in piazza Castello, frequenta la storica confetteria Baratti & Milano di cui canta le civettuole frequentatrici nella famosa poesia Le golose.

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C’è un altro locale famosissimo, a pochi isolati da qui, in via Po: è il Caffè Fiorio, crocevia della vita mondana già nel XIX secolo (si dice che lo stesso re Vittorio Emanuele II chiedesse la mattina ai suoi cortigiani: «Qu’est ce qu’on dit au Fiorio?»), che ancora oggi conserva tra stucchi e specchi l’atmosfera di quell’epoca. Il Giro d’Italia non ci passerà davanti: i ciclisti imboccheranno invece i viali che attraversano i Giardini Reali per immettersi in corso San Maurizio e dirigersi verso il Po. E, a circa due terzi del rettilineo, saranno salutati da due delle sfide più ardite dell’architetto Alessandro Antonelli: sulla destra i 167,5 metri della Mole Antonelliana, il più alto edificio di Torino (persino il grattacielo San Paolo di Renzo Piano si è fermato per rispetto a 167,25) che oggi ospita il Museo del Cinema; sulla sinistra Casa Scaccabarozzi, abitazione di sette piani a pianta trapezoidale con il lato più corto di appena 54 centimetri (ma quello opposto misura poco più di quattro metri), ribattezzata per la sua forma “Fetta di polenta”.


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Raggiunto il fiume, il tracciato svolta a destra per risalirne il corso costeggiando i Murazzi e sfilando davanti al monumento a Garibaldi dello scultore Odoardo Tabacchi (un altro “folgorato” dalla bicicletta; scrive di lui De Amicis: «Lo vidi in un tranvai con un braccio al collo: gli domandai come si fosse fatto male; … mi confessò pudicamente che era cascato da quell’affare. “Anche tu!”, esclamai con vero rammarico») ed entrando nel Parco del Valentino. Luogo di svago e di passeggiate, immortalato da una celebre canzone («Ricordi quelle sere / passate al Valentino / col biondo studentino / che ti teneva sul cuor?»), tra i più amati in assoluto in Italia, offre al visitatore spunti diversi: ospita l’omonimo Castello, maison de plaisance dei Savoia oggi inserito nel patrimonio Unesco, il Borgo e la Rocca medievali realizzati per l’Esposizione Universale del 1884 dal genio eclettico di Alfredo d’Andrade (un falso “filologico” eseguito sul modello di manieri e residenze di Piemonte e Valle d’Aosta), uno spettacolare Giardino roccioso. “Figli” di un’Expo anche la Fontana dei Dodici Mesi (realizzata per la manifestazione del 1898) e il tronco centrale del Provana, sommergibile della Regia Marina andato fuori servizio nel 1927, “parcheggiato” sulle sponde del Po per l’Esposizione Mondiale del 1928.


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Curvi sulle loro biciclette, come in una sorta di staffetta tra le quattro e le due ruote, i “girini” percorreranno gli stessi viali sui quali, tra il 1935 e il 1955, si corsero dieci edizioni del Gran Premio di Formula A (poi Formula 1) con piloti come Nuvolari, Farina, Ascari, Villoresi. Verso la fine del parco, dove un tempo aveva sede la società cinematografica Fert (all’inizio del ’900 Torino è stata la culla del cinema italiano), distrutta dai bombardamenti del novembre 1944, il tracciato della crono lambisce poi il polo fieristico Torino Esposizioni, un complesso architettonico di pregio nato come Palazzo della Moda con interventi di Ettore Sottsass Sr., Pier Luigi Nervi e Riccardo Morandi e poi per molti anni palcoscenico del Salone dell’Automobile. Qui, dalla parte opposta di corso Massimo D’Azeglio, un palazzo ornato da una coppia di “minareti” (citati anche da Natalia Ginzburg in Lessico famigliare) ospita le testimonianze di un illustre passato positivista: il Museo di anatomia umana, il Museo Lombroso e il Museo pomologico Garnier.

Dopo aver pedalato sui viali del Valentino, i ciclisti “riemergono” ora in corso Galilei per puntare verso il Ponte Isabella che all’altezza di corso Dante, a tre isolati dal primo stabilimento Fiat (una costruzione liberty dove nel 1900 lavoravano centoventi operai), attraversa il Po verso la collina. Ormai su corso Moncalieri, che segue il fiume quasi in un rettilineo, gli eredi di Girardengo puntano verso nord nello sprint finale che, a testa bassa sul manubrio, porta al traguardo allestito proprio sotto il Monte dei Cappuccini, dove accanto all’omonimo convento sorge il Museo della Montagna. Poche decine di metri più avanti, la Chiesa neoclassica della Gran Madre, che guarda l’enorme piazza Vittorio Veneto e l’infilata dei portici di via Po fino a piazza Castello, interroga gli appassionati di esoterismo sul significato del calice (il Graal?) sollevato da una delle statue che ne adornano la facciata, a testimonianza del sottobosco di mistero che popola l’immaginario magico della città.


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Se, a questo punto, la carovana rosa continuasse a pedalare sul Lungo Po, che qui diventa corso Casale, arriverebbe al vecchio Motovelodromo intitolato a Fausto Coppi (cui è dedicato anche un monumento collocato di fronte) e, poco dopo, alla casa dello scrittore Emilio Salgari: uno che non ebbe bisogno di biciclette per viaggiare il mondo in lungo e in largo. Anche se proprio due torinesi, Valentino Rolando e Adriano Sada, sarebbero partiti in bicicletta nel 1956 per un “giro del mondo in ottocento giorni”: non dissero nulla a nessuno, tornarono due anni e tre mesi dopo e raccontarono la loro avventura nel libro Due biciclette intorno al mondo – Da Torino a Torino 1956 -58.


*CLAUDIO MERCANDINO (Otto anni a l’Unità, trenta a Repubblica la maggior parte dei quali trascorsi al desk. La sahariana di Marcello Alessandri gli ha mostrato da bambino il fascino del giornalismo, la predilezione per il gioco oscuro del mediano ha fatto sì che sul focoso Mercandin-Chisciotte prevalesse un Mercandin-Sancio da scrivania. Ha abbracciato effimere passioni tardive per lo sci e l’arbitraggio, ne coltiva di più solide per i gatti, la panificazione domestica e i viaggi in moto. La più coinvolgente e duratura, però, è quella per le rime e i giochi di parole)

 

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