Polenta, così il cibo dei poveri diventò partner di formaggi e salsicce

di ALBERTO GRANDI*

Esattamente centocinquant’anni fa Cesare Lombroso pubblicava il saggio “Sulla eziologia della pellagra”, un’opera destinata a ricoprire per parecchi decenni un ruolo centrale nel dibattito socioeconomico italiano, e non solo. La tesi del padre della criminologia era che la diffusione della pellagra tra i contadini dell’Italia settentrionale non fosse dovuta a una dieta monotona, basata esclusivamente sulla farina di mais, ma alla cattiva conservazione del cereale stesso. Oggi sappiamo che Lombroso si sbagliava di grosso, ma in realtà ci vollero ancora sessantacinque anni prima che il medico statunitense Conrad Elvehjem scoprisse, nel 1937, la vitamina PP (Pellagra Preventing) la cui mancanza provocava l’insorgere di una malattia che alla fine del XIX secolo rappresentava ancora la prima causa di morte tra la popolazione rurale del Veneto.

Questa triste premessa era necessaria perché vogliamo parlare del principale piatto tipico della cucina italiana, quanto meno di quella della Pianura Padana: la polenta. Ma togliamoci subito il pensiero: la polenta è il modo più semplice e quindi più povero e più antico per cucinare i cereali. Per questo, quando vedete tutte quelle versioni elaborate che prevedono cotture complesse o, peggio ancora, condimenti ricchi e grassi, potete stare certi che si tratta di ricette più o meno moderne, oppure di piatti del tutto eccezionali assolutamente irraggiungibili per la stragrande maggioranza di coloro che con la polenta si sono sfamati per oltre due secoli. E poi deve essere chiara un’altra cosa: la polenta si mangia in campagna, in città si mangia il pane, meglio se bianco, ma è comunque tutta un’altra storia, che magari racconteremo un’altra volta.

Andiamo con ordine. Quando si parla di polenta, in realtà, non ci si riferisce a una preparazione specifica, ma a una tipologia di cibo; il composto giallo, realizzato mescolando farina di mais e acqua è solo l’ultima, in ordine di tempo, tra tutte le modalità di realizzazione di questa categoria di alimento. Prima della farina di mais si sono usati in pratica tutti i cereali possibili e immaginabili, con la parziale eccezione del frumento che, essendo il più pregiato, era certamente preferito per produrre pane. Già nell’antichità il modo più semplice ed economico per consumare i cereali era quello di ridurli in farina e cuocerli in acqua per farne una zuppa. Si faceva così con l’orzo, la segale e il miglio. Quindi le varie polente non di mais che si possono trovare in giro per l’Italia sono spesso sopravvivenze del passato; come la polenta bianca o la stessa pattona fatta con farina di castagne. La più famosa di questi “fossili” alimentari è senz’altro la polenta taragna, che viene fatta utilizzando, almeno in parte, il grano saraceno, che però non è esattamente un cereale.


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Resta il fatto che oggi, quando parliamo di polenta, ci riferiamo quasi esclusivamente a quella di farina di mais, almeno in Italia. Ma questa egemonia è stata conquistata in maniera tutt’altro che repentina. Il granoturco arrivò in Europa già nel XVI secolo, subito dopo la scoperta dell’America, dove era già ampiamente coltivato e consumato da millenni e dove rappresentava la base alimentare dei Maya, ma impiegò parecchio tempo prima di entrare nel sistema agricolo e quindi nella dieta degli europei, pur avendo rese per ettaro nettamente superiori al frumento. Bisognerà attendere l'aumento della popolazione nel XVIII secolo, per assistere alla ricerca spasmodica di coltivazioni più produttive. Di conseguenza, a partire dalla seconda metà del Settecento la coltura del mais si diffuse nei campi dei Balcani, della Valle Padana, della Francia meridionale; ma attenzione, non diventò mai l’alternativa al frumento, riservato al mercato urbano, piuttosto  si sostituì in larga parte al miglio e all'orzo, proprio quei cereali “inferiori” con i quali, come abbiamo visto, si facevano le varie polente e che quindi erano consumati dalla parte più povera della popolazione rurale.

Nel giro di pochi decenni il mais divenne l’alimento principale dei contadini dell’Italia settentrionale e progressivamente ne divenne anche l’unico. Man mano che cresceva la popolazione, si abbandonavano tutte le altre colture, sempre escluso il frumento, e ci si concentrava sul prodotto che garantiva il maggiore raccolto a parità di superficie coltivata. Il risultato fu che intorno al 1870 i contadini veneti mangiavano due o tre chili di polenta al giorno, arrivando a spendere per la farina di mais il 60% del proprio reddito. Il paiolo appeso sul fuoco, con la donna che mescolava per ore la farina nell’acqua bollente, divenne l’unica attività collegata alla preparazione del cibo per milioni di famiglie contadine. Così come il gesto sempre uguale di rovesciare sul tavolo il composto semisolido, per poi tagliarlo con un filo e farne le porzioni, che venivano mangiate ancora roventi con le mani o al massimo con un cucchiaio.

 Non c’erano condimenti, se non un po’ di sale, e non c’erano maniere per insaporire quel poverissimo piatto. La tradizione vuole che si appendesse un’aringa affumicata sopra al tavolo e con questa si strofinasse il pezzo di polenta, prima di portarlo alla bocca, giusto per aggiungervi un po’ di gusto. Ma l’aringa non veniva consumata, se non dopo molti pasti, quando comunque aveva già ceduto tutto il suo sapore.

E quando nemmeno questa estrema povertà e nemmeno il mais furono sufficienti a sfamare le masse di diseredati, l’unica alternativa fu l’emigrazione, che infatti esplose in Veneto prima che in tutte le altre regioni d’Italia. A questo proposito è curioso ricordare come negli anni a cavallo tra i due secoli si registrarono parecchi casi di pellagra anche negli Stati Uniti e molti medici americani non mancarono di accusare proprio gli italiani di aver portato oltreoceano questa malattia. Come detto, nessuno ne conosceva ancora le cause, ma era evidente che la pellagra fosse diffusa soprattutto nell’Italia settentrionale e quindi era ragionevole pensare che potesse avere origini virali o batteriche.


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Proprio l’emigrazione permise di allentare la pressione alimentare e al tempo stesso forniva redditi supplementari a coloro che rimanevano grazie alle famose rimesse. Nella prima metà del ‘900, a tutto questo si univano i progressi tecnologici e la diffusione dei fertilizzanti; i miglioramenti nella dieta dei contadini sono indiscutibili, ma furono molto lenti. Ancora negli anni ’30 la polenta rappresenta l’alimento base nelle campagne della Pianura Padana e, del resto, si registrarono circa 2.000 casi di pellagra all’anno fino alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale.

Dopo due secoli di polenta e basta, quel cibo poverissimo quasi sparì di colpo dalle tavole dei contadini. La spesa per acquistare farina gialla passò dal 60% a meno del 5% dei bilanci famigliari tra il 1945 e il 1950. Non ne potevano più! E appena fu loro possibile, smisero di cuocere la farina nell’acqua e di rovesciare la polenta sul tavolo. Mangiare così metteva troppa tristezza e ricordava tempi troppo duri per essere ancora ripetuto anche solo per inerzia.

Per cui, quando mettiamo quelle belle fette di polenta ad abbrustolire sul barbecue, accanto a pancette e salsicce, non stiamo ripetendo un gesto antico, stiamo solo dimostrando per l’ennesima volta l’enorme distacco che c’è tra la varietà alimentare di oggi e la disperata monotonia dei nostri progenitori.  


*ALBERTO GRANDI (Mantova, 1967. Insegna storia economica e storia dell'alimentazione all'Università di Parma. Tendenzialmente si occupa di vicende avvenute prima della rivoluzione industriale, forse anche per questo si innervosisce quando vengono attribuite origini antiche a piatti e a prodotti moderni... Ha pubblicato circa 50 tra monografie e saggi in Italia e all'estero. È autore, tra gli altri, di "Denominazione di origine inventata" e di "Parla mentre mangi", editi da Mondadori. Recentemente ha anche creato un podcast, che si intitola anch’esso “Doi, Denominazione di Origine inventata”, stabilmente nelle prime cinque posizioni tra i podcast più seguiti in Italia.)


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