Pamplona ferma per Covid, sarà un Sanfermin della memoria

di GIORGIO OLDRINI *

Non ci sarà la solita folla ondeggiante e urlante nella Plaza del Ayuntamiento di Pamplona a mezzogiorno del 6 luglio, come accadeva da sempre, per assistere al “chupinazo”, il lancio del razzo dal balcone del Comune che da l’avvio ogni anno ai Sanfermines, che per nove giorni riempiono le vie, le piazze, i ristoranti, i bar, gli stand della capitale navarra per una festa che è tradizione irrinunciabile della città. Quest’anno il coronavirus lascia a casa tutti, compresi i tori del “encierro” mattutino e della corrida del pomeriggio.

Val la pena dunque di fare una sorta di Sanfermin della memoria, in attesa che l’anno prossimo tutto torni alla normalità.

Questa infatti è la festa delle identità comunitarie, nata nel medioevo e portata all’attenzione del mondo intero, soprattutto quello di lingua inglese, da Ernest Hemingway con il suo romanzo Fiesta. Dal 6 luglio e per nove giorni di solito arrivano migliaia e migliaia di persone da ogni parte del mondo, che si aggiungono ai pamplonesi, i quali non rinunciano ai loro riti per nulla al mondo. Il primo è quello del vestito, perché per l’intera durata dei Sanfermines tutti ed ognuno, dal neonato al centenario, si vestono, a casa o in giro per la città, in bianco e con una cintura o un fazzoletto rosso al collo.sanfermin-3587340_960_720jpg(Foto Pixabay)

Non solo, la festa comincia a mezzogiorno del 6 luglio ma per gli abitanti di Pamplona c’è un momento irrinunciabile alle 10 del mattino, “il pranzetto”. I ristoranti si riempiono all’inverosimile, le prenotazioni si fanno mesi prima pena l’impossibilità di trovare un posto libero, e tutti si siedono per mangiare uova, salsicce, carne, patatine, verdure, e cominciare a bere birra o il terribile calimocho, un beverone di Coca cola e vino servito in enormi bicchieri di cartone plastificato.

Alle 10 del mattino il pranzetto, perché poi molti si dirigono alla plaza del Ayuntamiento. Non è molto grande la piazza del Comune, ma si riempie all’inverosimile, le persone si spingono e si schiacciano le une contro le altre, mentre qualcuno comincia a tirare per aria enormi palloni, farina, vino e dunque la folla ondeggia paurosamente, ci si pesta i piedi e altro mentre i canti si mescolano alle grida. Poi, alle 12, si fa silenzio e dal balcone del palazzo comunale il o la prescelta per dare il via alle cerimonie prima grida in spagnolo e in basco “Pamplonesas. Pamploneses. Irundarrak. ¡Viva San Fermín! Gora San Fermín!", poi accende il razzo che parte nel cielo ed è il via ufficiale. La folla sciama ed occupa la città che si è riempita di stand dove mangiare o bere, mentre bar e ristoranti vengono presi d’assalto e ovunque si canta

«Uno de enero, dos de febrero

tres de marzo, cuatro de abril

cinco de mayo, seis de junio

siete de julio, ¡SAN FERMÍN!

A Pamplona hemos de ir

con una media y un calcetin

A Pamplona hemos de ir

con una media y un calcetín.»

(Uno di gennaio, due di febbraio

Tre di marzo, quattro di aprile

Cinque di maggio, sei di giugno

Sette di luglio San Fermin!

A Pamplona dobbiamo andare

Con una calza ed un calzino

A Pamplona dobbiamo andare

Con una calza ed un calzino)

sanfermin-3587337_960_720jpg         (Foto Pixabay)

La musica invade ogni angolo di Pamplona, mentre cominciano le feste in onore di un santo, San Firmìn de Amiens, di cui quasi nessuno conosce nulla. E alle 18 ecco la prima cerimonia religiosa, i Vespri, di una festa che è ormai soprattutto pagana. Ma il 7 luglio vecco la processione cattolica, con la statua di San Firmin che esce dalla chiesa e percorre le vie della città vecchia, accompagnata dalle autorità religiose e, a seconda dei momenti, anche dal sindaco e dalle autorità civili. Ma spesso, soprattutto negli anni del terrorismo, le contestazioni contro i rappresentanti di un potere che una parte dei cittadini sentiva come invasori avevano consigliato di lasciare al solo vescovo la guida della sfilata.

La festa di San Firmìn è conosciuta soprattutto per “el encierro”, la corsa dei tori dalla periferia di Santo Domingo fino alla Plaza de toros. La tradizione vuole che tutto sia cominciato nel medioevo quando la festa del patrono era anche l’occasione per commerciare il bestiame e dunque gli allevatori portavano le loro bestie per essere vendute e le conducevano dai corral della periferia, dove avevano passato la notte, al luogo della esposizione. Poi questa è diventata il clou della festa.

Ogni mattina per otto giorni “los mozos”, i corridori locali, più centinaia di aficionados di tutto il mondo, si presentano entro le 7 sotto la salita di Santo Domingo, mentre il percorso viene “sigillato” con assi di legno massiccio dietro le quali si assiepano gli spettatori. Ma altri invadono, a pagamento, i balconi delle case lungo il percorso. Il punto più ambito è l’intersezione delle vie Mercaderes ed Estafeta, dove la strada fa un angolo secco a 90 gradi e spesso i 6 tori, gli 8 manzi e molti corridori scivolano e cadono, travolgendosi gli uni con gli altri. Per i corridori l’attesa dalle 7 alle 8 diventa interminabile, ma qualche minuto prima della partenza tutti si radunano davanti ad una piccola cripta con l’immagine del santo e per tre volte cantano in spagnolo e in basco: “«A San Fermín pedimos, por ser nuestro patrón, nos guíe en el encierro dándonos su bendición. Entzun, arren, San Fermin, zu zaitugu patroi, zuzendu gure oinak entzierro hontan otoi.» (A San Firmino, il nostro patrono, chiediamo che ci guidi nell'encierro dandoci la sua benedizione. A San Firmino, il nostro patrono, chiediamo che ci guidi nell'encierro dandoci la sua benedizione).

sanfermin-3587336_960_720jpg(Foto Pixabay)

Poi, alle 8, il primo razzo parte per segnalare che le porte si sono aperte e subito dopo un secondo avvisa che i tori sono usciti. Personalmente mi hanno sempre incuriosito alcuni comportamenti del encierro e della festa. La prima riflessione riguarda il diverso rapporto che c’è in Spagna e Italia tra la responsabilità personale e quella pubblica. Un giorno, quando ero sindaco di Sesto San Giovanni, spiegavo l’incredibile affollamento del chupinazo. L’allora segretario comunale mi diceva:  “Se in quella piazza ci stanno 2 mila persone, quando ne sono entrate 1990 la polizia deve chiudere gli accessi”. Nemmeno per sogno. Tutti quelli che vanno lì sanno che entrano in una sorta di bolgia infernale. Se succede qualcosa la responsabilità è di chi vi è entrato. Così tutti possono “correre i tori”, a patto che abbiano almeno 18 anni.

 Una mattina stavo per farlo anche io e nessuno mi ha fermato dicendomi “Scusi, lei è vecchio, con la pancia e si vede che l’ultima volta che ha corso era 50 anni fa. Torni a casa”. Chi vuole corre, e se viene incornato viene curato, assistito, ma peggio per lui. Da noi, come dico io, in caso di un incornato, un magistrato sequestrerebbe il toro, la strada e avviserebbe di reato il sindaco e gli organizzatori. I tori pesano più di 600 chili e sono bestie da corrida, quella del pomeriggio. Negli anni i morti sono stati una quindicina e incontabili i feriti. Ma nessuno pensa di fermare el encierro.

L’altra curiosità che mi rode dipende proprio dal mio passato di sindaco. Quando alle 8 i tori stanno partendo e ci sono centinaia e centinaia di corridori pronti, una serie di agenti di polizia locale, tenendosi stretti tra di loro, fanno argine per impedire che arrivino proprio alla porta da cui escono gli animali in modo che possano prendere uno slancio. Questi agenti hanno alle spalle centinaia di persone urlanti e che premono e davanti 6 tori da 650 chili e 8 manzi che arrivano correndo contro di loro. La abilità di questi “vigili urbani” è di sciogliere il loro cordone umano all’ultimo istante per far passare i tori che si precipitano verso i coraggiosi, senza essere travolti. La mia domanda è: “Ma che indennità pagherà il Comune di Pamplona a quella decina di agenti coraggiosi?

El encierro dura solo qualche minuto e alla fine i tori entrano nella Plaza de toros, dalla quale vengono fatti uscire subito, mentre al loro posto entrano “novillos”, vitelli con i quali i mozos giocano a mimare la corrida.

building-3728586_960_720jpg(Foto Pixabay)

Poi tutti a fare colazione, cioccolata calda e churros, un biscotto lungo fritto e zuccheroso, perché a Pamplona l’escursione termica è molto forte e alla mattina di luglio spesso fa freddo. Magari nella Plaza del Castillo al Café Iruna, quello di Hemingway che è volutamente rimasto come allora, anche se lordato dalla presenza di due o tre macchinette mangiasoldi. Di fianco c’è un altro luogo hemingwayano, l’hotel Perla, che ospitava lo scrittore. Ma l’albergo è amato a Pamplona perché da uno dei suoi balconi il grande violinista Sarasate una volta all’anno suonava per i suoi concittadini che si radunavano ad ascoltarlo nella piazza.

C’è di tutto in quei 9 giorni di festa. La processione cattolica e le sfilate laiche che si snodano per la città con tutti che cantano “riau-riau”, sulle note del Valzer di Astrain; i giochi per uomini forti come il sollevamento dei tronchi o il lancio delle pietre; e il trionfo dei bambini con la eterna sfilata dei giganti, enormi bamboloni al cui interno c’è un uomo, che percorrono le vie accompagnati da piccoli gruppi musicali e distribuiscono caramelle. I bambini piccoli aspettano questo momento per abbandonare il succhiotto: lo si attacca al vestito di un gigante e viene così sancito che il piccolo non è più un neonato, ma già un bambinetto. C’è la grande arena degli scacchi e tutte le sere i fuochi artificiali dal Castello, una sorta di campionato per artificieri di mezzo mondo che riempiono per ore il cielo di colori e di suoni. Non c’è un momento vuoto nei 9 giorni, e migliaia e migliaia di persone non dormono mai.

Poi, alla mezzanotte del 14 luglio l’ultima processione laica, con la folla ormai stravolta che canta «Pobre de mí, pobre de mí, que se han acabado las fiestas de San Fermín. Pobre de mí, pobre de mí, que se han acabado las fiestas de San Fermín.» (Povero me, povero me, che sono finite le feste di San Firmino. Povero me, povero me, che sono finite le feste di San Firmino.)

E ci si prepara per los Sanfirmines del prossimo anno. Ma questo 6 luglio molti in una Pamplona deserta piangeranno. Forse cominceranno dalla fine cantando in casa “Pobre de mi, pobre de mi sin las fiestas de San Firmìn”.


*GIORGIO OLDRINI (Sono nato 9 mesi e 10 giorni dopo che mio padre Abramo era tornato vivo da un lager nazista. Ho lavorato per 23 anni all’Unità e 8 di questi come corrispondente a Cuba e inviato in America latina. Dal 1990 ho lavorato a Panorama. Dal 2002 e per 10 anni sono stato sindaco di Sesto San Giovanni. Ho scritto alcuni libri di racconti e l’Università Statale di Milano mi ha riconosciuto “Cultore della materia” in Letteratura ispanoamericana)


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