Ospitalità, il tuo nome è Albania

di LUISA PECE*


"Shtëpia e shqiptaritështë e Zotitdhe e mikut (La casa dell’albanese è di Dio e dell’ospite)".

Una frase che mi è rimasta impressa, un precetto che ho sperimentato personalmente, in Albania. Ovunque, anche in casa di persone a me sconosciute, al seguito di altri amici, sono sempre stata ricevuta come ospite gradita, con genuina simpatia. Per non parlare del fatto che mai, e ribadisco mai, mi è stato concesso di offrire anche solo un caffè…

La prima volta che andai in Albania lo feci con un tour organizzato, un gruppetto piccolo, un bel programma, prevalentemente “culturale”. L’Albania era un luogo sconosciuto, non ne sapevo niente, se non che bisognava stare attenti agli albanesi (chiedo scusa ai miei meravigliosi amici shqipetar, ma questo era quanto si sentiva dire). Già all’arrivo all’aeroporto di Tirana la sensazione, stranissima per me che già avevo tanto viaggiato, fu di essere finalmente “a casa”, un senso di benessere, di allegria, di vitalità. Il giro fu bellissimo e scoprii un paese ricco di testimonianze storiche e archeologiche, musei piccoli e grandi con vere chicche, scavi che hanno appena iniziato a mostrare le antiche meraviglie, una cucina superba, una natura che, selvaggia o addomesticata, superò le mie più rosee previsioni.


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Ma quello che mi colpì al cuore (e ancora non mi sono ripresa, né voglio riprendermi) fu la gente. A partire dalle due persone che ci accompagnarono nel tour, sorridenti, pazienti e disponibili, sempre, che furono il primo impatto con quello che sarebbe seguito. Nelle ore “libere” io me ne andavo in giro da sola, ad assaporare l’atmosfera di quello che sentivo come un luogo amico, una specie di grembo che mi accoglieva. Tutte le (tante) volte che sono andata in Albania, per me è sempre stato una specie di ritorno - e mai mi ha deluso.

Questa introduzione per raccontarvi lo spirito di ospitalità di questo piccolo grande paese. Non dimentichiamo che in questi giorni in cui decine di migliaia di profughi afghani cercano rifugio lontano dal loro paese, il premier albanese Edi Rama si è dichiarato pronto ad accoglierne un certo numero, anche se temporaneamente, per dare loro “almeno la possibilità di poter respirare di nuovo”. Non dimentichiamo neppure che, durante la follia nazista, l’Albania non accettò di rivelare ai nazisti i nominativi di chi apparteneva alla piccola comunità ebraica nel paese, nascondendoli e fornendo loro nuove identità. Dall’Albania passarono centinaia di ebrei provenienti da altri paesi, che in tal modo ricevettero la protezione che servì loro per sopravvivere. Anche Albert Einstein fu “salvato” dagli albanesi: per sfuggire alle leggi razziali naziste gli fu fornita la cittadinanza di Pogradec, con relativo passaporto, grazie al quale riuscì a rifugiarsi negli Stati Uniti. A quanto mi è stato raccontato, anche parecchi militari italiani, dopo l’8 settembre, furono protetti e aiutati dalle famiglie albanesi. 


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Esiste una parola albanese, mikpritja, che esprime un concetto ben più ampio dell’idea di ospitalità: vuol dire accoglienza, fratellanza, amicizia. Una tradizione che risale a tempi antichi e che, con modalità adattate, vige tuttora nelle case albanesi, dove il posto d’onore è riservato a un grande divano che accoglierà, appunto, l’ospite che dovrà sentirsi come a casa propria. Ad Argirocastro si visita una “casa-torre” di epoca ottomana, tuttora abitata, in cui questa tradizione si palesa in tutto il suo splendore nella spaziosa stanza al primo piano, arredata con grandi tappeti e divani lungo tutte le pareti, e tavolini sparsi qua e là. All’epoca, questo locale era riservato agli uomini, mentre le donne vi entravano solo per servire cibi e bevande. Abbiamo avuto modo di constatare che le cose nel frattempo, per fortuna, sono cambiate.

Una piccola annotazione: in questa casa-torre e in molte case si vedono animaletti di peluche o bambolotti appesi al tetto o alle grondaie. Gli albanesi li chiamano dordolec, sono una specie di protezione contro il malocchio, nel senso che eventuali maledizioni, prima di poter entrare in casa, si infrangeranno contro questa specie di spaventapasseri taroccati. 

Un altro detto tipico albanese, che in tre parole dice tutto e descrive quello che l’albanese offre all’ospite è: Bukë, kripë e zemër, cioè Pane, sale e cuore.


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La mikpritja costituisce uno dei punti di forza del Kanun, antico codice consuetudinario albanese, le cui origini si fanno risalire al XV secolo, una raccolta di principi e regole sui temi del viver civile. Il Kanun conservò il suo valore fino ai primi anni del ventesimo secolo, quando venne ufficialmente – ma non realmente – abolito, resistendo solo nelle zone montuose più remote. Oggi è obsoleto, anche se restano ben saldi alcuni principi, come per esempio la besa, cioè il tener fede alla parola data, l’onore dell’individuo (ovviamente di sesso maschile…) et similia. Altri principi riguardano le dinamiche familiari – la famiglia è fondamentale nella quotidianità di uomini e donne albanesi, molto presente e a volte prevaricante.

Per comodità, cito da Wikipedia gli ambiti di cui tratta il Kanun: “I diritti e le immunità della Chiesa, la famiglia, il fidanzamento e il matrimonio, la proprietà privata e la successione, il lavoro, i prestiti e le donazioni, il giuramento e la besa, l'onore, il risarcimento dei danni, i delitti infamanti, la vendetta, il codice giudiziario degli anziani, i privilegi e le esenzioni”. 

Non sorprende quindi che questo spirito di ospitalità e di fratellanza si ritrovi anche in ambito religioso, dato che in Albania, un paese di non grande estensione, convivono tranquillamente tutte le grandi religioni monoteiste: cattolicesimo, sia di rito romano sia di rito ortodosso, islam sunnita e sufi-bektashi, ebraismo e una piccola comunità evangelica. Ne riparleremo.

 

*LUISA PECE (nata a Bologna tanto tempo fa, malata di adolescenza senile, appassionata viaggiatrice, attrice per diletto, un passato lavorativo tra i libri - Il Mulino - , poliglotta, curiosa come un gatto rosso)


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