Mosca, questo non è un paese per vecchi

testo di MANUELA CASSARA'*

foto di GIANNI VIVIANI*


Per dirla con i fratelli Coen nel film omonimo, a Mosca, quella del 2012,  i vecchi non avevano vita facile. Questo pensavo, questo mi è rimasto dentro.

Da un lato un lusso estremo. Boutique monogriffe, alberghi e ristoranti eleganti, due grandi magazzini esagerati, TsUm e Gum: neanche a New York o Londra, persino a Tokyo e nemmeno a Dubai, capitale del consumo firmato, avevo visto ostentare tanta ricchezza. Lusso che si contrapponeva alla precarietà degli anziani, orfani di uno Stato dismesso. Vecchietti con pensioni pietose che avevo visto mendicare dignitosamente, anziane signore che s’ingegnavano, chi frugando nella spazzatura, chi cercando di vendere uno scialletto, chi sottaceti o qualche oggetto diventato superfluo, di arrotondare le loro misere entrate. Stupiva constatare come il comunismo più conclamato fosse degenerato e avesse dato via a un consumismo così avido da far sembrare quello americano, nel confronto, quasi edulcorato.

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(Al semaforo)

La nuova Russia, quella della post Perestroika, quella dei nuovi multimiliardari, era sfacciata, volgarmente ostentata.

A fare loro da controcampo, a questi poveri vecchietti, una gioventù sfrontata; belle ragazze tipo top model, dee impellicciate, cariche di buste griffate Chanel, Bulgari, Vuitton, che levitavano su tacchi 12, a gambe nude sotto gli zibellini, immuni al freddo e agli scivoloni, persino su quei marciapiedi incrostati di ghiaccio.

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(La Moscova ghiacciata)

Spesso le vedevi accompagnate da corpulenti signori in età, orologi Cartier  o similare al polso, portatori di portafoglio, probabili dispensatori di quei costosi regali firmati. Sarò anche maligna, ma no, nessuno di quei signori era il papà. Ci metterei la mano sul fuoco.

Un‘altra cosa mi aveva colpito allora, al punto che me l’ero annotata. In quattro giorni non avevamo visto un cane. Anzi uno sì, lo avevo notato : era piccolino, magrolino, miserello, trascinato al guinzaglio per fare i suoi bisogni da una signora impaziente. L’unico. Strano.

Era dicembre, subito dopo Natale. Avevamo solo quattro giorni, pochi per una città così complessa

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(Saltimbanchi haute couture)

Avevamo scelto un albergo che prometteva molto, grazie all’utilizzo del grand’angolo nel fotografare le stanze. Il Golden Apple, nel frattempo, ha cambiato nome e subìto un bel restauro, ma all’epoca lo definivano “boutique hotel”,  e io quando vedo scritto “boutique hotel” non resisto, ovunque esso sia. Perché costa sempre meno di un 4 stelle e mi sembra di fare un affare. Due pregi però li aveva: una fermata della metropolitana a pochi metri e una colazione super goduriosa, con abbondanza di blinis, salmone e frutta esotica. Aveva anche un non trascurabile difetto: delle stanze cubicolo, con riscaldamento a manetta, dove era imperativo sbrigarsi a rimanere in mutande. Con un ingegnoso sistema "matrioska" cose dentro cose, dentro altre cose, eravamo riusciti a imbucare abiti e bagagli. Ma ogni giorno era una battaglia.

A fine dicembre ci aspettavamo un glaciale -30° ed eravamo partiti attrezzati. Ma ce l‘eravamo cavata con un ragionevole -10°.  Giravamo intabarrati con magliette della salute e calzemaglie termiche, ogni giorno ci aspettavano strade fangose, scalinate scivolose, spostamenti in precario equilibrio su marciapiedi  ghiacciati, che nessuno sembrava pulire.

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(Saltimbanchi al Bolschoi)

In quattro giorni avevamo scarpinato lungo la Moscova ghiacciata, salutato l’imperiosa statua di Pietro il Grande,  ammirato i Palazzi della Nomenclatura, onorato il mitico Bolschoi, percorso la storica via Arbat, dove avevano vissuto Pushkin e l’intellighenzia moscovita, delusi dall’irrispettoso agglomerato di fast food e negozietti di souvenir. Avevamo visto tutto il vedibile. Ma niente ci aveva preparato all’epica grandezza della Piazza Rossa. Dopo averla stravista nei film, esaltata nei documentari, guardata in innumerevoli foto, come spesso accade nei luoghi cartolina c’era il rischio dell’effetto dejà vu.

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(Magazzini TsUM)

Con la Piazza Rossa no. Perimetrata da un lato dai palazzi dei grandi magazzini, dall’altro dalle mura del Kremlino e dal Mausoleo di Lenin che facevano da quinta, sullo sfondo la chiesa di San Basilio con le sue guglie pirotecniche, una scenografia con il rosso come colore dominante delle costruzioni, a contrasto con il grigio plumbeo del piazzale e quello più sfumato del cielo. Noi, arrivati al centro, c'eravamo sentiti piccoli e insignificanti in mezzo a tutta quella varia umanità: soldati impettiti con visi da bambini, scolaresche vocianti, famiglie di gitanti, coppiette in luna di miele, una folla multietnica dove le etnie indigene si mescolavano con quelle dei turisti; gruppi di italiani, subito riconoscibili, qualche francese, pochi inglesi, ancora meno americani. Stalin, Lenin e Putin, c'erano anche loro tra la folla. Perché c'è chi faceva questo di mestiere: l' Impersonator. Gente che se ne stava lì a subire il freddo, in cambio di una foto per pochi rubli. Sosia iper realistici che Gianni aveva ignorato, distratto da altre, più vere,  realtà. Alla fine si era fatto convincere, di malavoglia, per amor mio e di cronaca. Uno scatto. Manco pagato.

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(Arrabattarsi)

Sotto Natale, nelle strade del centro, davanti ai Musei e alle Gallerie d’arte, gruppi di saltimbanchi coinvolgevano i passanti con canti e balli. Quartiere dove andavi, saltimbanco che trovavi. Quelli nella Petrovka Ulitsa, la locale via Condotti,  sfoggiavano costumi sfarzosi da personaggi ricchi e ben pasciuti, ben diversi dagli allegri giullari nazional popolari che stazionavano altrove. Nessuno di loro, per quei gioiosi girotondo, accettava un rublo. Impiegati stipendiati dallo Stato, con il compito di fare allegria. Sarei curiosa di sapere che lavoro facciano negli altri mesi.

Per spostarci utilizzavamo la metropolitana. E chiamarla metropolitana, pensando alle nostre, è riduttivo.   Quindici linee, stratificate in altezza, che s’intersecano in una ragnatela collegata da ripidissime scale mobili, in discesa verticale fino agli inferi. Un ingranaggio perfetto, un servizio dalla precisione cronometrica; mai più di un minuto di attesa, per soli 50 rubli a corsa. Settantatre centesimi di euro al cambio odierno.  Dodici milioni di persone la usano quotidianamente, una folla compressa, grigia e anonima, che mi ricordava quella di Metropolis, il film di Fritz Lang.

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(Lenin in metro)

Paragonata all’Underground Londinese, al Metrò Parigino, alla Subway Newyorkese, che già ci stupiscono, la Moskovskij metropoliten imeni V. I. Lenina con la sua labirintica complessità, la segnaletica criptica, quelle fermate dai nomi impronunciabili, è di un’altra categoria.  Persino a confronto con quella di Tokyo, che pure mi aveva messo in difficoltà, quando ci andavo per lavoro. Almeno, a Tokyo, nelle stazioni principali, avevano tradotto gli ideogrammi in Inglese. A Mosca o sai il cirillico o ciccia.

Spostarsi richiedeva determinazione, memoria eidetica e un certo fatalismo. Se non altro, a differenza di Tokyo dove ti guardano basiti e scappano impauriti se solo chiedi un’informazione, a Mosca bastava un attimo di esitazione che giovani di buona volontà si avvicinavano spontaneamente per indicarci la via.

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(Guardie sulla Piazza Rossa) 

Le stazioni sono sontuose come saloni, abbondano di cristalli, di stucchi dorati, con mosaici, affreschi e statue monumentali. Ce ne sono 450 e se non tutte sono speciali alcune valgono il viaggio.  Ci sono le celebrative: la Slavyansky Bulvar, la Taganskaya, la Park Kultury. O la Novokuznetskaya, con quei bassorilievi copiati da Luca della Robbia, con baldi eroi della Rivoluzione al posto di pudiche madonne e teneri puttini.  E quelle semplicemente magnifiche: la Majakovskaja, la più moderna Ploschad Revolutsii, la Teatralnaya, supervisionata dallo stesso Khrushchev, che ci teneva ad omaggiare la natia Ucraina.

In quanto al cibo, la scelta non mancava: dal sushi alla pizza, dal thailandese al cinese. Per chi fosse in astinenza da spaghetti, un piatto ai frutti di mare all'epoca veniva via con “soli” 40 Euro al ristorante dei magazzini Gum, dove li servivano al cartoccio con eleganti svolazzi. Non ci eravamo cascati, ma c'eravamo divertiti ad osservare la bionda fascinosa al tavolo accanto destreggiarsi impacciata con la forchetta.

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(La Piazza Rossa)

Noi, che volevamo gustarci un po’ di colore finto locale, eravamo riusciti a farci turlupinare da una tourist trap  che prometteva una cena a base di vodka, degustazione di caviale e balalaika. Per fortuna all’intrattenimento, che mancava, aveva supplito un ridanciano gruppo di turiste anzianotte, già molto allegrotte, che faceva il trenino. Pollice su, invece, per la piccante e saporita cucina Georgiana; avevamo fatto il bis in un rumoroso ristorante vicino all’hotel, che poi ci avevano detto essere covo di mafiosi. Il che ci stava, almeno somaticamente parlando, vista l’aria minacciosa di certi baffuti commensali. Ricordavano un po’ lo Zio Stalin, a ripensarci.  Ma datemi un piatto speziato, una zuppa di Kharcho o dei bei ravioloni Khinkali, e io non guardo più in faccia nessuno.

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(Scolaresche in visita)

A metà di una delle frenetiche giornate, spossati e infreddoliti, c’eravamo concessi un elegante momento ristoro al Cafè Pushkin. Volevamo un’atmosfera tolstoiana, stile casa di Anna Karenina e il Cafè, sempre in foto, aveva le carte in regola. Era perfetto e splendidamente finto, perfettamente ricostruito. Aromi speziati di cannella e vin brulè ci avevano accolto nell’aria surriscaldata, tra boiserie e velluti, ricchi addobbi natalizi e gruppi di signore eleganti. Il  tè si era fatto attendere, ma dopo quattro passaggi di mano era arrivato con un ultimo elaborato salamelecco sul nostro tavolo dove l'aveva raggiunto il più stupendo, scultoreo e squisito dolcetto che io avessi mai assaggiato e che ci era costato, va detto, come una cena al ristorante.

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(Al museo)

Mosca e i suoi musei: ore magiche passate nelle due magnifiche Tetryakov Gallery, la classica e la Galleria D’arte Moderna, dove il Costruttivismo è di casa. Una purtroppo parziale immersione nell`arte russa, che non conoscevo. Un' ignoranza totale e vergognosa, lo confesso, al punto di non poter citare nemmeno uno di quei meravigliosi artisti che ci hanno così emozionato. Grandi sale, ottimamente illuminate, ognuna con il suo anziano pensionato barra pensionata, riciclati come guardiani, seduti, per interminabili ore, pazienti e immobili su una seggiolina a fissare il vuoto.

Arte che ci ha raccontato la vita e la storia della Grande Madre Russia attraverso i secoli: i volti levigati dell’aristocrazia, le eleganti famiglie della borghesia, gli affanni del popolo…  un percorso che documentava, come inevitabile punto d’arrivo, la Rivoluzione d’Ottobre.

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(Il sosia di Stalin)

Non ci eravamo fatti mancare il Museo del Gulag, un tributo dovuto a tutte le vittime eliminate dal paranoico Baffone. Diecimila Gulag sparsi sul più ostile dei territori, la Siberia. Definirlo Museo è un parolone: poche disadorne stanzette che comunque ti mettono i brividi, con qualche reperto arrugginito e tante foto sfocate di gente scomparsa, che trasmettono l`orrore di quel terrore di massa che ha distrutto le vite di dieci milioni di persone, ma se ne quantificano sessanta.

Sorvolo per non sembrare cialtrona e concludo per riaffermare che questi nostri raccontini non vogliono essere altro che piccoli e personalissimi amarcord, che potranno magari venire utili quando si potrà, chissà, tornare a viaggiare. Niente di più. Mettiamoci quindi una tara, su questi ricordi, oltretutto sono passati nove anni. Le impressioni, però, sono rimaste, vivide. E anche la voglia di tornarci, a Mosca, perché ci è rimasta nel cuore.  

Dasvidaniya, tovarisch.

*MANUELA CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto) 

*GIANNI VIVIANI (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast ha documentato con i suoi still life i prodotti di molte griffe del Made in Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di Repubblica. La sua passione più recente sono le foto di viaggio)


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