La Valle delle Meraviglie ha un cuore, Casterino  

di ANDREA ALOI*

Où sont le neiges d’antan, si chiedeva Villon. Più o meno dove sono quelle di adesso, amico François. E in montagna quando è estate non mancano il profumo eterno dell’erba e delle piante d’altura, il tarassaco, la nigritella dall’aroma vanigliato, l’aquilegia. Nel giardino di un amico ospitale a Casterino, gioiello solitario nel Parco nazionale del Mercantour a millecinquecento metri d’altitudine, mi presi un giorno la benedizione e il benvenuto di un trionfante giglio martagone color arancio deciso con picchiettature di prammatica. Vallée des Merveilles, anni Ottanta. Con la garanzia che poco o nulla, nel frattempo, è cambiato. Perché i profili sono netti, la montagna pulisce i margini.

Ai primi di luglio, per diverse stagioni, ho risalito da Ventimiglia la valle del fiume Roya, una vertigine di crepacci, la montagna spaccata dal fiume e gole da paura. Sole e ombra di gelo per conquistare in poco più di cinquanta chilometri la porta d’accesso al cuore delle Alpi Marittime, ben raggiungibile anche da Cuneo, ma l’ascensione dal mare regalava qualcosa in più, oltre alle Gorges de Saorge. Si salutava Ventimiglia uscendo dall’autostrada per raccordi surreali e interminabili e forse inutili, poi su e presto si passava la frontiera a Fanghetto per entrare in Francia. E su ancora, verso Tenda, terra italiana perduta - insieme a parte dei comuni di Briga, Valdieri e Olivetta San Michele - col trattato di Parigi del ’47. Succede quando si fanno guerre e le si perdono. I francesi ce l’hanno tenuta bene quella montagna e quel parco, un rimpianto in meno.

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(Tenda         foto Pixabay)

La Casa primi Novecento del nostro ospite era semplice ed eretta come e dove si deve, due piani, un solaio ben frequentato da topi campagnoli e ghiri (uno venne trovato d’inverno addormentato in un cassetto), un’ampia stanza con l’indispensabile camino, sempre acceso nelle sere di luglio quando la montagna reclama il suo diritto a un freddo silente e minerale, puro, assoluto, la cucina con la nicchia d’angolo (un eccellente frigorifero) esposta a nord e a un maggiociondolo, la sala con il lungo tavolo testimone delle storie di una famiglia metà italiana e metà francese, degna del film di Scola. Luogo spartano, senza luce elettrica. E andava benissimo così, si conquistava un po’ di chiarore con lampade a cherosene dei tempi di Verdun addomesticate negli anni dal padrone di casa e via con racconti e bilanci della giornata davanti al fuoco. Alla fine vinceva la notte inquieta sotto i monti. Casterino ti lasciava indifeso, guai pensare a storie di fantasmi, antiche leggende o all’incombente Monte Bego, sacro luogo fin dal Neolitico. Asce, bovini, figure umane stilizzate. Se avete una passione per le incisioni rupestri di ogni ordine e grado, nella Vallée des Merveilles troverete la vostra Disneyland.   

A Casterino d’inverno ci si trastulla con lo sci di fondo, l’estate richiama gli appassionati delle randonnées, delle passeggiate, tanti gli itinerari per ogni velleità. La randonnée non è trekking, non è forest therapy. È l’escursione montana per sano diletto, non uno sport da vene gonfie, quindi imperfetta secondo i canoni della fitness ricreativa contemporanea perché viene programmata il giusto la sera precedente consultando la carta dei sentieri e cassando - almeno per i primi giorni - gli itinerari più impervi o lunghi. Esempio. Da Casterino l’anello Fontanalba-Valmasque coi suoi laghi ingolosisce, ma sono più di venti chilometri, anche la metà o un terzo bastano per cominciare, in alternativa c’è sempre il Lac des Grenouilles, con un dislivello di 300 metri potabilissimo. Alla randonnée, poi, partecipano in genere bambini di varia pezzatura abituati a camminare con le proprie sante gambine e che non hanno mai conosciuto macchine elettriche da piccolo pirla ma solo biciclette e severe sbucciature alle ginocchia. A mezzogiorno si mangia al sacco senza integratori mentre si guardano le genziane in stravacco sull’erba, non i tempi di percorrenza e la performance (che Iddio la fulmini).

Rimangono immutate, di generazione in generazione, alcune regole auree. La prima: se nello zainetto non c’è posto per una mantella di plastica e un golf di lana o qualcosa di affine, va trovato. Sopra i millecinquecento-duemila il tempo d’estate cambia come l’umore di un ciclotimico e quel cielo azzurrino dell’alba sotto il quale siete partiti, quel solicello tiepido della mattinata possono trasformarsi alle quattro del pomeriggio in un Armageddon di vento e acqua e freddo, senza contare il plus dovuto al solito Monte Bego, catalizzatore di intemperie e tanto altro. La seconda: non siete partiti con le infradito ed è un indubbio punto a favore, confermatevi persone prudenti non infilando le mani sotto le rocce e facendo un po’ di chiasso e battendo il terreno con dei bastoni prima di sedervi per le soste, è noto che le viperette di prima estate sono bizzose e non raccomandabili. La terza: una volta consumata la colazione al sacco è bene non cacciare i piedi nell’invitante laghetto che avete raggiunto sputando l’anima, in quel momento il sangue vi serve per digerire, non per irrorare le estremità immerse nel gelo; si rischia una congestione e se siete recidivi, potreste essere abbandonati in pasto ai lupi dai compagni di randonnée, senza che il cane del pastore Pascal possa intervenire, come quella volta che convinse un’aquila reale a mollare l’agnello già nelle grinfie. 

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(Il trenino della valle delle meraviglie     foto Pixabay)

Immergere qualsiasi parte del corpo in un liquido d’alta montagna, anche il più invitante dei torrenti, è chiaro segno di hybris, così come figurarsi una salita più agevole di quanto non sia in realtà. Partiti una mattina all’alba, tra impennate e radure disseminate di scomode risorgive e rododendri, si giunse a un lago stremati e infreddoliti. Seduto su una roccia sotto monte, stavo riprendendo i sensi prima di aggredire un panino e ci misi un po’ ad accorgermi che qualcuno mi stava osservando con mite compatimento. Lo stambecco ipercornuto se ne stava ritto sui sette centimetri quadri di uno spuntone e cercava d’immaginarsi per quale motivo dei non quadrupedi sprovvisti di zoccoli prensili venivano fin lassù.

Pascal era (e spero sia ancora) un reduce del Maggio francese che stava concretizzando un sogno, quello di non avere padroni. Fornito di barba e lunga criniera sapeva ragionare sulle opere e i giorni dell’uomo meglio di Lévi Glucksmann, al pari del suo aiutante di campo, un bastardone pezzato voluminoso, a tutti gli effetti un intellettuale organico: al gregge. Lo governava con zampa ferma, fiero di compiere al meglio il lavoro, e vederlo mentre faceva finta di dormire e in realtà muoveva gli occhi a periscopio per monitorare il gregge è stato un privilegio. Tale era ascoltare Pascal: “Oggi la gente non sa dove vive. Su che terreno gli hanno costruito la casa? con quali pietre? che acqua beve? e le piante e le erbe che incontra in campagna?”. Di tutt’altro impasto il leggendario Tribula, piccolo orco d’età indefinibile con un cappello ormai marmorizzato dal tempo e cuoio al posto delle guance. Nato italiano, anzi piemontese, anzi cuneese, era il malgaro ufficiale di Casterino. Per le spese grandi, compreso il pane buonissimo, si scendeva a Tenda, il Tribula provvedeva al latte sovraccarico di grassi deliziosi, al burro e al cacio odorosamente conservato su scansie che qualunque funzionario di Bruxelles brucerebbe col napalm.

Si favoleggiava di una passata ospite della Casa capace di incamerare alla prima colazione sei fette di largo pane contadino imburrato e corroborato da marmellata senza lesina. D. B., cugina di mia moglie, romagnola e di una magrezza incongrua, portò il record a otto. A una tavolata serale nel ristorante dell’albergo Marie-Madeleine si distinse così prodigiosamente con patate lesse e raclette (formaggio del Canton Vallese scaldato e spatolato via dalla forma quando è mollacchio), che un commensale la invitò, sorridendo malizioso, a completare la cena con una bella fetta di paté e un gotto di cognac.

Professore in un liceo parigino, portava ovviamente occhiali tondi ed era amico di uno dei proprietari della casa, cugino del nostro ospite. Proverbiale, a inizio di randonnée, la previsione del cugino sui possibili avvistamenti di animali: “Marmottes sûr, chamois peut être”, marmotte sicuro, camosci può darsi. Proverbiale il culo - e sì, culo - del professore coi funghi. Quel pomeriggio si era scesi dai millecinquecento agli ottocento metri, e sembrava avessero acceso il termosifone. Destinazione un noccioleto in disarmo e però - nonostante il luglio, meno propizio dell’autunno - in passato prodigo di belle sorprese, del resto lassù non mancava di certo la pioggia, mai. L’albero del nocciolo è basso, una volta inselvatichito i rami prolificano e la vegetazione è fitta. Partiti sparsi in direzione basso-alto per la battuta di caccia, avanzavamo piegati e, passata una mezz’ora, sempre più scoraggiati quando risuonò la voce del professore: “Cèpes!”. Porcini. L’annuncio si ripeté almeno cinque o sei volte, comunque troppe. Tornò con bel cestino, battendo tutti di varie lunghezze. Il porcino è preda ambita, accidenti, mica come i prataioli, a Casterino se ne trovano a legioni, basta notare dall’alto i cerchi d’erba più scura: lì sotto c’è azoto, sopra il prataiolo, a volte di dimensioni esagerate. Impanati e fritti hanno un loro perché. Ma i porcini…

Molte estati e molte stelle scivolavano così, umanamente degne. Ritornai alla Casa per un passaggio veloce in tempi molto cambiati. Appoggiata al maggiociondolo c’era sempre la carriola bucherellata che serviva per trasportare legna e far divertire i bambini. Un perfetto risciò mangiato dalla ruggine.


*ANDREA ALOI (Torinese impenitente, ha lavorato a Milano, Roma e Bologna, dove vive. Giornalista all’Unità dal ‘76, ha fondato nell’ '89 con Michele Serra e Piergiorgio Paterlini la rivista satirica “Cuore”. È stato direttore del Guerin Sportivo e ha scritto qualche libro) 


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