Il MAXXI dell'Aquila, arte e entusiasmo nella città ferita

di GABRIELLA DI LELLIO*

Se mi avessero chiesto solo un anno e mezzo fa di scrivere sulla riapertura di Palazzo Ardinghelli, divenuto poi sede del MAXXI, non avrei saputo che dire: insomma, sarebbe stato impensabile. Inutile dilungarsi su quel che tutti ormai sanno sulla distruzione della città dell’Aquila con il terremoto del 6 aprile 2009. Basti ricordare che dopo quel maledetto giorno ci fu un esodo, un po' voluto e un po' forzato. Ci vollero altri due anni prima che a noi aquilani fosse permesso di rientrare in una città stracolma di macerie che cominciammo noi a rimuovere, con un movimento popolare detto "delle carriole". Trascorsero altri due anni prima che si pensasse a una qualsiasi ipotesi di ricostruzione. In realtà, all’inizio, si era deciso di non ricostruire affatto. 

Da aquilana verace, nei mesi subito dopo il sisma e per tutta l’estate fotografai quel che era rimasto della mia città, grazie alla solidarietà di un vigile del fuoco di Rimini che mi accompagnava a fine turno. E fotografai anche il palazzo Ardinghelli.

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(Palazzo Ardinghelli, 2009     foto di Gabriella Di Lellio) 

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(Arco Ricci, 2009    foto di Gabriella Di Lellio)

Dalla foto poteva sembrare poco danneggiato, come in realtà apparivano molti edifici, ma dentro non c’era più nulla, il tetto era venuto giù. A seguito della mobilitazione internazionale sull’adozione dei principali monumenti cittadini da ricostruire, furono i russi a scegliere questo palazzo. Non a caso la brochure dell’attuale museo è scritta in italiano e in russo.


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Fino al 2014, dalle finestre del palazzo si poteva intravedere il cielo e quindi si rese necessaria una copertura provvisoria prima di avviare l’accurato intervento di consolidamento, miglioramento sismico e restauro conservativo, a cura del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (MiBACT),  per un costo complessivo di 7 milioni e 200 mila euro. 

Il Palazzo conserva parti di origine medievale con interventi realizzati nel Cinquecento e nel Settecento. La famiglia Ardinghelli era di origini toscane ma dal sedicesimo secolo si era stabilita a L’ Aquila, che con Firenze e dintorni aveva importanti rapporti commerciali, fornendo pecore all’industria della lana. Già distrutto nel terremoto del 1703, il palazzo fu poi ricostruito tra il 1732 e il 1743 su progetto dell’architetto romano Francesco Fontana, figlio del più celebre Carlo. È il Settecento che caratterizza maggiormente l’architettura nel cortile da cui origina il monumentale scalone di derivazione borrominiana, affrescato dal veneziano Vincenzo Damiani.

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(Palazzo Ardinghelli e l’arco/uscita del Museo oggi         foto di Gabriella Di Lellio)


L’edificio si affaccia su piazza Santa Maria Paganica che, esattamente di fronte al museo, mostra le ferite di dodici anni fa, in tutta la loro imponenza, nella chiesa omonima, rimasta senza tetto e da dodici anni ingessata da impalcature che tali rimarranno chissà per quanto tempo, essendo una chiesa costruita su un’unica campata. È una piazza schizofrenica di dolore e speranza, di vita e di morte, di memorie collettive e personali, emozioni che gli aquilani hanno nascostamente custodito nel profondo. Qui mia figlia ha fatto la prima comunione. 

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(Chiesa di Santa Maria Paganica, 2009       foto di Gabriella Di Lellio)

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(Chiesa di Santa Maria Paganica, 2021      foto di Gabriella Di Lellio)


Il MAXXI doveva essere inaugurato il 30 ottobre 2020, ma la ripresa dell’andamento della pandemia ha consentito l’inaugurazione solo il 28 maggio scorso, alla presenza del Ministro della Cultura Dario Franceschini e della presidente della fondazione MAXXI Giovanna Melandri, oltre alle autorità locali. 

Come accade nella sua sede di Roma, il MAXXI L’Aquila punta a far dialogare arti visive, performance, fotografia, architettura. Si è iniziato con le committenze speciali di artisti italiani: Elisabetta Benassi, Daniela De Lorenzo, Alberto Garutti, Ettore Spalletti (che ha fatto costruire una colonna nella Cappella di famiglia Ardinghelli) e con i progetti originali di due maestri della fotografia, quello su L’Aquila di Paolo Pellegrin e quello di Stefano Cerio con la comunità degli abitanti di Onna. Sono inoltre presenti lavori di altri artisti internazionali, come Kentridge, Pistoletto, Cattelan ed altri.

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(Un'opera di William Kentridge      foto del MAXXIL'AQUILA)


Questa prima mostra merita di essere visitata. L’ho già vista un paio di volte. L’accoglienza all’ingresso, nel rispetto delle regole previste dalla pandemia, e nelle sale, è affidata a giovani aquilani appartenenti allo staff, coadiuvati da altri ragazzi tirocinanti della nostra Accademia di Belle Arti. 

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(La colonna di Ettore Spalletti      foto del MAXXILAQUILA)

Arrivando un sabato di primo pomeriggio, non trovo fila, il gruppo dell’orario previsto è già entrato, e quindi mi inoltro fino alla biglietteria per poter far qualche domanda alla prima hostess che incontro. Mi accolgono con sorriso e gioia alla sola idea che possa scrivere un articolo sul Museo, offrendo disponibilità e facendomi entrare, prima ancora, come normalmente si fa, di farmi firmare una liberatoria e lasciare i miei dati anagrafici.

Preferisco sottolineare l’entusiasmo di vivere di una città ferita e che vuole rivivere, piuttosto che l’inesperienza dello staff.

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(Polittico di Paolo Pellegrin     foto del MAXXILAQUILA)


I ragazzi sono incuriositi da me. A L’ Aquila ci si conosce un po’ tutti, ma loro sono molto giovani e non sanno che anche io sono una “nativa.” Presi come sono dal fatto che possa offrire visibilità al museo mi trattano come una straniera. Vorrei sentire da loro cosa provano a vivere questa esperienza, come si sentono in un museo così nuovo e importante, su cui ha scritto anche il New York Times. Ma non riesco ad avviare una conversazione, né me ne stupisco: sono aquilani, tanti sorrisi ed ottima accoglienza, parole poche o niente.

Ad ogni modo, solo dopo essere entrata ed aver lasciato la borsa nell’apposito armadietto, per il quale occorre un euro che se non hai una hostess è pronta a fornirti, vengo fermata da un ragazzo che è al telefono con la responsabile del Museo, la dottoressa Elisa Cerasoli. Non essendo presente al momento, vuole darmi il benvenuto. Mi stupisco ancora di essere accolta con tanto interesse, io che qui sono a casa.

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(Un'opera di Maurizio Cattelan     foto del MAXXILAQUILA)


Si respira dappertutto nel museo un’aria nuova, fresca, di entusiasmo e di speranza. All’ingresso, Cinzia mi dice che c’è un via vai di visitatori, gli aquilani per primi, poi molti abruzzesi ma anche turisti provenienti dal nord Italia, e stranieri da Olanda, Francia e Stati Uniti. Per un decennio abbiamo avuto un lugubre turismo delle macerie e dei luoghi maggiormente devastati.

Oggi la gente viene ad ammirare la bellezza della città che si sta ricostruendo. 


vista della chiesa dal museo_foto Gabriella Di Lelliojpeg

Quello che da aquilana non mi colpisce affatto, ma che i ragazzi dello staff presenti nelle sale mi hanno riferito con stupore, è l’aver notato che i visitatori aquilani, soprattutto i più anziani, sono più interessati all’edificio che al museo o alle opere esposte. Vogliono verificare come la ricostruzione del palazzo si confronta con le loro memorie, e sono alla ricerca del luogo che fu sede di uffici comunali nei quali una volta si recavano spesso, un tentativo di riconnessione con una realtà ormai persa.


*GABRIELLA DI LELLIO (Sono aquilana e sorella minore di nascita. Mi sento ottimamente a Roma e meno a L' Aquila dal terremoto del 2009. Ho insegnato lingua e letteratura inglese nel Liceo Scientifico della mia città. Sono maestra di sci perché amante della montagna e della neve. Mi piace la fotografia analogica in bianco e nero, che ho ripreso a fare dopo trent'anni e a cui intendo dedicare il mio tempo. Sono cresciuta nella FGCI e nel PCI fino alla “deriva occhettiana")