Carretera austral, mi chiamò quando ancora non l'avevano costruita

Pubblichiamo un estratto del libro in uscita sulla “discesa” della Patagonia in bicicletta di Alberto Fiorin, uno degli storici viaggiatori in bici e narratori di viaggio


di ALBERTO FIORIN*

 

Rito d’iniziazione

«Ehi tu, dove credi di andare?». Io? Muto. Davanti a scuola c’è una strana agitazione, una ressa mai vista prima: tutti noi ragazzi, compresi i miei nuovissimi compagni di classe di quarta ginnasio, siamo accalcati vicino al portone d’ingresso. Nessuno entra. Quando arrivo si trovano stranamente tutti fuori, c’è un’atmosfera elettrica nell’aria, un brusio confuso, solo qualche voce alterata emerge dal coro. Intuisco che sta avvenendo qualcosa di strano, di assolutamente inedito. Un brivido mi attraversa la schiena. 

Mi avvicino d’istinto all’entrata dello storico palazzo che rappresenta per me l’universo dei grandi in cui ho appena avuto accesso con l’iscrizione al liceo classico, e subito il ragazzo di prima, dai capelli biondi lunghi fino alla schiena, mi apostrofa con la spavalderia tipica di uno dell’ultimo anno che si approccia a un pivellino di quarta ginnasio e ripete: «Ehi tu, dove credi di andare?». Mi blocco all’istante, chiedo lumi al mio compagno di banco apparso magicamente al mio fianco quasi a sostenermi. Mi spiega, calmo, che si sciopera per il Cile. «Ma in che mondo vivi? Non hai visto la tv? Oggi è passato un mese esatto dal golpe, da quando Pinochet ha destituito il presidente legittimo Salvador Allende, l’11 settembre 1973, e in tutta Italia, in tutto il mondo, si protesta contro questo atto di aggressione fascista».

Che fare? Da un lato mi attende il quotidiano tuffo nell’aoristo, dall’altro la prima piroetta nella vita reale, da conquistarsi a morsi. Come la prenderanno i miei genitori che mi immaginano a scuola? Non ho dubbi. Eccomi proiettato nell’universo delle rivolte, delle proteste. Anch’io posso, se voglio, farne parte. No, oggi non metterò piede in classe, voglio entrare nel mondo dei grandi. Resto fuori. 

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Quell’11 ottobre 1973 per me rappresenta davvero uno spartiacque, la scoperta della vita vera, dei problemi, delle tensioni sociali, della lotta politica. Antifascismo militante. È stata una scelta più di pancia, forse poco meditata ma sentita e sincera sull’onda delle forti emozioni. Conformismo? Così fan tutti, eskimo compreso? Mettiamolo pure in conto. Eppure ho lampi di ricordi, flash sonori dell’attraversamento delle strade al grido di battaglia cantato all’unisono da noi aspiranti “giovani rivoluzionari”: «El pueblo unido jamàs serà vencido » urlato a pieni polmoni, scandito ritmicamente. Golpe, Quilapayún, charango, da lì ai prossimi anni saranno parole con cui intreccerò una confidenza sempre maggiore. Imparerò a memoria la discografia degli Inti-Illimani, di Violeta Parra, di Víctor Jara, le poesie di Pablo Neruda e di tutti quelli che cantavano la libertà.

Ormai non ho più dubbi: il mio viaggio di scoperta del Cile è germinato dentro di me quarantasei anni prima, la mattina dell’11 ottobre 1973, un mese esatto dopo quel terribile 11 settembre, quando tutto finì e tutto cominciò. È rimasto per anni confinato in una sorta di limbo della coscienza, né al tempo si era ancora istillato in me il tarlo del viaggio su due ruote, anche se effettivamente sarebbe stata questione di un paio d’anni: la prima lunga escursione in bici è datata 1975 con i compagni di liceo. A forza di sentirmi risuonare nelle orecchie questa cantilena sudamericana, inconsapevolmente è montato in me il desiderio di conoscere questa realtà, questa cultura, questa terra, anche se la Patagonia non era ancora disegnata nella mia geografia interiore, non apparteneva alla mappa dei miei sentimenti. Ma il Cile e la lotta dei popoli per la libertà e la democrazia avevano fatto definitivamente irruzione nel mio mondo. E l’incredibile è che la Carretera Austral nel 1973 doveva essere ancora concepita!

…….

Compagni di viaggio

In questa impresa patagonica non sono solo: siamo in tre ad affollare la Carretera e le pagine di questo racconto. Io non sono un viaggiatore solitario perché da sempre prediligo condividere l’esperienza che sto vivendo, affrontare collettivamente gioie e dolori, fatiche e piaceri. Mi viene naturale coniugare il viaggio al plurale, confrontandomi coi compagni a ogni scelta che il percorso ci pone davanti e provando il piacere di far lievitare tutti assieme il nostro cammino, impastandolo amorevolmente con immagini, impressioni, considerazioni e... polvere. 

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Questa volta però ho raggiunto il non plus ultra coinvolgendo mio figlio Fausto – ventiquattrenne – che già nel nome porta le stimmate della mia passione per la bicicletta. Fin da bambino ha viaggiato con noi nelle nostre piccole escursioni familiari, all’inizio in seggiolino, poi dai sei anni autonomamente sulla sua biciclettina, quindi da ragazzo anche in giri più impegnativi – come quello da Venezia a Dubrovnik lungo la costa dalmata – ma quello che affrontiamo ora vale come un diploma di laurea da viaggiatore. Averlo a fianco per me sarà un’emozione ulteriore, un motivo di orgoglio e anche di crescita del nostro rapporto. Anche perché sono ben consapevole del rischio che ho corso coinvolgendolo fin dall’infanzia in queste avventure: se avesse avuto un’indole più pigra avrei rischiato di provocare l’effetto contrario, che si disamorasse completamente di queste esperienze. Invece devo ammettere che ha percepito al volo la straordinarietà di questo approccio alla vita e – seppur con il suo stile e i suoi ritmi – ha sposato in pieno la mia passione, che è diventata anche la sua. Al punto di iscriversi anche alla stessa società ciclistica. E quindi eccoci qui fianco a fianco in Patagonia. Del resto il compito di un padre è quello di trasmettere emozioni e insegnamenti ai propri figli: c’è chi lo fa attraverso un dialogo serrato e intimo, ma noi due abbiamo una complicità diversa. Essendo entrambi abbastanza introversi, il nostro modo di comunicare è più con i fatti che con le parole: mi viene più spontaneo scambiare un gesto di cameratismo che affrontare un discorso filosofico sulla vita. E percepisco che anche a lui va bene così. A volte un abbraccio muto o una pacca sulle spalle data al momento giusto valgono più di mille discorsi. 

A completare il terzetto c’è Dino, con cui ho già condiviso innumerevoli spedizioni: forte ciclista, di indole tranquilla, che oltre a coltivare il piacere dell’avventura riesce ad avere ben presente nello stesso tempo il senso del limite. In più è un vero homo faber, dalle spiccate doti manuali: tutte queste caratteristiche lo rendono l’ideale compagno di viaggio. 

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 Fin da quando abbiamo ideato questo progetto avevo ben chiaro che volevo concentrarmi esclusivamente sulla Patagonia cilena, sulla Carretera Austral: per le storie a volte orribili, altre volte inimmaginabili che conserva, impigliate in questo territorio aspro e potente, ricchissimo ma quasi deserto, abitato solo da pochi avventurieri e da questa natura coriacea, selvaggia, all’apparenza ancora incorrotta. 

«Ma perché non vai fino a Ushuaia, la fin del mundo? Dato che sei già lì...». Mi rimbomba ancora nelle orecchie questa domanda che in molti mi hanno fatto prima di partire. Effettivamente la gran parte dei ciclisti che percorre la Carretera di solito continua fino alla punta estrema della Terra del Fuoco. Ma noi non vogliamo fare i turisti giapponesi, non abbiamo la smania di vedere tutto e di sfruttare al meglio il tempo. Vogliamo vivere il nostro viaggio con relativa calma e lentezza, direi con maggior attenzione, concentrandoci esclusivamente su questa sezione. Anche perché siamo perfettamente consapevoli che c’è un’enorme differenza tra la Patagonia cilena e quella argentina: la prima è rigogliosa, amazzonica, ricoperta da un’enorme foresta pluviale, protetta dalla Cordigliera delle Ande e quindi in qualche modo riparata dalla severità degli eventi atmosferici. La seconda invece è desertica, una pampa solitaria affascinante e brutale, battuta da un vento impietoso, ovviamente il più delle volte contrario.  

Due cose totalmente diverse che, secondo la nostra sensibilità, meritano due viaggi separati. Adesso tocca alla Carretera, domani chissà. «Dino, prossima volta a Ushuaia?». «Perché no?».

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L'estratto, per gentile concessione dell'editore Ediciclo,  è parte del libro "Carretera Austral" di Alberto Fiorin / copy Ediciclo Editore 2021

https://www.ediciclo.it/libri/dettaglio/carretera-austral/


ALBERTO FIORIN  (Nato a Venezia nel 1960. Non ha la patente e da oltre trent’anni utilizza la bicicletta per viaggiare e conoscere il mondo con spedizioni ciclistiche in Unione Sovietica, in Cina, in Medio Oriente, in Scandinavia, in Egitto, in Africa. Tra i suoi libri “Strade d’Oriente, in bici da Venezia a Pechino”, “Shalom Shalom, da Venezia a Gerusalemme in bicicletta”, “Il vento dei fiordi, da Venezia a Capo Nord in bici”, “Carrettera Austral, strada alla fine del mondo”, e molte guide alle ciclovie in Italia e Europa)


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