Carnevale di Cuba, dal Malecòn dell'Avana alle congas di Santiago

di GIORGIO OLDRINI*

E’ sempre stato come una pausa a metà della zafra, la raccolta della canna da zucchero, il carnevale a Cuba che si celebra a luglio. Ma è anche la dimostrazione visiva della differenza tra i due poli dell’isola, L’Avana a Occidente e ad Oriente Santiago.

Il Carnevale dell’Avana è stata la prima cosa che ho visto appena arrivato nell’isola come corrispondente dell’Unità. Ricordo bene quella prima sera, il caldo umido, asfissiante, la folla e una coda che avevo fatto davanti ad uno dei chioschi che vendevano birra, la “fria”, in enormi bicchieri di cartone cerato. Non parlavo ancora spagnolo e soprattutto non sapevo che quei bicchieri ognuno se li portava da casa. Quando arrivò il mio turno, quello che distribuiva la “fria” mi disse qualcosa che non capii, sicuramente mi chiedeva il bicchiere che non avevo, e alla fine mi scartò bruscamente dalla fila. Salvo che subito dopo venni inseguito da un paio di ragazzi che avevano capito la mia ignoranza di italiano precipitato nell’isola e mi offrirono la loro birra.




Ma quello dell’Avana è un carnevale “ordinato”, come può essere una esplosione di musica, balli, bevute in un Paese tropicale. Il teatro è il Malecòn, il lungomare dell’Avana, lungo 7 chilometri dall’imbocco del porto al tunnel sotto il rio Almendares. E’ uno dei perenni centri della vita della capitale. Un grande e largo muro che si riempie a diverse ore del giorno di pescatori, di ragazzini che sfidando i divieti dei genitori e le rampogne dei poliziotti lo scavalcano, superano i dientes de perro, gli aguzzi denti di cane, e fanno il bagno. Ma è la sera che il Malecòn diventa il luogo di ritrovo per eccellenza. Le coppiette si siedono sul muro per amoreggiare, altri cercano semplicemente qualcuno con cui guardare il mare e chiacchierare, magari al ritmo della musica di suonatori improvvisati o di radio portatili. Farah Maria, una sensuale cantante famosa negli anni ’80, e che la voce popolare sosteneva fosse l’amante di un importantissimo dirigente, gorgheggiava “Yo no me baño en el Malecòn porque en el agua hay un tiburòn”. E di quale pescecane si trattasse tutti immaginavano. Durante la visita di Enrico Berlinguer a Cuba, Fidel, mentre i due passavano in auto su quella strada, confidò: “Per stare seduto tranquillo un paio d’ore una sera sul Malecòn darei il dito con cui faccio i miei comizi”.

Ma quando arriva il Carnevale, quel nastro di strada che costeggia il mare diventa il percorso dei carri, in certi tratti con le tribune, qua e là i chioschi per la birra. La gente affolla la zona, e applaude i carri allegorici, pieni di belle ragazze che ballano al ritmo delle musiche più sfrenate. René Portocarrero, uno dei pittori cubani più noti nel mondo, ha dipinto ripetutamente il Carnevale, giocando sul binomio realtà-maschera, vero-falso.

Ma L’Avana è una città per quanto possibile occidentale, in qualche modo ordinata, e il carnevale ruota attorno ai carri. “Se vuoi veramente divertirti devi andare a Santiago” mi suggeriva il mio vicino di casa che da quella città era emigrato nella capitale anni prima.

Perché quella è la città caraibica per eccellenza. Fa più caldo, perché le montagne a nord impediscono ai venti di raffreddare l’aria, la popolazione è più nera e si mescolano donne e uomini che sono venuti dalla Spagna con altri importati come schiavi dall’Africa, bianchi “francesi” fuggiti dalla rivoluzione dei neri di Haitì della fine ‘700 e poi i neri haitiani sconfitti e a loro volta rifugiatisi nell’Oriente cubano, e ancora i discendenti dei giamaicani che venivano a lavorare nei campi di canna da zucchero e che qui sono rimasti e qualche cinese che si è mescolato con gli ultimi indios sopravvissuti alla conquista. 





La musica a Santiago è una mescolanza di strumenti, di ritmi, di suoni. Il pianoforte dei “francesi”, le steel band dei giamaicani, i tamburi degli africani, le chitarre europee. Del resto Santiago è la città Rebelde, perché da qui sono partite tutte le rivoluzioni cubane, da quelle per l’indipendenza dalla Spagna dell’800 a quella di Fidel. A Santiago c’era “el cuartel Moncada”, la grande caserma dell’esercito che il 26 luglio del 1953 Castro e i suoi assaltarono proprio nei giorni del carnevale. Fu la prima azione armata contro il tiranno Batista e Fidel e i suoi avevano fatto credere di essere giovani che venivano a godersi le congas, e speravano che i soldati fossero a loro volta distratti dal carnevale. Come noto finì male, molti morirono in combattimento o furono catturati, torturati, uccisi. Ma fu l’inizio della Rivoluzione, nel pieno del carnevale.  

Tutta la città è presa dalla festa e protagoniste sono proprio le congas, gruppi musicali che si muovono, camminano suonando senza sosta, ovunque seguite da centinaia di persone danzanti, ma che subito si incrociano tra di loro in strade e piazze e quelli che seguono passano da una conga all’altra, in una mescolanza infinita che dura tutta la notte. “Non si dorme mai al Carnevale di Santiago. Quello sì che è divertimento” sospirava con nostalgia il mio vicino di casa all’Avana.



*GIORGIO OLDRINI (Sono nato 9 mesi e 10 giorni dopo che mio padre Abramo era tornato vivo da un lager nazista. Ho lavorato per 23 anni all’Unità e 8 di questi come corrispondente a Cuba e inviato in America latina. Dal 1990 ho lavorato a Panorama. Dal 2002 e per 10 anni sono stato sindaco di Sesto San Giovanni. Ho scritto alcuni libri di racconti e l’Università Statale di Milano mi ha riconosciuto “Cultore della materia” in Letteratura ispanoamericana)

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