Berlinguer e i preti ministri, così il Pci incontrò il marxismo sandinista

di GIORGIO OLDRINI*

Da Cuba partimmo un mattino di quell’ottobre del 1981 per andare in Nicaragua. Eravamo la delegazione del Pci guidata da Enrico Berlinguer, con Antonio Rubbi, Renato Sandri, Ugo Baduel e il sottoscritto. I sandinisti avevano vinto la rivoluzione sconfiggendo il dittatore Anastasio Somoza solo da un paio d’anni. Ero già stato varie volte a Managua e sapevo bene cosa mi aspettava. Una città il cui centro era stato distrutto dal terremoto. Solo la cattedrale era rimasta, ma come piegata su un fianco, sbilenca e dolente. Per il resto, deserto e macerie, con una faglia che feriva Managua per centinaia e centinaia di metri. Anche il modo di spiegare gli indirizzi era cambiato. In Nicaragua non c’erano vie e numeri. Ti davano appuntamento “dove c’è la fabbrica dei fiammiferi, due vie verso il lago, una verso nord”. Poi era diventato “dove c’era la fabbrica di fiammiferi…”.

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Quella città mi rimandava a ricordi antichi, perché nel 1968 ero stato il responsabile degli studenti universitari della Fgci di Milano. Avevamo un gruppo forte ad Architettura e un giorno i nostri compagni di quella facoltà se ne uscirono con la teorizzazione che andavano distrutti i centri delle città perché sono comunque borghesi. Altri tempi, ma Managua era la concretizzazione con la sua smaterializzazione di quella idea. Un deserto in cui tutto era più lontano da tutto.

Con la delegazione del Pci arrivammo, salimmo sulle auto di protocollo e ad un certo punto Berlinguer mi chiese: “Ma quando arriviamo a Managua?” “Questo è il centro di Managua” gli spiegai.

Incontrammo subito i Sandinisti in una riunione. Erano tutti giovani, tranne Tomàs Borge, ministro degli interni. Era stato nelle carceri di Somoza per molti anni, torturato a lungo ed era l’unico sopravvissuto del gruppo fondatore del Fronte sandinista. Era un poeta, così aveva ribattezzato il suo ministero “sentinella per la felicità del popolo”. E si era scelto come vice ministro Omar Cabezas, un ragazzone simpatico e ridanciano che aveva scritto uno dei libri più belli su una Rivoluzione, “La montaña es algo más que una inmensa estepa verde”. Un racconto ironico e drammatico di come un ragazzo ha vissuto quella guerra.

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Ci colpì in quella prima riunione con tutti i massimi dirigenti del Paese una certa aria da scolaresca in libertà. Improvvisamente qualcuno scoppiava in una risata a stento contenuta. Un altro si alzava, usciva e ti aspettavi che chiedesse “Prof, posso andare in bagno?”.

Erano tutti in divisa militare, ma tacquero quando una comandante intervenne spiegando che aveva letto un discorso di Berlinguer sulle donne e che quella era una lezione per i sandinisti, rivoluzionari sì, ma machisti pure.

L’incontro più interessante e sorprendente lo avemmo il giorno dopo al Valdivieso. Era il Centro dei cattolici della Teologia della Rivoluzione e lì incontrammo Uriel Molina, il sacerdote leader del gruppo, e i 4 preti ministri. Ernesto Cardenal, ministro della cultura, lo avevo intervistato anni prima all’Avana quando era ancora un guerrigliero. “Può un prete essere guerrigliero?” gli avevo chiesto. “La Chiesa non ha mai condannato la guerra, perché dovrebbe condannare la guerriglia. E se ha fatto santo Luigi di Francia morto nella Crociata per conquistare il sepolcro di Cristo, dovrebbe fare santo anche Che Guevara, morto per salvare il corpo stesso di Cristo, i poveri” mi aveva detto.

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Al Valdivieso di Managua l’intervento più drammatico fu quello di Edgar Parrales, il prete ministro del Benessere sociale. “Ho un gruppo di bambini che Somoza usava per torturare ed uccidere i prigionieri politici. A volte mi chiedo se è possibile salvare uno che a 10 anni ha cavato gli occhi a una persona, bruciato i piedi a un altro o ha accoltellato una donna. Ma ci tentiamo”.

Ci fu anche un momento surreale, come solo in America latina può succedere. Perché i sacerdoti spiegarono a Berlinguer che il marxismo risolve tutto e lui, il segretario del più grande Partito comunista dell’Occidente, con quella sua aria timida rispose “Beh, non tutto”.

La mattina dopo tornammo a Cuba e da lì per la terza tappa in Messico.

(2 - continua)

(1 - Quando Fidel ci svegliò)


*GIORGIO OLDRINI (Sono nato 9 mesi e 10 giorni dopo che mio padre Abramo era tornato vivo da un lager nazista. Ho lavorato per 23 anni all’Unità e 8 di questi come corrispondente a Cuba e inviato in America latina. Dal 1990 ho lavorato a Panorama. Dal 2002 e per 10 anni sono stato sindaco di Sesto San Giovanni. Ho scritto alcuni libri di racconti e l’Università Statale di Milano mi ha riconosciuto “Cultore della materia” in Letteratura ispanoamericana)

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