14, Rue du Congo, Paris 19ème; ovverossia Era di maggio  

di ARTURO CIOFFI*

Avevo 24 anni. Non permetterò più a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita. Lo dico io e me ne approprio perché Paul Nizan, se avesse potuto lasciare una paginetta di diario a Dunquerque, prima di cadere sotto il fuoco tedesco a soli 35 anni, se la sarebbe rimangiata.

Lui scrisse “vent’anni” ed erano 21 ad Aden, Arabie. Ma anch’io, a Paris, France, nell’antefatto ne avevo 23. Mai che vada con ordine.

Ci andai a rimorchio di una turista francese di origine italiana, Jacqueline. Era il premonitore 1967 ma nessuno lo sapeva.

Arrivai a Drancy, ben oltre les Abbattoirs & Boucheries de la Villette e Les Halles, macello e mercato ortofrutticolo, di cui percepii, prima di alzare i vetri del mio Maggiolino, l’odore di carne e sangue misto a quello di verdura non ben conservata. Il quartiere era nuovo, imponenti palazzoni e giardini ordinati. Una futura banlieue. Allora erano tutti occupati nelle fabbriche e nessuno osava dire che eravamo in una periferia degradata. È il lavoro che degrada l’uomo e i quartieri, quando manca.

Quell’anno Guccini aveva fatto uscire “Dio è morto” collocandone le sacre spoglie “nelle auto prese a rate”, una cazzata da lambrusco al metanolo che d’un botto oscurò Nietzsche e tutti i suoi affluenti. Il papà di Jacqueline, operaio della Massey Ferguson, non ce l’aveva, la bagnole. Io venni considerato un signorino e con la mia Volkswagen scarrozzai tutto il nucleo familiare per la Ville Lumière, la cui descrizione, con l’auspicio che arriviate a leggere fino in fondo, gentilmente vi risparmio.

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Tre furono le cose che mi colpirono di quella Parigi che si preparava al “joli mai”:

1.   Gli africani, quelli veri, quelli neri. Tutti gli spazzini lo erano, uscivano di notte sui loro camion, senegalesi, ivoriani e ripulivano la città, svuotavano i bidoni, discreti e silenziosi. Ma l’Africa francofona era anche nelle scuole superiori e nelle università. E i giovani neri, l’anno dopo, si tennero prudentemente incravattati e lontani dalle bagarres nel timore di perdere una borsa di studio o di farsi fotografare da qualche spione dei loro regimi ancora un po’ ruvidi quanto a libertà civili.

2.   I giovani algerini. Au Cinema de la Courneuve davano El Cid Campeador, con Sophia Loren (la bella Jimena) e Charlton Heston. Senza leggere Frantz Fanon scoprii che al mondo esisteva un altro punto di vista: la scugnizzeria algerina tifava in modo allegro e pirotecnico per i Mori, quelli che nel Ciclo Carolingio, a Roncisvalle, ci hanno fatto un mazzo tanto.

3.   I baci con la lingua o all’italiana. La mia diciottenne Jacqueline aveva detto meraviglie alle sue amichette su come gli italiani do it better. Alle incredule, ai giardinetti propose la prova regina. Sul campo però: una ad una (erano 3 o 4) diedi loro udienza dietro una siepe e mi congiunsi loro per rima buccale in brevi momenti in cui la mia lingua, un tempo definita di Dante, si espresse con la vivacità di una anguilla di Comacchio. Proprio vero che questi parigini, eccetto lo stretto entourage dei ricchi aspiranti scrittori americani alcolizzati tipo Henry Miller, erano tutti fottutamente provinciali, oh lalalà, Caprice de Dieu!

Finita la mia ricognizione sul campo, me ne tornai in Italia riprendendo il mio dignitoso lavoro in banca. Le letterine con Jacqueline, piano piano, si diradarono, c’est la vie.

Alle mie prime elezioni politiche, il 19 maggio 1968, annullai la scheda scrivendoci: “IL POTERE NASCE DALLA CANNA DEL FUCILE”. Due giorni dopo telefonò a casa la Squadra politica della Questura “per una frase su una scheda elettorale…” roba da far gelare il sangue nelle vene. È che Dio ti vede ma Stalin no, d’accordo, ma la Polizia? Il Commissario Mastrobuoni, un brav’uomo, in uno mi tranquillizzò e mi inquietò. Non c’entrava niente la canna del fucile maoista. Nel seggio della frazione Corno di Bussolengo era stata scrutinata una scheda, pure questa annullata, sulla quale c’era scritto: “CIOFFI ARTURO, UN GIORNO TI UCCIDERO’.” e mi chiese se avessi idea di chi fosse l’autore della minaccia, certamente un estremista di destra… al che feci gli occhioni di bambola scuotendo la testa, Omertà di Sinistra. Per le scale del vecchio edificio già ridevo: era roba di corna, in fondo! Uno solo poteva essere stato, Volante Rossa lo chiamavamo, girava per Verona mascherato da Che Guevara nella celebre foto controluce, aveva votato in quel seggio e, a suo dire, gli avevo portato via la ragazza, nel senso che avevo portato a compimento quella che era una sua vaga e confusa progettualità.

Due voti persi…

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A casa trovai la letterina di Jacqueline. Ritorno di fiamma.Torna qui con une bague de fiançailles, che mio papà vuole vedere l’anello di fidanzamento (la consistenza in carati delle mie intenzioni) e poi mi porti con te, in Italia. Fu così che, viste le minacce di morte, gli echi cadenzati del Maggio Francese ed il richiamo urlante della carne, caricai il Maggiolino del necessario, compresa una chitarra nella quale, dopo averne allentato le corde, introdussi ferro illecito, e partii per Parigi valicando il San Gottardo col cuore gonfio di vaghe e confuse speranze. Non ne azzeccai una.

Dovevo arrivare a casa della nonna Sophie, 14 rue du Congo, La Villette, 19ème arrondissement, dove lei mi aspettava per stare con me per un po’, una vera fuitina da fermi perché, in piena rivoluzione sessuale, non avevamo ancora consumato.

Nella vecchia casa popolare frutto delle politiche sociali di Léon Blum prima della Guerra mi aspettava solo la nonna. Mi mostrò la mia cameretta e mi disse che qualcosa non andava. Jacqueline me lo avrebbe spiegato di persona il giorno dopo, alla Courneuve, davanti al cinema dove avevo visto El Cid l’anno prima.

All’ora stabilita, della ragazza nemmeno l’ombra. Un ragazzo, forse algerino, bello come una donna come più volte è scritto nelle Mille e una Notte, faceva avanti e indietro sul marciapiede con in mano una foto formato gigante, che non tardai a riconoscere come un mio ritratto in chiaroscuro e chitarra che, in un empito di vanità, avevo spedito a Jacqueline perché ci si trastullasse nell’attesa.

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Nella circostanza effettiva di tempo e di luogo, era la mia foto segnaletica. Fu l’algerino a riconoscermi ed a spiegarmi con molta cortesia che Jacqueline aveva cambiato idea, tanto radicalmente che il messaggero, sempre con tatto terzomondista, mi fece capire di non essere colui che non porta pena ma parte interessata. Frappose un cortese diniego quando allungai la mano per riprendermi la foto, più che altro per sottrarre alla Storia le scemenze fragole e panna che avevo scritto sul retro. Ripresi il controllo pronunciando una frase che considero storica:

"Pas de problèmes, je suis un communiste et maintenant  je m’en vais au combat avec mes camarades de la Massey Ferguson. Du sang des grévistes… les capitalistes…hélas!"

Una scemenza che se avessi detto che oui, je suis Catherine Deneuve, era uguale.

Nella fabbrica occupata il papà di Jacqueline, che sapeva tutto, mi offrì una bevuta consolatoria e, ricordando gli ascendenti veneti, sentenziò che done, culo e siòri, i fà quel che i vol lori e gli diedi ragione.

Fortissima era la componente di esuli antifranchisti tra gli operai. I ventenni del 1936, ormai viejos, conmovidos  y tristes. Battevano il tempo sui lunghi tavoli della mensa e cantavano:

Si me quieres escribir

Ya sabes mi paradero:

Tercera brigada mixta

Primera linea del fuego…

Ma dalla Spagna in piena dittatura, per prudenza, nessuno scriveva al loro indirizzo e il loro viso era segnato da una piega amara, profonda come l’Ebro. E si sfogavano nelle manif, Boulevard Haussmann come le Ramblas di Barcellona, l’ultima battaglia.

Mi spostai in un alberghetto del Quartiere Latino, pagamento anticipato buttato al vento perché, in men che non si dica, mi trasferii direttamente alla Sorbona occupata al seguito di una ragazza cicciottella ma coi controfiocchi quanto a carattere: l’avevo vista, da sola, sottrarre al linciaggio una recluta (per servizio di leva) dei Gardiens de la Paix rimasta isolata nelle retrovie… laissez-le, c’est un poulain!

La Sorbona occupata era, veramente, una Corte dei Miracoli. Primeggiavano gli italiani. Uno, che poteva essere – ho un vuoto di memoria - Russo o Piperno, insomma quello che all’ Università di Roma si prese un armadio sulla schiena lanciato dai fascisti dal primo piano, si faceva notare perché al primo graffio in fronte nelle bagarres si bendava con un lembo di camicia, come faceva Errol Flynn con Olivia de Havilland. Ma nei film di cappa e spada il nostro eroe si trovava una manica di camicia, di quelle a sbuffo, già predisposta al distacco dal costumista. Russo-o-Piperno, mingherlino, faceva una fatica boia a staccarne un lembo. Ma in una maniera o nell’altra, lui doveva sempre esibire una benda sanguinolenta.

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Nel formicaio di stanze e stanzette si scopava a cuore aperto, uno accanto all’altro. Quando l’altro ero io, da solo, nel sacco a pelo, la sofferenza era acutissima perché l’anno prima ci aveva dormito Jacqueline, mentre io, su disposizione materna, stavo nel suo letto. C’era ancora il suo profumo e l’uomo - come recita una voce della nota di rimborso spese di un membro del Partito Comunista clandestino in Italia durante il Fascismo – non è fatto di legno!

E c’erano quelli del FHAR, Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire. Incutevano timore. Non erano la gioiosa marea dei Gay Pride che ci porti i bambini e si divertono. All’epoca, anche tra giovani della sinistra, se ne parlava solo nelle storielle goliardiche con altri appellativi, e persino gli attori famosi stipendiavano una moglie qualsiasi per evitare il coming out. E questi del gruppo erano più Querelle de Brest, più Fassbinder che i moccoletti buonisti di Ferzan Ozpetek. Il messaggio che lanciavano, col loro cuoio, con i loro muscoli scolpiti era: “Siamo violenti solo per esercitare il diritto di esistere. Fatevi i fatti vostri!” E noi, pur affascinati, volentieri stavamo alla larga.

VOICI LES KATANGAIS!”, titolò un giorno un tabloid popolare.

E, in effetti, ce li avevo lì, nei sotterranei della Sorbona, i katanghesi.

Piccoli delinquenti mezzi Gavroche, frequentatori a scopo di ammuina di tutte le barricate dalla Comune in poi. Facevano scuola di duello al coltello tenendo giacche di cuoio con la mano sinistra, come toreri, per parare i colpi e, sul far della notte, riavvampavano non più giovani assistenti universitarie come il vento fa con riarse savane. Le molotov non le sapevano fare, ma ne è rimasta la favola. Diventarono katanghesi quando il giornalista di Le Monde venne a intervistare Jackie che si rese interessante parlando di una sua milizia tra i mercenari del Katanga, in Congo, un mestiere odioso ed assassino che rimanda all’eccidio crudele dei 13 avieri italiani a Kindu. Solo gli intelligentoni del Movimento Studentesco della Statale di Milano, nomi ancor celebri alla loro testa, potevano chiamare katanga le loro squadre di servizio d’ordine, forse per la rima che facevano con spranga nel testo dell’omonima canzone. Ci fu un po’ di imbarazzo all’uscita di Le Monde e a metà giugno il lumpen - proletariato venne espulso.

Jackie le Katangais fu trovato morto, di lì a poco, nel teatro Odéon deserto, non più occupato dagli artisti, che si erano stancati, ma i Servizi no. Tutti eravamo un po’esausti, le manif si diradavano. C’era sempre Lieselotte, la prototipa della ragazza a cavalcioni che si vede ancora nei concerti, ma lei aveva un motivo serio: la poliomielite. Mancava, lo affermo con la mano sul Vangelo, l’immancabile dei giorni nostri: il tipo con la bandiera dei Quattro Mori.

Eravamo tutti abulici. Capitava che da un vicolo sbucassero due, tre reduci dell’OAS con tuta mimetica e pistolet e ci mettessero in fuga in cinquemila.

L’ingegnere multinazionale lo incontrai alla Maison d’Italie. Era ormai la fine politica del Maggio. I reduci del Joli Mai, sconfitti dai Protocolli di Grénelles, occupavano l’istituto per forza di inerzia, con in faccia le espressioni in bianco e nero dei reduci di una esistenziale Beresina. Mi propose una transazione: lui alloggiava in conto spese Shell  al lussuoso Hotel Mayflower, in Avenue des Champs-Elysées, mi avrebbe ospitato quella notte e l’indomani io lo avrei accompagnato in macchina all’Aeroporto di Orly.

Il professionista era marito recente di Tosca, nostra compagna un po’ più grandicella (3, 4 anni da giovani contavano) una ragazza generosa ai limiti dell’altruismo predatorio, che la sinistra rivoluzionaria veneta ricorda per una cosetta da Baudelaire definita le mauvais chemin, oggetto di quelle ricognizioni tattili che erano un po’ la sua firma. Ma il lettore non sia ingannato dalla scarna descrizione: Tosca non era la perturbatrice dei nostri sensi, era la nostra anima profonda. Il giorno del suo matrimonio in rosso, durante il tradizionale bacio alla sposa, mi conficcò a futura memoria tre unghiate sul collo.

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La stanza dell’hotel era di un lusso pesante, con un letto matrimoniale a baldacchino. L’ingegnere andò in bagno. Io aspettai seduto sull’orlo di una poltrona capitonnée, in preda a vago imbarazzo.

Apparve. La sua figura si stagliava nella cornice dorata della porta del bagno. Aveva un perizoma di pelle nera. Il davanti sembrava la custodia di quelle vecchie, grosse e pesanti macchine fotografiche prodotte dalla Repubblica Democratica Tedesca. Il didietro, da terzo Bronzo di Riace, anzi primo, visto che i primi due non erano ancora stati ripescati.

“Dai, fatti una doccia e vieni a letto!” Sembrava Max von Sydow nella scena finale de “La Fontana della Vergine”, quando sradica un giovane albero preparando la vendetta. La vendetta… Cosa avrà per la testa l’ingegnere, le Forche Caudine? Vuole farla pagare a me, che di Tosca sono stato solo la modesta comparsa di un fugace addio al nubilato?

Ci sono momenti in cui le cose ti passano per la testa alla velocità della luce. Tra queste, Santa Vilgefortis, la Vergine Barbuta di Praga immortalata da Hieronymus Bosch. Quando non era ancora barbuta, ma sempre vergine, inseguita da un attentatore della sua virtù, si aggrappò al Crocifisso e chiese la grazia. Il Redentore le fece crescere all’istante barba e baffi, rendendola repellente agli occhi dell’energumeno. Ispirato da tanta santità valutai le mie condizioni: da giorni e giorni nelle bagarres, caricato a Metedrina, senza dormire, senza lavarmi e avendo addosso gli stessi indumenti del mancato rendez-vous con Jacqueline, dovevo essere orribile. Oggi si direbbe: trasformare un problema in opportunità.

“No, no, nooo!” - nemmeno seguito da grazie - “Mi sistemo qui, sono troppo stanco!”. E senza aggiungere parola mi rannicchiai sulla poltrona – neppure gli anfibi mi tolsi - per la prima ed ultima volta nella vita felice e rassicurato dal fatto di puzzare come un topo marcio.

Compiuta l’ultima missione ad Orly, affrontai i 1080 chilometri fino a Verona tutti di un fiato, pasticche e bottigliette di Orangine. Nell’ultimo tratto, di notte, da Milano a Verona, ai lati dell’autostrada, non vedevo la solita teoria di fabbrichette ma il biancore evanescente dei palazzi degli Champs-Élysées.


* ARTURO CIOFFI (Longevo Consulente Finanziario, nasce nel 1944 sul fronte della Quinta Armata nel Sannio ma mezzo napoletano e poi mezzo veronese nell'era ginnasiale. Mancato professore in lingue morte, approda nella finanza laica della Banca Commerciale. Completa il profilo diventando pure mezzo slavo, attratto dagli eccessi terribili e meravigliosi di quella cultura. Tra nuvole e numeri, scrive per rinfrescare l'ortografia)

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