Comacchio, anguille e vite da duri nel Selvaggio Est  

di ANDREA ALOI*

Nell’aristocratica Serenissima il Doge consegnava alle acque, nel giorno dell’Ascensione, un anello consacrato: «Ti sposiamo, mare. In segno di vero e perpetuo dominio». E la cerimonia, a favor di turisti, si replica ancora oggi. Nella Comacchio del popolo usa da qualche tempo liberare in canale, a dicembre, una mezza tonnellata di anguille “argentine” sessualmente scatenate. Pescate nelle Valli salmastre del Delta padano, si faranno una nuotata di settemila chilometri fino al Mar dei Sargassi, un pezzo di Atlantico che non esiste solo nelle avventurose pagine di Salgari ma pure nella banale realtà, tra le Grandi Antille e le Azzorre. I sargassi sono alghe che fanno tappeto in quel mare e però non disturbano più di tanto le attività riproduttive delle anguille, tanto che le lucide e carnose “bisce” d’acqua torneranno, in capo a un anno o poco più, nelle Valli del Po ferrarese, concludendo in graticola o padella una onorata carriera di pesce escursionista e, mal per lui, troppo buono per passarsela liscia.

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(Casoni sul delta del Po)

Corrispettivo lagunar-paludoso-vallivo dell’acciuga tirrenica, l’anguilla nei secoli è stata a tutti gli effetti un “pane del mare”, risorsa vitale prima che gastronomica e cibo piacione da arrostire, annegare in brodetti o marinare all’agro, come è ai giorni nostri, quando è ospite d’onore nei menu comacchiesi e di zona, sempre più attenti al pescato locale e alla buona tradizione. Per andare oltre i dépliant patinati, i canali e lo scenografico ponte dei Trepponti, volendo annusare a Comacchio un po’ di durezza protonovecentesca è d’obbligo andare in via Mazzini, percorrere il lungo porticato che pare dipinto da De Chirico ed entrare nella Manifattura dei Marinati, formidabile museo industriale e dell’arte della sopravvivenza, mille e seicento metri quadri a cavallo di Inferno e Paradiso. Dove si scopre, con pannelli e audiovideo (prezioso un vecchio doc della Rai) l’odissea delle anguille incanalate con ingegno e trasportate via barca alla Calata, poi si visita la Sala degli Aceti, con i relativi tini e alla fine, eccolo l’Inferno-Paradiso: la grande Sala dei Fuochi, dodici grandi camini intervallati da nicchie che è bene immaginare ai tempi della piena attività della Manifattura, una fucina di Efesto brulicante di operai intenti a pulire e infilzare le anguille su spiedi titanici per poi arrostirle al fuoco vivo. Ultimo passo la salamoia di acqua, sale e aceto, l’inscatolamento e - a tempo debito - via per mense, botteghe, ristoranti. Nella Sala dei Fuochi, nei giusti periodi dell’anno, ancora oggi si lavora l’anguilla secondo il vecchio stile, ma il numero degli addetti è infinitamente ridotto. Dobbiamo tornare a un secolo fa, tra bagliori, calore insopportabile, fatica da bestie. Un duro benedetto lavoro per centinaia di famiglie in un pezzo d’Italia che ancora negli anni Cinquanta avrebbe patito la miseria.

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Giusto nel ’55 esce il film “La donna del fiume”, girato nelle Valli di Comacchio da Mario Soldati su ispirazione dei documentari “Uomini della palude” e Tre canne un soldo” di Florestano Vancini. Protagonista Sophia Loren, che è Nives e lavora alla Manifattura, mentre Rik Battaglia, attore per caso, è Gino, un contrabbandiere. La storia è dura, magari melodrammatica e però riesce a farsi specchio di un’umanità autentica, dolente grazie anche al contributo in sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini. Sessanta anni dopo, col titolo “La Stella di Comacchio. Sophia Loren e il Delta del Po”, il regista Andrea Samaritani ha ripercorso in un corto di 14 minuti i luoghi e l’epoca del film di Soldati, richiamando immagini di Comacchio e delle sue Valli, del Lido di Volano, dei canneti di Pila a Porto Tolle, teatri della tormentata storia d‘amore tra Nives e Gino. Cercate il doc su YouTube, è una manciata di tempo ben spesa.

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La Bassa padana, quel Far Est italico che fa sembrare sconfinati gli orizzonti e provvisorio il mondo di acqua e zolla, prima di Soldati aveva istigato Michelangelo Antonioni per il documentario “Gente del Po”, uscito nel ’47, un germe che avrebbe fruttificato un decennio dopo nel suo “Il Grido”, ambientato nell’immaginario paese di Goriano. I canali, il grande fiume. Scriverà il regista, che aveva genitori di Pontelagoscuro e Bondeno, a proposito di “Gente del Po”: “Quel paesaggio che fino ad allora era stato un paesaggio di cose, fermo e solitario: l'acqua fangosa e piena di gorghi, i filari di pioppi che si perdevano nella nebbia, l'isola bianca in mezzo al fiume a Pontelagoscuro che rompeva la corrente in due; quel paesaggio si muoveva, si popolava di persone e si rinvigoriva. Le stesse cose reclamavano un'attenzione diversa, una suggestione diversa. Guardandole in modo nuovo, me ne impadronivo. Cominciando a capire il mondo attraverso l'immagine, capivo l'immagine. La sua forza, il suo mistero. Appena mi fu possibile, tornai in quei luoghi con una macchina da presa. Così è nato Gente del Po. Tutto quello che ho fatto dopo, buono o cattivo che sia, parte da lì”. Non sente meno lo spirito del Delta Luchino Visconti. In “Ossessione” (1943), con Clara Calamai e Massimo Girotti, dipinge nella Bassa padana un amor fou da cronaca nera più che profumato di italico neorealismo - nonostante il soggetto sia “Il postino suona sempre due volte” dell’americano James Cain - per quanto si accompagna a figure di vagabondi, prostitute, relegati ai margini del “consorzio civile”.

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Il solenne Po che si mescola al mare tra mille strade d’acqua, dividendosi in tanti rami, dal Po di Goro al Po di Volano, dal Po di Ferrara al Po di Primaro, si allarga e moltiplica senza confini, diventa paesaggio con gli argini e i casoni di pesca, è un porto franco di mille tane, offre rifugio a chi non fa pace con la legge e a chi odia l’ingiustizia. Dove cerca salvezza nel 1849, crollata la Repubblica Romana, Ana Maria Ribeiro da Silva, per tutti e per sempre Anita Garibaldi? S’imbarca con Giuseppe a Cesenatico diretta a Venezia, dove ancora gli austriaci non l’hanno avuta vinta, ma a Punta di Goro le navi nemiche li bloccano. Scappano allora nelle Valli di Comacchio, territorio infido per imperiali e papalini, lì visti con tutta l’ostilità che meritano. Gioacchino Bonnet, fervente mazziniano di Comacchio, prova a organizzare una linea di fuga non più verso Venezia, ma a sud, meta l’Appennino. In tanti aiutano Garibaldi e la sua compagna, si organizza una catena per guidarli e orientarli in quella terra incognita e difficile, tra percorsi a piedi e in barca. Restano i nomi dei valorosi “vallanti”: “Sgiorz”, “Scozzola”, Michele Cavallari detto “Gerusalemme”, il “Tetavac”, “Erma Bianca”, “Bunazza”, Lorenzo Faggioli detto “Nason” e Gaetano Montanari detto “Sumaren”. Anita, già inferma, sviene per la febbre. Morirà dopo pochi giorni nel Ravennate, a Mandriole, paese che il Reno divide dalle Valli. Il viaggiatore amante dei percorsi tra storia e natura, giunto in quelle zone, per la gran parte bonificate agli inizi del secolo scorso, sarà bene non trascuri la riserva naturale di Valle Della Canna: intoccata dall’uomo, è zona di passo per uccelli migratori.

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Un salto in avanti di quasi un secolo e siamo in piena Resistenza al nazifascismo. Comacchio e le Valli , tra paludi e ricoveri di fortuna, sono teatro di innumerevoli azioni dei “partigiani in barca”, dai sabotaggi alle imboscate. Un nome: Edgardo Fogli, eroe combattente, catturato, torturato perché denunci i compagni di lotta. Non ne ricaveranno nulla quei brutti boia, lo fucileranno. Un altro nome: Renata Viganò, partigiana autrice del romanzo “L’ Agnese va a morire” diventato film nel’76 per la regia di Giuliano Montaldo. L’attrice protagonista, Ingrid Thulin, prima delle riprese andò a vivere per un mese nella Bassa Ferrarese, un modo per ambientarsi e conoscerne la gente, abituata all’aspro dell’esistenza, a passeggiare sull’acqua (con le classiche batane a fondo piatto) per levarsi i pensieri, a far gita minuscola col traghetto (spesso due barche attaccate) da una sponda all’altra del canale. Montaldo girò molte scene in Valle Pega, nel Comacchiese, parte del bacino del Mezzano, ricco di torba e diventato nel Seicento una sterminata valle salata utilizzata per l’allevamento delle anguille.

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Il prezioso pesce teleosteo è stato a lungo uno dei principali motori dell’economia delle Valli, logico che lo Stato ci mettesse il cappello, stabilendo il monopolio su cattura e marinatura. E qui siamo, lungo tutto il Novecento, in un film diverso, il titolo è “Guardie e ladri”. Le guardie nei loro casoni a sorvegliare che nessuno si appropri delle anguille pescando di frodo (nessuno, almeno, che non abbia pagato la tangente-lasciapescare). I ladri, magari nascosti in altri casoni vicini, pronti a sfruttare notti e nebbie per racimolare un bottino prezioso. Dediti al furto di sopravvivenza familiare e spesso vissuti dal pueblo di Valle come prodi. Non ladri, ma, nobilmente, “fiocinini”, dal nome dell’attrezzo usato per acciuffare le anguille. Su tutti ha primeggiato Elio Ghiberti, in molte interviste onorato di considerarsi un fuorilegge. Era fiocinino insigne, soprannominato Batono, come il capo delle guardie che cercava, il più delle volte inutilmente, di pizzicarlo.

Storie da Delta. Su in Laguna, tra i canali di Venezia, predominano le grazie architettoniche, siano gotiche o moresche. A Comacchio vige il disadorno in vena di metafisico, il mattone vissuto come necessità-speranza e qualche volta come ingombro al volo dei fenicotteri. Stucchi contro scabre pareti. Imbarcazioni e chiatte che scorrono tra preziose, storiche quinte contro agili vele: nell’orizzonte piatto e vuoto le vedi scivolare a filo d’erba e sembra di vivere un miracolo. Due diverse contiguità tra la terra e il mare, due modi per essere nella natura e addomesticarla. Rimanendo però, nelle Valli, più intimamente antichi, selvatici.


*ANDREA ALOI (Torinese impenitente, ha lavorato a Milano, Roma e Bologna, dove vive. Giornalista all’Unità dal ‘76, ha fondato nell’ '89 con Michele Serra e Piergiorgio Paterlini la rivista satirica “Cuore”. È stato direttore del Guerin Sportivo e ha scritto qualche libro) 


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