VIAGGI D'ALTRI TEMPI - A Mosca, a Mosca, quando il socialismo era reale

di ROCCO DI BLASI*

“Su invito del Pcus è partita ieri per l’Unione Sovietica una delegazione dell’Unità. La delegazione è guidata dal compagno Luca Pavolini, direttore del giornale, ed è composta dai compagni Romolo Caccavale, redattore capo dell’Unità di Milano, Giuseppe Boffa, commentatore di politica internazionale, Vania Ferretti, caposervizio interni dell’Unità di Milano, Stefano Cingolani, redattore dell’Unità di Roma per i problemi sociali, Rocco Di Blasi, capocronista della redazione napoletana”.

Il trafiletto compariva a pagina 2 sul giornale di giovedì 6 gennaio 1977. A Mosca eravamo arrivati alla vigilia dell’Epifania ed erano state subito scintille. Eravamo tutti giornalisti, infatti, e i nostri interlocutori erano alla Pravda, ma la presenza di Pavolini e Boffa caricava quel viaggio di qualche significato in più. L’eurocomunismo sembrava camminare a passi rapidi. Pochi mesi prima del nostro viaggio, Berlinguer e Marchais avevano tenuto un comizio comune a Parigi, tre mesi dopo ci sarebbe stato a Madrid l’incontro a tre fra comunisti italiani, francesi e spagnoli.

La critica berlingueriana al Pcus diventava un polo d’attrazione in Europa e trovava ascolto anche tra i satelliti di Mosca nell’Est europeo. Prima del viaggio eravamo passati a Botteghe Oscure, da Rubbi e da Pajetta, responsabili dei rapporti internazionali. In verità assolutamente inesperto com’ero, mi parve si fosse discusso del più e del meno. Ma non saprei dire se a Pavolini, a Boffa e a Caccavale (che l’Urss la conosceva più che bene) fosse stato dato qualche incarico particolare.

Quando mettemmo piede alla Pravda, fu chiaro, comunque, che non si sarebbe trattato di un’esperienza “amichevole”, pur ovattata com'era da convenevoli e da una consuetudine di relazioni che andava avanti da anni.Norilsk 1png

Appena seduti attorno al tavolo del primo incontro (con tutte le bottigline d’acqua e succhi d’arancia, come si usava, messe ben in ordine davanti a noi) l’allora direttore della Pravda, Viktor Afanasiev, attaccò con un saluto che di tradizionale aveva ben poco.

Man mano che l’interprete traduceva mi rendevo conto che si trattava di una dura reprimenda.

“Voi italiani - insisteva Afanasiev - non capite niente di quello che accade in Urss. Le vostre critiche al sistema sono ingiuste. I dissidenti sono quattro gatti e vi lasciate ingenuamente impressionare da loro". E poi, senza Mosca, non c’era comunismo possibile.

Luca Pavolini lo conoscevo, tutto sommato, poco. Non è che dalla redazione di Napoli ci fossero continui rapporti con il direttore. Ma era un uomo noto per la sua mitezza e per il suo buon senso accomodante, di uno che sa convivere con le ragioni del mondo. Eppure ebbe uno scatto e la sua cadenza romanesca si fece all’improvviso tesa.

Ribattè colpo su colpo. Lasciò sul tavolo tutte le critiche degli italiani al Pcus e alla società sovietica, senza mollare neppure su una virgola. Il tutto non sarà durato più di mezzora, ma prima che si tornasse ai convenevoli ed ai sorrisi sembrò che passasse un’eternità. Poi fummo affidati a qualche redattore capo per la visita alla redazione e alla tipografia di quel giornale che tirava milioni di copie. 

Le prime pagine dei giorni successivi

 Ma la giornata era nata male e si concluse nel grottesco quando, per impressionarci, evidentemente, con la loro efficienza, ci mostrarono le “lastre” della prima pagina.

“Questa è la prima di domani, giovedì, quella è la prima di venerdì, quell’altra è già pronta per sabato”. Noi giovani evitammo, a stento, di sghignazzare. Boffa, Pavolini e Caccavale non mi sembrarono altrettanto colpiti. Loro sapevano, da tempo, come andava il mondo.

La stessa struttura di quel viaggio, d’altra parte, conteneva un “messaggio”. Dovevamo passare un giorno a Mosca, poi andare a Norilsk, un paese costruito sul ghiaccio, oltre il Circolo polare artico, e di lì fiondarci a Tashkent, che si trova in pratica sullo stesso parallelo di Roma.

Ci accompagnavano un interprete ed un simpatico giornalista della Pravda. E dovevamo passare in una settimana dal Polo Nord ad una delle città più meridionali dell’Urss per poterci rendere conto, di persona, di quanti problemi reali avessero i sovietici e di quanto fossero ingenerose, quindi, le critiche di noialtri comunisti italiani. Ma il viaggio era destinato a deludere noi ed i nostri attentissimi ospiti. 

Le critiche al regime nel teatro più esclusivo

 Le condizioni del tempo ci tennero bloccati a Mosca, infatti, due giorni in più del previsto e così, dopo la classica serata al Bolshoi, decisero di portarci alla Taganka, il teatro di Liublimov che da “spazio dei dissidenti” si cercava di trasformare (forse anche con qualche buona intenzione) in un “fiore all’occhiello” del regime.

 In scena recitavano “Allacciate le cinture”, una commedia che il buon interprete ci traduceva. E l’effetto su di me fu sconvolgente. La commedia, in realtà, non era una commedia ma una satira feroce di tutto quello che non funzionava in Urss, una spietata accusa contro la “nuova classe”, quella burocrazia di Stato che aveva preso il potere e lo usava soltanto per se stessa.

Ma la Taganka era un teatro bomboniera con un centinaio di posti. E bastava guardarsi attorno per capire che quegli spettatori entusiasti erano proprio loro: i burocrati della “nuova classe”. Mosca era una città a “numero chiuso” e ci si poteva vivere ed abitare solo con il consenso del regime.

La Taganka, poi, era un teatro “a numero chiusissimo”, per cui solo “chi poteva” riusciva a trovare il biglietto. Per noi l’avevano trovato in poche ore. Così avevamo potuto toccare con mano come fossero insensate tutte le nostre critiche al loro sistema illiberale. Cosa c’è di più liberale che lasciare sbeffeggiare in un pubblico teatro la casta-architrave dell’Urss?

 Una città costruita sul ghiaccio

 Norilsk era un posto che non saremmo neanche riusciti ad immaginare. Un paese costruito sul ghiaccio nella Siberia profonda.

A gennaio c’era un’ora o due di tenue luce al giorno. Per il resto era buio. Le case poggiavano su palafitte di cemento armato. Al piano terra c’era il vuoto altrimenti il ghiaccio avrebbe eroso le fondamenta.Norilskpng

Il palazzo dello sport, ad esempio, era costruito tutto in verticale: al primo piano la pista da hockey, al secondo la palestra con gli attrezzi, al terzo il campo di pallacanestro….

Norilsk, in quel momento, era un paese di pionieri. Chi accettava, infatti, di andarci a lavorare per tre anni, aveva riconoscimenti e benefici di carriera e poteva, inoltre, ottenere la cittadinanza a Mosca o nelle 6 grandi città a numero chiuso dell’Urss.

 Durissima la vita al Polo Nord

La vita, al Polo, era durissima. Si trattava per lo più di lavorare in miniere a cielo aperto. I bambini rischiavano la decalcificazione per mancanza di sole. La pressione in quella zona della terra è più forte e opprimente.

Eppure, ci spiegavano, l’inverno era molto “caldo” - eravamo a – 3/4 gradi, mentre avrebbero dovuto essere, in quella stagione, 15/20 sotto lo zero. Per noi quei –3 bastavano e avanzavano.

Intanto visitammo le miniere, gli asili, le scuole. Le ricchezze naturali di quella terra erano straordinarie, solo che si era costretti a vivere come su una base spaziale. E io che volevo avventurarmi fin lì col cappotto di loden comprato per Natale a Salerno! Per fortuna a Mosca, ghignando, Carlo Benedetti, allora corrispondente dell’Unità, mi aveva rivestito di tutto punto con roba sua.

Questi viaggi nell’Urss dovevano avere, comunque, una loro liturgia. Per me era il primo e non ne ho più fatti, neppure da turista. Ma nell’ultimo libro di Giorgio Bocca, (“Il Provinciale”) ho trovato gli stessi modi, gli stessi temi, a volte ho creduto di riconoscere addirittura lo stesso kolkoz. A Norilsk kolkoz non ce n’erano, ma l’ospedale sì. E andava visitato. Ci trovammo, così, in un luogo stranissimo.  Sembrava una serra, alberi e vegetazione dappertutto. E una dottoressa coi capelli bianchi che spiegava. Perché tutto quel verde? Perché la gente, senza vegetazione, si deprime; perché le piante sono fondamentali per l’organismo umano. In un corridoio camminava un’ammalata giovane, con lo sguardo perso. Era il “male di Norilsk”. Senza sole, senza clorofilla, può accadere che ci si spezzi dentro.

Rotta su Tashkent

Conclusa la visita a Norilsk, partimmo per Tashkent, via Krasnoiark. Dopo una serata indimenticabile con quei rudi pionieri. Ognuno di noi alzò il bicchierino di vodka, brindando al di fuori di ogni tradizione. I brindisi fino a quella sera erano stati abbastanza ufficiali, portatori di “buoni pensieri” a volte anche maliziosi (i loro a Breznev, i nostri all’eurocomunismo, per capirci). Quella sera a Norilsk erano invece tutti sul personale. Io brindai a Mauro e Eduardo, i miei due figli, allora piccolissimi, dicendo che quegli uomini del Polo Nord me ne facevano sentire particolarmente la mancanza. Poi la sorpresa finale. Il tavolo si illuminò tutto, si accese un neon sotto il ripiano di vetro per l’ultimo brindisi collettivo. Quella notte imparai ad amare la vodka.

Il viaggio fino a Tashkent fu, invece, lunghissimo e noioso. Non so quante ore di volo, non so quanti pranzi e rituali lungo la strada. Un’occasione per “mettere sotto” il giornalista della Pravda.Norilsk2png

Ma insomma, quanti sono questi dissidenti? “Ma sono pochi, perché vi ostinate a parlare sempre di loro?” “Ma se sono pochi perché li perseguitate? Che male possono farvi?” E qui, con tutti i nostri interlocutori, il ragionamento faceva una brutta sterzata logica e i dissidenti diventavano milioni, pericolosissimi, capaci di disgregare l’Urss. Oggi, dopo quello che è successo, capiamo tutto di più. Ma i nostri interlocutori di allora si trovavano davanti un vero paradosso. Per loro, infatti, lo Stato sovietico era “buono” per definizione e quindi che ragione c’era per dissentire? Ovvio che chi dissentiva fosse pericoloso. Ovvio?

Mancato scalo a Alma Ata

L’aereo stava arrivando ad Alma Ata. “Fasten your seat belt”, allacciate le cinture. “No smoking”. Si scende. Dopo cinque minuti: slacciate le cinture, potete fumare. Non facciamo scalo ad Alma Ata. 

Il perché lo sapemmo solo due giorni dopo. Eravamo a pranzo in un kolkoz e il nostro ospite partì con il rituale brindisi. L’interprete traduceva fedele: “Sono lieto di avervi qui, meno lieto di alzare il bicchiere in vostro onore. Sarebbe toccato, infatti, a un compagno che è morto l’altro ieri in un aereo precipitato atterrando a Alma Ata".

Tashkent era un altro fiore all’occhiello. La città “ricostruita dopo il terremoto con il contributo di tutte le repubbliche”, come ci diceva ad ogni pie’ sospinto chiunque incontravamo.

Stavano anche tentando qualche esperimento sociale. Gli operai lavorano poco e male, dicevano, perché non sanno che farsene del guadagno. Se mettiamo la fabbrica in cui lavorano nello stesso quartiere dove c’è la scuola o la palestra dei figli e spieghiamo loro che il profitto dell’azienda servirà a migliorare la scuola o fare più bella la palestra, li spingiamo a lavorare di più e meglio.

Ci portarono in visita ad una grande fabbrica di trattori. Su ogni pilone era indicato un numero. Sul nostro c’era scritto 9. Cos’è? Il numero dei trattori che dobbiamo fare oggi. Allora, da ingenui, cercavamo di capire a quali ritmi lavorassero. E finora quanti ne avete fatti? Due. Era già mezzogiorno. E come fate a farne altri sette per il pomeriggio? Ma noi non ne facciamo 9. In tutto, ogni giorno, ne facciamo 4. Nove è “la norma “, ma non la raggiungiamo mai. Mi vennero in mente, chissà perché, le tessere della federazione comunista di Salerno e gli “obiettivi” del tesseramento. Eravamo sempre al 100%. Bastava chiudere un po’ di tessere nella scrivania e pagare le quote al “centro”. Ma lì come facevano a nascondere i trattori che non avevano prodotto?ursspng

 Domande sui piani quinquennali

 Perché? Perché? Perché? Boffa, Caccavale e Pavolini, intanto, facevano disperare i russi. Erano già riusciti ad ottenere una deviazione, non prevista dal viaggio, a Samarcanda sia pure per poche ore. Poi avevano strappato al nostro accompagnatore della Pravda, guardato per questo in cagnesco dall’interprete, che, tornati a Mosca, ci avrebbero portati in visita ad un santuario, poco distante dalla città. Dovevamo recuperare o no i due giorni che avevamo perso inizialmente a Mosca?

Ma in albergo trovammo ben altre disposizioni. Il viaggio era finito e basta. La durata, del resto, era quella prevista. Niente santuario, niente eccezioni. Dovevamo sbrigarci a spendere la “paghetta” in rubli (che avevamo trovato nella stanza all’inizio del viaggio) nei negozi dell’albergo perché non c’era neanche il tempo per comprare qualcosa fuori. Poi i saluti e l’arrivederci. Arrivarono Zagladin e Ponomariov e ricominciarono ad esaltare le sorti magnifiche e progressive dell’Urss. Piani quinquennali, produzione dell’acciaio, tonnellate di frutta. Ma Boffa li gelò ancora una volta. “Scusate, forse non ho capito. Ma l’obiettivo che vi date per l’acciaio in questo piano quinquennale, è lo stesso che vi davate nel 1939: come mai non l’avete ancora raggiunto?”

7 giorni dopo, a Roma…

Una settimana dopo il rientro i nostri quotidiani riportarono un trafiletto. La Pravda aveva finalmente annunciato che un aereo di linea era caduto ad Alma Ata. Non c’è fretta, compagni!


*ROCCO DI BLASI (E' nato a Pagani, nell’agro sarnese nocerino, il 2 giugno del 1948. Capocronista dell’Unità di Napoli, caporedattore di notte dell’Unità a Roma, poi redattore capo delle edizioni dell’Emilia-Romagna prima di andare a dirigere e rifondare il settimanale Il Salvagente. Oggi, pur essendo un pensionato, si occupa del sito consumatrici.it e della sua pagina Facebook)


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