UNA FINESTRA SULLA NATURA - 5) Il mistero della macchia

di LUIGI EPOMICENO*

Una delle tante esclamazioni che sento dire durante le mie passeggiate nel parco è “…non ci posso credere! Guarda quant’è grande…”.

E’ molto facile non avere consapevolezza di una grandezza o di una forza, della percezione di un colore o di un suono, di un odore, se nel nostro percorso di vita non siamo mai (e dico mai) stati esposti a quella esperienza.

E così, dire che un serpente boa è lungo sei metri non dà affatto l’idea delle sue dimensioni, a chi non usa quotidianamente un metro per misurare. Così come sapere che la pressione di un morso di un ippopotamo supera i 1.500 psi ti fa sicuramente pensare che può fare male ma non rende l’idea di quanto.

E’ solo quando associamo certe misure a quanto siamo abituati quotidianamente o a quanto già sappiamo che ci rendiamo conto che sei metri di rettile è come una corda che penzola dal secondo piano di casa nostra; oppure che un morso di 1.500 psi è come avere un peso di 800 chilogrammi sul nostro mignolo; o ancora che il dente incisivo di un grande felino è lungo quanto l’indice della mano di un umano adulto (guardate il vostro e capirete!).

E’ vero che certe cose non si possono “toccare con mano” ma un po' di fantasia aiuta a comprendere. Sentite questa. 

A pensarci bene, è davvero buffo.

La Natura ha dato ad alcune specie la dote della mimetizzazione. Ovviamente per non essere facilmente individuabili, sia per difendersi da altri malintenzionati sia per essere a loro volta aggressori.

E così il polpo diventa scoglio; la seppia, sabbia; il camaleonte, un ramo; un gufo, un tronco (ormai sarete diventati esperti!).

Mi rimane però il dubbio sul perché la giraffa abbia macchie sul mantello.

“Per confondersi nella savana, come un ghepardo o leopardo.”

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(Rocco,   foto di Massimiliano Di Giovanni - Archivio Bioparco)


Certo!

Peccato che un animale che raggiunge 6 metri di altezza e con un collo che spunta come un palo della luce nella Death Valley sia visibile da tutti già da un chilometro di distanza!

Come mimetizzazione mi sembra mal riuscita.

Eppure la Giraffa è un concentrato di meraviglie di adattamento.

Con pazienza andiamo al cuore della faccenda: appunto il suo cuore.

Sono sicuro che a molti di voi è capitato che abbassandovi per raccogliere un oggetto cadutovi dalle mani, al vostro rialzarvi avete sofferto di qualche giramento di capo o annebbiamento della vista. Niente di preoccupante di sicuro ma che vi può suggerire cosa possa sentire una giraffa che abbassa il suo capo da sei metri di altezza per un sorso di acqua. Tanto per ricordarvi di cosa si parla, sei metri sono come due piani di casa vostra.

Capite che se anche la giraffa dovesse avere qualche mancamento in questo movimento, sarebbe per lei deleterio. Eppure lo fa, e senza problemi.

Lo fa col cuore.

Dodici chili di cuore. Un cuore venti volte più pesante del nostro. E anche qui, per avere un’idea di cosa si parla, immaginate un cuore che pesa come quelle sei bottiglie da due litri ciascuno di acqua minerale che vi caricate su per le scale! Una potentissima pompa che deve far affluire il liquido vitale fino al cervello, più in alto di circa due metri.

Credete sia cosa da poco?

Anche il sangue che scorre nel nostro corpo è soggetto a quella forza che fa cadere le mele in testa agli scienziati, e la giraffa ha sviluppato delle valvole di ritenzione all’interno dei suoi vasi sanguigni per evitare eventuali riflussi quando dal livello del terreno tira su il suo capo fino a sei metri di altezza.

La potenza del getto all’interno dei suoi vasi viene poi attutita da una sistema di diramazione nei punti terminali che riduce la forza di propagazione del sangue ed evita che la forza del getto finisca col rompere gli stessi vasi sanguigni, con le conseguenze letali che sappiamo. Un sistema che assomiglia alle diramazioni che si vedono sulle foglie delle piante o su come si sviluppano i rami e rametti di un albero.

Ma mica finisce qui.

Nell’altra direzione, sulle sue gambe, la pelle diventa molto spessa e poco elastica, proprio per contenere i vasi sanguigni sotto la grande pressione dell’azione di pompaggio. Esattamente come i nostri anziani (uomini e donne) sono costretti ad indossare pesanti calze contenitive per facilitare la circolazione del sangue.

Come ingegneria biomedica naturale mi sembra alquanto sviluppata.

Ma ancora non finisce qui.

Quando entri nell’ufficio di Manuela trovi alle sue spalle reperti animali di ogni genere. Dalle piume di gabbiano ai nidi dei passerotti. Ogni oggetto è soggetto di insegnamento. E Manuela in fantasia nell’insegnare è bravissima.

Non potevo non accorgermi di un osso enorme alle sue spalle. Dapprima ho pensato a una riproduzione di un osso di animale preistorico, ma quando mi sono avvicinato mi sono reso conto che si trattava di una vertebra. Sarà un ingrandimento di una vertebra umana, pensai tra me e me. Un grande ingrandimento visto che presa in mano pesava almeno due chili (una bottiglia di acqua minerale!)

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(Carroll e la piccola Esperanza      foto di Massimiliano Di Giovanni - Archivio Bioparco)

“E’ la vertebra di una giraffa” mi dice Manuela, con la naturalezza di chi smista vertebre di giraffe a iosa. Curioso è stato vedere che accanto, in un piccolo quadretto dalle dimensioni di una vecchia cartolina, vedevi lo scheletrino di un piccolo uccello, forse un passerotto, la cui singola vertebra poteva pesare meno un decimo di grammo. (Per aiutarvi a capire, un foglio di carta tipico delle nostre stampanti di ufficio pesa circa quattro grammi).

Subito cercai di calcolare il peso del collo della giraffa, ma mi mancava uno dei fattori. “Quante vertebre ha una giraffa?” le chiesi, pronto già a prendere una calcolatrice, immaginandomi un numero a due cifre. Il calcolo risultò piuttosto semplice, avendone appena sette.

Sette vertebre sovrapposte per costituire un collo di due metri e più, già vi dà idea delle proporzioni dell’osso che avevo per le mani. Inoltre il numero di sette vertebre è comune a tanti altri mammiferi. Come dire che anziché aumentare il numero di anelli di una catena si sono semplicemente aumentate le dimensioni degli stessi.

Per capire il perché (o almeno questa è l’ipotesi che la razionalità umana è costretta a formulare per rispondere ai quesiti dogmatici dell’evoluzione) bisogna capire il concetto di “nicchia ecologica.”

Un po' come dire che ogni essere vivente sulla terra è il risultato di un percorso evolutivo durato millenni che ha portato l’essere (animale o pianta che sia) a sopravvivere all’ambiente circostante in continuo stato di cambiamento.

Per tornare al collo della nostra giraffa, esso le ha consentito di alimentarsi di quelle foglie di alberi che altri brucatori e ruminanti non riuscivano a raggiungere, consentendo alle giraffe di evitare una continua migrazione alla ricerca perenne di cibo. (Chissà se è il motivo per cui il Baobab è diventato così com’è!)

Per lo stesso motivo (ancora una meraviglia) la femmina di giraffa è circa un metro più bassa del maschio. La differenza di un metro crea una specie di stratificazione della nicchia alimentare ed evita il contendersi la stessa foglia dell’albero.

E pensate che poi la giraffa “digerisce” quasi qualunque cosa: anche foglie di piante che contengono sostanze tossiche.

Ed è per questo, sempre per trovare spiegazioni razionali agli eventi, che l’habitat delle giraffe è piuttosto circoscritto in poche regioni dell’Africa, non dovendo per forza migrare in ogni dove per ricercare il conteso cibo.

Recenti studi hanno dato un significato alle macchie, accomunate alle nostre impronte digitali, e suddividono la specie in grandi famiglie. Le macchie sono diverse tra tutti gli esemplari ma possono essere raggruppate per nove famiglie o sottospecie diverse.

Però quelle macchie sul mantello rimangono per me un mistero evolutivo. Dinanzi alle meraviglie che vi ho appena raccontato ridurre la spiegazione alla sola capacità di mimetizzazione mi sembra troppo riduttivo.

Esigo una risposta del perché le antilopi non hanno le stesse macchie!

“Perché sì!” non mi basta.


                                                      *********************

 

Anche la giraffa cade nel noto ritornello “…e venne il gatto che si mangiò il topo…”

La sua mole certamente l’aiuta a respingere le molestie di molti animali. I calci che sferra con le sue forti gambe sia anteriori che posteriori possono essere letali allo sfortunato che si trova a tiro.

Tuttavia quelle specie capaci di cacciare in gruppi, come ad esempio i leoni, riescono sovente a trionfare nello scontro impari. E’ la legge della Natura, ed è bene che sia così.

Si stima che siano rimasti SOLO 70.000 esemplari di giraffe.

Sempre per darvi un’idea, è come se gli unici sopravvissuti di essere umani su tutta la Terra fossero quelli che riempiono uno stadio di calcio.

Giraffa camelopardalis _ foto Massimiliano Di Giovanni - Archivio Bioparco 35jpg

(Rocco      Massimiliano Di Giovanni - Archivio Bioparco)


Punto e basta.

Come ci si può rassegnare all’idea che quei millenni che sono occorsi per creare quelle macchie sul mantello, quelle vertebre, il sistema di pompaggio del sangue, le diramazioni dei vasi sanguigni, la lingua resistente alle spine pungenti degli arbusti della savana, e quel collo infinito che ha creato quella “nicchia alimentare” sia tutto racchiuso in quegli ultimi settantamila?

Purtroppo è probabile che non sarà la Natura a definire la conclusione evolutiva (anche) di questa specie. La giraffa potrebbe essere sopraffatta non dagli attacchi dei leoni o iene bensì dalla mancanza di foglie nutrienti generata da una aggressiva presenza di umani nei suoi territori abituali.

Una presenza che altera gli equilibri dell’habitat naturale sia per una caccia illegale, la distruzione di aree vaste della savana per fini umani, e per l’inevitabile cambiamento climatico che pesa su ogni forma di vita, specie attraverso la siccità.

Senza dimenticare il traffico di parti del suo corpo: il mantello per tappeti o le ossa, in sostituzione dell’avorio, per manici di coltelli o armi da fuoco.

E che dire dell’assurda caccia di trofei animali che vede la giraffa come eccellente vittima di spudorati cacciatori che si pregiano di mostrare con spavalderia e orgoglio il risultato del loro confronto?

Ecco perché diventa essenziale un avvicinamento alla Natura tramite quelle piccole esperienze che consentono di sviluppare una consapevolezza di ciò che ci circonda. 

Quel toccare con mano senza toccare.

Lo scoprire le meraviglie spiegabili, ma misteriose, del perché la giraffa è quella che è.



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*LUIGI EPOMICENO (Nato nel 1957. Sono mezzo americano e mezzo italiano, pugliese di origine, forse greco di stirpe, romano di adozione, con soste prolungate a Firenze, Milano, Genova, Chicago e Londra e continue a Parigi, Marsiglia, Madrid, New York, Amsterdam, Eindhoven, Dusseldorf, Monaco di Baviera, Praga, Amburgo, Bruxelles e Lisbona. Ho girato tutta la Grecia, l’Albania, la Francia, la Spagna, la Turchia e gli USA e ho messo piede in tanti altri posti che neanche ricordo, da Seul a Iguazù, dal Canada al Marocco passando per le isole Lofoten. Ora sono in un altro mondo. Un mondo nel Mondo. Da quasi un anno e mezzo sono il Direttore Generale del Bioparco di Roma. Prima ho fatto tante altre cose. Alcune divertenti, altre meno)


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