UNA FINESTRA SULLA NATURA 2) Memoria da elefante

di LUIGI EPOMICENO*

Salendo i pochi gradini che danno accesso agli uffici, dopo la gentile accoglienza del Centralino, varchi la soglia di accesso a quel santuario cittadino del giardino zoologico di Roma.

Trovi un frenetico via vai di bipedi umani, ma appena loro si diradano incroci lei, Lakshmi (pron. Lac – scmi) che con un gioioso sorriso e con occhi felici ti accoglie con il gesto, per lei di entusiasmo, di una fontana d’acqua che si spruzza addosso attraverso la miracolosa proboscide che la Natura le he dato.

Non c’è bisogno di fare un passo indietro, l’acqua non può bagnarti. Lakshmi si trova a una trentina di metri più in là: quella che vedi è una foto in grandezza naturale posizionata come nei grandi studi di consulenza e dove leggi in rilievo i nomi dei fondatori: “PINCO PALLO & ASSOCIATI.”

L’osservatore, acuto o curioso che sia, già da quella foto si pone alcuni dei quesiti esistenziali che un elefante costringe a porsi.

Superata la parete e passando per una seconda porta, scendi cinque scalini e finalmente entri nel regno degli animali. Qualche passo ancora e vedi lei, la star indiscussa del parco. Quella più conosciuta, tra le più anziane, sicuramente quella con più apparizioni sul calendario. Chiunque entri nel parco l’ha vista e rivista. Non solo dal vivo ma anche nelle frequenti riprese cinematografiche che ogni tanto vengono richieste dagli specialisti dello spettacolo, o nei servizi televisivi realizzati in occasione di qualche presentazione che le personalità politiche cittadine amano fare dinanzi al suo recinto.

Però, aggrottando la fronte, quell’osservatore acuto nota che non è Lakshmi.

Come una mamma (o papà) distingue con naturalezza una figlia gemella dall’altra, gli addetti ai lavori non esitano un secondo nel chiamare una o l’altra nel modo e momento appropriato.

Chi entra nel parco dalla porta di servizio degli uffici, senza saperlo e nel giro di pochi passi incontra due dei più grandiosi e nel contempo misteriosi ospiti del Bioparco. Lakshmi e la sua amica di una vita Sofia.

Due elefantesse asiatiche (non vi dico la differenza con la specie africana, che già sapete) alte due metri e mezzo, ad oculum di 2.700 chili, e di quasi sei metri dalla punta della proboscide a quella della coda. Le meraviglie di questi animali però non sono nelle misure. Un po' le trovi nell’ingegneria dell’anatomia e un po' nell’ingegneria del loro ingegno.

Dobbiamo andare in ordine, però.

Entrambe sono originarie della stessa regione dell’India settentrionale, dell’Assam. Capita spesso per i nostri ospiti non sapere con certezza la loro data o luogo di nascita. Nel loro caso possiamo dire che Sofia e Lakshmi sono nate tra il 1970 e 1975.

I percorsi seguiti per giungere a Roma sono però diversi. Consentitemi di sintetizzare che sono venute a Roma per stare meglio, e copiando il nostro Peppino De Filippo “…ho detto tutto!”

Già quando si parla degli anni Settanta si parla di un mondo che non c’è più. C’è chi ne ha nostalgia e chi ringrazia il cielo di esserne sopravvissuto.

Sono nate negli anni delle crisi petrolifere, quando l’inflazione superava il 15%, quando ogni sabato pomeriggio a Roma si manifestava e ogni sabato sera ci veniva la “febbre.”

La memoria dell’elefante è proverbiale. Immaginate di entrare nei meandri del suo cervello e di posizionarvi in modo da poter rendere i suoi occhi i vostri. E ora immaginate di essere nel recinto di Sofia e Lakshmi e di soffermarvi sul passante che avete di fronte e che attende il momento giusto per lo scatto migliore da portasi via come ricordo.

Chissà se la loro memoria in quell’istante li porta indietro nel tempo fino a quei giorni in cui l’analogo visitatore operava con una ingombrante e rumorosa Polaroid, che una volta scattata sputava dalla sua bocca un cartoncino su cui nel giro di quindici secondi appariva una sua immagine; quasi sempre troppo gialla.

E’ probabile, vista la loro proverbiale memoria.

Ed è naturale che un animale, che in media vive 60 anni, abbia una memoria. Il problema è che la loro vita ne rimane influenzata.

Le vite di Sofia e di Lakshmi sono state diverse.

Di Sofia non abbiamo gli incartamenti del periodo che spiegano le ragioni dell’affidamento al Bioparco. Non abbiamo memoria di quel tempo. Vista la giovane età (due anni?) è probabile che la sua sopravvivenza nel luogo di nascita fosse a rischio.

Lakshmi, già grandicella, invece arriva con esigenza di cure particolari, avendo un passato, altrettanto ignoto, in un circo.

Due storie diverse che hanno forgiato due personalità diverse. I guardiani, comprensivi e attenti, lo sanno, e riservano loro amore e cure da genitore adottivo. Li nutrono, li accudiscono, pensano al loro benessere, anche giocandoci.

Quello che può sembrare un disordinato gesto, in realtà è una delle tattiche seguite per stimolare l’istinto dell’animale a cercarsi il cibo. Nel recinto puoi notare frutta e verdura buttata qua e là, biada sparsa in ogni dove, persino appesa a cinque metri di altezza. Cercano di replicare situazioni in cui l’elefante allunga la proboscide per prendere 

quella

foglia più verde, oppure sposta il sasso per cogliere

quel

frutto caduto.

Elefante asiatico _ Foto Massimiliano Di Giovanni - Archivio Bioparco LAKSHMI FILEminimizerjpg

(Lakshmi      Elefante asiatico  foto di Massimiliano Di Giovanni - Archivio Bioparco)

Marco, uno dei guardiani, quel giorno tirava delle mele nella piscina colma d’acqua in cui Sofia ama bagnarsi nelle giornate di calura. Notai che già una decina di mele galleggiavano come fiori di loto in uno stagno.

Furba, Sofia si soffermava dapprima a raccogliere quelle più vicine. Allungava quel quinto arto frontale, e, come quando si uniscono le labbra per un bacio, riusciva a portare a sé il frutto che, con un movimento di ritorno della proboscide, era già sotto i suoi denti poderosi.

Marco però, quasi per dispetto, continuava a lanciare mele all’estremità opposta della piscinetta, dove lei non arrivava. E quando si dice che la necessità stuzzica l’ingegno, ecco la prova.

Sbattendo la proboscide sulla superficie, venivano a crearsi delle onde concentriche. Al propagarsi di esse, raggiungendo il bordo rialzato di contenimento dell’acqua creavano altre onde che viaggiando in senso inverso alle prime, di fatto, avvicinavano le mele verso la sponda su cui era Sofia. La quale senza esitazione, una ad una, le raccoglieva.

Oltre all’ingegno, si vede che la necessità stuzzica anche l’appetito. Che a Sofia e a Lakshmi di sicuro non manca.

Io cerco di ammirare Sofia a parco chiuso, nel silenzio della mattina oppure delle ore serali. Lei a volte mi vede e altre no. Almeno credo.

Mi piace guardarla mentre è continua la sua ricerca di foglie e rami, germogli e frutti o qualunque altra vegetazione a disposizione. (Sapete quanto mangia un elefante?). Mi piace osservare la meraviglia che si nasconde dietro la sua proboscide, così strana e così essenziale per la sua esistenza.

Funge da mano, da dita, da braccio, da naso, da pompa, da tromba e da arma.

Senza, si muore. Ferita, si muore. Menomata, si muore.

Se fosse robotizzata, la proboscide assomiglierebbe a quei bracci meccanici che vediamo nelle fabbriche. Comprende all’incirca 150.000 fascicoli muscolari che ne governano il movimento. Attraverso di essa si risucchia o si espelle; con essa si avvicina o si allontana.

Il suo movimento più miracoloso però è quello dell’estremità prensile: quello consentito dalla sensibilità delle “labbra” terminali che rendono la proboscide come una mano. E qui non posso non raccontarvi un episodio che mai dimenticherò.

Come vi dicevo, Sofia è una star. (A mio avviso, un po' vamp). Uno dei suoi momenti di maggiore notorietà è durante la sessione dedicata ai bambini, a cui è consentito (si parla del periodo pre-Covid), dietro scrupolosa osservazione dei guardiani, offrirle una carota. E’ inteso come un momento di avvicinamento dei nostri cuccioli agli animali.

Quel giorno, era domenica, il parco era particolarmente affollato. Come quando i visitatori di Roma si recano al monte Gianicolo per assistere allo sparo del cannone a mezzogiorno, così la folla, sempre a mezzogiorno, si era adunata al cancelletto laterale del recinto degli elefanti dove, uno alla volta, i bambini si sporgono per offrire il gradito dono alla nostra protagonista.

Ero lì ad osservare i chiassosi bambini che titubanti allungavano la mano, pronti a ritirarla al minimo gesto inaspettato. Quel gesto improvviso Sofia , con l’attenzione di un chirurgo, non lo faceva mai.

Appena la carota si allontanava dalla mano, il piccolo di turno iniziava una danza di gioia e battendo le sue piccole mani iniziava uno schiamazzo rumoroso, che scemava solo quando man mano si allontanava, per consentire al prossimo lo stesso rito.

Il prossimo, anzi, la prossima bimba giungeva però su una carrozzina spinta dalla carica d’amore della propria mamma. Le gambe incarcerate in sostegni di acciaio. Indossava spesse lenti tenute da una rigida montatura legata sulla nuca. Il volto inclinato sulla sua destra, un braccio teso poggiato sul bracciolo finiva con la sua mano aperta, che tanto mi ricordava quella del Cristo della Pietà.

La mamma pose quella carota tagliata nella mano piccina, che la strinse con forza. Non potendo sporgersi, si tentò di avvicinare la carrozzina fino alla ringhiera.

Tra i visitatori e Sofia c’è un fossato di sicurezza tale da tenere gli animali distanti circa quattro metri, per evitare che possano estendersi oltre la barriera di protezione. Era evidente che Sofia non sarebbe riuscita ad arrivare a quel dono che la bimba stava per offrire.

La piccola mano era ferma quasi sul bordo della ringhiera. La proboscide ondeggiava a destra e sinistra, la sua estremità pulsava come una bocca in cerca di un bacio. Sofia di sicuro sentiva il profumo della carota; o di quella manina.

Il mezzo metro che ancora mancava, iniziava ad accorciarsi man mano che Sofia allungava il suo massiccio corpo, il collo tozzo e quell’arto, che con l’occasione si irrigidì come un ramo di quercia.

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(Sofia e Lakshmi   Elefanti asiatici       foto di Massimiliano Di Giovanni - Archivio Bioparco)

A pochi centimetri di divario, i movimenti si erano rallentati, come in quelle scene di film catastrofici, e nel silenzio circostante, ancora un millimetro alla volta, Sofia, con una delicatezza non descrivibile per quanto emozionante, sfilò la carota dalla piccola mano, portandosela nella bocca.

Quasi simultaneamente, con la testina resa immobile dalla sua sfortuna, la piccina spalancò la sua di bocca in un sorriso forse inconsueto, mentre la mamma, io e forse altre mille persone bagnavamo le nostre guance.

Finché le mie capacità mnemoniche me lo consentiranno, questa scena resterà indelebile. Forse anche per Sofia e la bimba. Sicuramente per la mamma, che mentre si asciugava il viso e allontanava la carrozzina, mi incrociò casualmente, e, senza neppure sapere chi fossi, mi ringraziò.

Purtroppo la delicatezza che contraddistingue ogni movimento di Sofia non trova perfetta corrispondenza in Lakshmi.

Una ferita, procurata chissà quando, chissà dove e chissà come (meglio non sapere?) le impedisce quella precisione millimetrica nella presa che invece consente a Sofia il gioco della carota.

E anche la sua ritrosia che si oppone a quella socialità tipica degli elefanti e la porta a voler dominare sull’indole remissiva di Sofia, che probabilmente esclude a priori un’esigenza di confronto non avendo mai avuto necessità di difendersi da un rischio ignoto, sarà un segno della vita vissuta di cui sappiamo poco, ma che lei ricorderà con nitida precisione.

E sì, le vite di Sofia e di Lakshmi sono state diverse.

 

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Come tanti altri animali, gli elefanti asiatici sono anche loro considerati “Endangered Species”, ovvero animali a rischio di estinzione. Un’estinzione forzata; addirittura indotta.

Quella più evidente è quella della brutale e assurda uccisione di esemplari o per le loro zanne o per altro, persino per la loro pelle. Quella più subdola riguarda invece il percorso evolutivo della specie.

La loro caccia riduce in modo considerevole il numero di esemplari dotati di avorio. Il comportamento delle femmine muta, essendo loro, per riprodursi, portate forzatamente a scegliere tra individui privi di zanne. Nel lunghissimo termine sarà probabile una mutazione genetica: ma le zanne sono due dei sei denti di cui l’elefante è dotato.

Il costante ridursi del numero di esemplari maschi, sempre a causa della loro caccia, porta conseguenze sul piano demografico in seguito al minor numero di accoppiamenti e di nascite. Come dire: arriverà il giorno in cui …

Va da sé quindi che il percorso per l’estinzione non è solo quello bagnato di sangue. La distruzione delle foreste per i più svariati motivi tra cui l’urbanizzazione, la trasformazione di attività agricole o lo sfruttamento del legname porta allo stesso risultato.

E la mano è sempre la stessa.


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*LUIGI EPOMICENO (Nato nel 1957. Sono mezzo americano e mezzo italiano, pugliese di origine, forse greco di stirpe, romano di adozione, con soste prolungate a Firenze, Milano, Genova, Chicago e Londra e continue a Parigi, Marsiglia, Madrid, New York, Amsterdam, Eindhoven, Dusseldorf, Monaco di Baviera, Praga, Amburgo, Bruxelles e Lisbona. Ho girato tutta la Grecia, l’Albania, la Francia, la Spagna, la Turchia e gli USA e ho messo piede in tanti altri posti che neanche ricordo, da Seul a Iguazù, dal Canada al Marocco passando per le isole Lofoten. Ora sono in un altro mondo. Un mondo nel Mondo. Da quasi un anno e mezzo sono il Direttore Generale del Bioparco di Roma. Prima ho fatto tante altre cose. Alcune divertenti, altre meno)


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