Turista a Lerici, ritorno all'infanzia

di MARCO BRANDO

Per diventare uno strano turista nei luoghi in cui sono cresciuto ho dovuto aspettare che nascesse mio figlio Pietro, il 29 gennaio 2016: dall’estate di quell’anno la mia terra è ridiventata una meta. Perché lui - piccolo milanese - aveva bisogno di aria di mare, così io e Sara abbiamo deciso, già quando aveva meno di 6 mesi, di fargli annusare spesso quella della Liguria. Sembrerà banale questa scelta, ma non lo è: dai 18 anni in poi, per decenni, non ero più stato a lungo in questo lembo estremo del Levante, tra le Cinque Terre, il Golfo di Spezia, San Terenzo (dove Pietrino oggi si sente a casa), Lerici e Tellaro, poco prima del confine con la Toscana. Di solito, fino al 2016, non ci rimanevo più di due o tre giorni, un paio di volte l’anno. 

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(foto Marco Brando)


Perché? Pochi mesi dopo la scomparsa di mia madre, Lea, sconfitta da una lunga malattia nell’agosto del 1976, me ne andai. Avevo un alibi. Quello dell'università, che a Spezia (il La - introdotto nel 1930 - non ci è mai piaciuto) non c’era. Cercai di fare in modo di non diventare uno dei tanti giovani pendolari dello studio. Scelsi l'Università di Pavia (città a 220 chilometri di distanza, di cui fino ad allora avevo quasi ignorato l’esistenza), invece di quella di Pisa, classica meta per gli spezzini, a meno di un’ora di treno. L’ateneo pavese era abbastanza lontano per non dover tornare ogni sera e sufficientemente vicino per rassicurare i miei. Inoltre mia sorella maggiore, Maurizia, abitava nella vicina Milano: un altro alibi. Minacciai persino di partire prima per il servizio militare, nel caso fossi stato costretto a “pendolare”.

 A Spezia c’era buona parte della mia famiglia. Però, un po’ per volta, diradai sempre più i ritorni, fino a renderli rari: a 18 anni si diventa molto drastici, quando si ha bisogno di lasciare alle spalle un grande dolore, una perdita. Eppure - nel mio girovagare tra Liguria, Lombardia, Roma e Bari - non ho mai detto di essere milanese, anche se Milano è la mia città di residenza da 26 anni (e ci lavoro, con qualche pausa, da 34), mentre per altri 18 ho vissuto a Pavia. Il fatto è che mi sono sempre definito, e sentito, ligure (anzi, di Genova, dove sono nato e ho vissuto per pochi anni): perché le radici non si sradicano, sebbene a volte si tenti di riuscirci.

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(foto Marco Brando)

Comunque dal 2016 ho un altro alibi, questa volta per tornare e fermarmi, dopo anni di scappate e fughe. Me l’ha fornito, come ricordavo prima, Pietrino. Dal mese di maggio di quell’estate, io, lui e Sara torniamo spesso a San Terenzo, frazione di Lerici, ai margini del Golfo di Spezia. Prendiamo sempre in affitto lo stesso appartamento in una vecchia casa, nel borgo antico: il bimbo la chiama familiarmente “la casa del mare”. A Lerici - che è di fronte, a un paio di chilometri, sull'altro lato della baia - ho imparato a nuotare quando ero bambino, grazie all’appiglio dei galleggianti nel campo di pallanuoto, lungo il molo. Quante scottature in quegli anni, "grazie" alla carnagione chiara e alla birra mischiata con l'olio d'oliva, che avrebbe dovuto favorire l'abbronzatura (così si diceva allora, di certo Maurizia e la mamma ci credevano).

San Terenzo è un piccolo borgo ancora abbastanza genuino, senza turismo con la puzza al naso, dominato da un piccolo castello. Lì Pietro respira la mia vecchia aria e annusa il profumo del pesce che arriva dalla pescheria. In ogni stagione gioca con la sabbia nella piccola spiaggia e razzola sulla battigia sfiorando il mare, che guarda con curiosità e divertito sospetto. Diventato un po’ più grande, vorrebbe imparare a nuotare. Intanto assaggia la focaccia, i panigacci, i testaroli, i muscoli (le cozze liguri) ripieni, la farinata e la pasta al pesto, con un appetito da lupetto; anzi, da squaletto, come dice lui. Ascolta, proveniente dal via-vai nel carruggio, la tipica cantilena locale, quell'accento che in breve tempo riconquista anche a me. Si guarda attorno con i miei occhi e io rivedo con i suoi. Intanto lo spalmo di vera crema solare, perché nella vita merita di scottarsi un po' meno di me.

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(foto Marco Brando)

Certo, non è più la Liguria di 40 o 50 anni fa. Quando ero un piccolo ligure andare da Spezia, dove abitavo, a San Terenzo e Lerici, sembrava quasi un viaggio, nonostante si dovessero percorrere soltanto 13 chilometri. Ora esistono autobus di linea che passano ogni 10 minuti. Ma all'epoca bisognava prendere rari e vecchi pullman azzurri della Brun Caprini, impegnati di un caratteristico odore di nafta, visto che il motore era incastrato in una specie di cassone tra il posto di guida e i sedili per i passeggeri. La frequenza di quelle corriere (a proposito, qualcuno dice ancora “Devo prendere la corriera?”) era davvero scarsa, cosicché ci si impilava tipo acciughe. L'alternativa era il filobus verde n. 2, che si fermava inesorabilmente ai confini del Comune di Spezia, manco lì ci fosse stato il muro di Berlino. Bisognava scarpinare un bel po’, attraversando a piedi anche la gocciolante Galleria degli Scoglietti, per raggiungere il mare di San Terenzo; altri venti minuti erano necessari per arrivare a Lerici, costeggiando il mare. Un'ulteriore possibilità consisteva nel prendere i piccoli vaporetti della Fitram, che in estate e in primavera collegavano il lungomare di Spezia con i paesi affacciati sul Golfo: ricordo che il comandante, quando avevo 6 o 7 anni, mi lasciò il timone per qualche minuto.

Una volta diventato adolescente, risolsi il problema andandoci in bici. Invece, quando affrontavo "il viaggio" con mia sorella (il fratellino Massimo era ancora molto piccolo), spesso si puntava sull'autostop, favorito dai suoi vent’anni e dal look balneare. Per due o tre anni, in estate, io e lei adottammo pure il trucco del campeggio, per poterci fermare: una tenda canadese piantata dietro il castello di Lerici, ai margini della scogliera, e un fornelletto a gas risolvevano il problema della villeggiatura stanziale. Restavamo lì per due o tre settimane, limitandoci a qualche telefonata a casa col telefono a gettoni e tornando in città solo quando eravamo a corto di viveri e di soldi. Io al mattino - ancora mezzo addormentato - mi svegliavo tuffandomi nella piccola baia. Un paio di pinne, la maschera e una canna da pesca diventavano per me il più bel passatempo. Maurizia non amava le spiagge, così stavamo abbarbicati sopra gli scogli o sdraiati sul molo di Lerici, dopo il bar Erix, che non c’è più. Avevo tra gli 8 e i 15 anni; lei tra i 18 e i 25: ascoltava Radio Montecarlo sulla piccola radiolina a transistor, fumava Muratti Ambassador, chiacchierava con altri ragazzi e mi spalmava col solito olio d’oliva .

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(foto Marco Brando)

Ora tutto è più organizzato. Oltre al frequentissimo passaggio di bus, a Lerici e San Terenzo ci sono le isole pedonali, una specie di tangenziale che evita il traffico nei borghi e una vasta zona a traffico limitato, che costringe i non residenti a parcheggiare ai margini dei centri abitati. Anche la passeggiata lungo la baia, da castello a castello, è stata resa più bella e spaziosa. Però, se chiudo gli occhi, mi rivedo ragazzino, mentre corro sul lungomare con la canna da pesca legata alla bici e le pinne ficcate con l’asciugamano nel portapacchi con la molla. Pietro, che si chiama come mio padre, non lo sa ancora, ma una corsa in bici da queste parti prima o poi toccherà anche a lui, come è toccata a me e al nonno. E forse questo posto diventerà anche suo, come è ancora mio, perché - anche se tanti anni fa sono scappato - in realtà scopro oggi, grazie a lui, di non essermene mai andato.




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