Svizzera madre, con il fascino di Happy days

di CARLO PIZZATI* 

Nel mio primo viaggio internazionale da solo sono salito su un treno che portava nel Paese dove sono nato. Avevo lasciato la Svizzera ad appena tre settimane di vita, quando mia madre rientrò a casa dei genitori in Veneto, mentre mio padre finiva la laurea in architettura a Ginevra.

In quel viaggio di ritorno avevo 14 anni, un biglietto del treno, tanta noia adolescenziale e molta voglia di vivere le avventure di cui leggevo con furore nei lenti pomeriggi umidi nella valle più piovosa della regione. Salgari, Dickens, Verne, Kipling, ma anche Tin Tin, Zagor e Tex Willer, mentre in tv mi lasciavo ispirare dai viaggi nel vecchio West del monaco taoista della serie “Kung Fu,” interpretato da un carismatico Keith Carradine.

In tasca conservavo l’indirizzo di una signora che lavorava come costumista nel Teatro di Ginevra. Negli anni universitari era stata amica di mia madre, che mi accompagnò fino alla stazione di Vicenza. Salii su uno di quei treni che nelle maniglie, nei ganci e negli scaffali portabagagli ostentava una patina di dorata nostalgia,oggi reperibile solo in fotografie o film d’epoca. Mentre l’edilizia italiana finiva di imbruttirsi con tapparelle di plastica verde, infissi e serramenti d’alluminio di un boom che distribuiva benessere e alloggi più salubri a una borghesia in crescita, le Carrozze Tradizionali delle Ferrovie dello Stato conservavano non solo gli eterni e affidabili ritardi, ma anche un soffuso fascino cromatico da dopoguerra di cui mi innamorai subito: vetri antichi e quasi smerigliati che deformavano il paesaggio, sedili in finta pelle, pavimenti di linoleum, odore di sigarette e panini.Treno del Bernina a 2328 m slm jpeg(Il treno del Bernina)

Prendere da solo la coincidenza a Milano, nella Stazione Centrale del 1980, era una sfida che richiedeva autocontrollo e riflessi pronti per un adolescente al quarto anno di ginnasio cresciuto in una cittadina di 30 mila abitanti, in fondo a una valle che finiva tra montagne di 2000 metri, oltre le quali inizia il Trentino. Ai miei occhi di valligiano, a Milano si apriva lo scenario dello sfacelo economico e del conflitto politico che furono per me gli anni Settanta: barboni intontiti il cui sudore rappreso e sporcizia accumulata su vestiti e capelli creavano un messaggio olfattivo con 10 metri di diametro; emaciati eroinomani dalla palpebra pendula e la pupilla ondeggiante che barcollavano con i gomiti stretti a difendersi i fianchi, la manina estesa per esigere un obolo; e poi i maniaci, che a fine degli anni ’70 non erano ancora ben nascosti dietro gli schermi dei computer, ma giravano tra il disperato e l’affannato nel caldo di un’estate precoce, avvicinando il dorso della mano alle gonne delle suore, come mi capitò di vedere, oppure spingendo fuori la dentiera con la lingua per poi inghiottirsela di nuovo. Aspettare il treno per Ginevra alla Stazione Centrale, per un quattordicenne con già troppa immaginazione, fu una conquista da batticuore.

Cercavo di osservare tutto questo circo, tra il viavai dei pendolari in arrivo dalle valli lombarde, da Piemonte, Veneto, Emilia e Toscana, lasciandomi sferzare dalla festa di accenti che sentivo arrivare da tutte le direzioni, tra i viaggiatori che mi sfilavano accanto, chi in entrata dalla provincia, chi in uscita frettolosa verso quella Milano bigia e non ancora da bere. Cercavo di fingere un’indifferenza metropolitana che mi avrebbe protetto dalle persone sbagliate. Naturalmente, non sapevo chi fossero queste persone sbagliate. Non mi era stato spiegato molto, oltre il rituale mi raccomando di mia madre. Era un’epoca pre-Google in cui gli orrori e i piaceri andavano imparati da soli. Un periodo in cui i rischi erano considerati formativi, non da evitare a tutti i costi.

Arrivai finalmente al binario, dove trovai il mio sedile in uno scompartimento a sei posti con due signore dai capelli bianchi cotonati che parlavano fitto fitto in francese. Stringevo tra le dita un libro, una raccolta di racconti brevi di Kafka, ma più che altro restavo con gli occhi fissi verso il paesaggio, mentre il convoglio partiva con un paio di scosse, frenate e accelerate, verso nord.

Resto sempre sorpreso, oggi, quando osservo mio figlio o mia moglie, che avendo nove anni meno di me appartiene già a una generazione diversa, appena arriviamo in un luogo mai visto prima e saliamo su un taxi, in autobus o in auto. Entrambi controllano immediatamente lo schermo del telefonino, aprono un libro, magari una rivista o si addormentano. Non sembrano molto interessati al paesaggio. È come se fosse un dettaglio in più, non la ragione principale del viaggio. Lasciano che la scoperta sfili via finché si arriva a destinazione e si può tuffarsi in mare, visitare un museo, fare una passeggiata, lo shopping, cenare. Guardano fuori dal finestrino solo per farsi fotografare mentre guardano fuori dal finestrino.

Per me il paesaggio è tutto. L’ho imparato da mia madre. In un nostro recente viaggio in India, dove ora abito(dopo aver vissuto in Florida, a Washington D.C., a New York, a Roma, a Città del Messico, a Buenos Aires e a Madrid), l’ho osservata mentre decollavamo dall’aeroporto di Chennai per andare a Calcutta. Durante l’intero volo è rimasta piegata sul lato sinistro, la testa appoggiata a uno di quegli oblò che stendono una patina turchina e brillante anche sulle nuvole più cenerine. Guardava giù. Perlustrava con gli occhi. Voleva capire dove eravamo. Chiedeva in continuazione il nome dello Stato che stavamo sorvolando. Gioiva nel riconoscere coste, foreste, fiumi per poi entrare nel tripudio di Calcutta vista da una nuvola. Mamma si è staccata dal finestrino solo quando il capitano ha annunciato che dovevamo sbarcare.

Ho imparato da lei a contemplare il paesaggio, a indicare agli altri una bellezza da condividere. E misi in pratica quest’ereditata passione per la contemplazione dei paesaggi in quel primo viaggio da Milano verso Domodossola, restando a fissare un panorama prealpino che si avvicinava sempre più alle grandi montagne. Erano le prime montagne che avevo visto appena nato. Ma per me erano anche le montagne di cui avevo sentito parlare grazie alle gesta dei prozii, gli zii materni di mia madre: Aldo, Gino e Italo Soldà.Passo Berninajpeg

(Il passo Bernina)

Il più famoso era Gino. Eroe di famiglia. L’alpinista più anziano della prima ascesa al K2, missione che serviva a ridare orgoglio all’Italia postfascista in un dopoguerra ancora intriso di divisioni, Compagnoni e Lacedelli che litigavano con il più brillante Walter Bonatti, Gino che nei documentari correva su un tapis roulant con quel suo torace a forma di barile, bradicardico come me, 44 meravigliosi battiti al minuto, a riposo, che gli consentivano di salire sempre più in alto anche senza ossigeno, prima che lo facesse Messner. Ma c’era anche il simpatico Italo, grande pioniere olimpionico del salto acrobatico sugli scii, amante della cultura della montagna, non solo della sfida e dell’adrenalina. E poi l’indimenticabile Aldo, l’anarchico del paese dov’è nata mia madre. Lo incontrai da ragazzino in una strada di Recoaro Terme che, già settantenne, reggeva due pesanti scatoloni legati a spaghi taglienti che teneva infilati tra dita forti come ganci di ferro.

“Zio Aldo…posso aiutarti?”

“Ah, ma allora non mi vuoi bene…”

“Come non ti voglio bene? Ti ho chiesto se posso aiutarti…”

“Ma non hai capito che è così che mi mantengo giovane? Questa è la mia palestra… Però, per ricompensarti delle intenzioni, ti regalo due consigli: primo, mai possedere più di una casa, ma, soprattutto, mai star mejo che ben!”

Mai stare meglio di star bene. La ricerca della serenità, non le trappole della ricerca della felicità. Una sottilissima lezione spirituale che ho compreso solo con gli anni, impartita da quello zio Aldo che proprio mentre nascevo in Svizzera vinceva un gioco a quiz nella Rai di Mike Buongiorno, conquistando come premio della “Fiera dei Sogni” un viaggio per pescare il salmone in Norvegia. In tv, Aldo decise di regalare il suo premio al secondo qualificato, un emigrato cinese che voleva vincere un viaggio per tornare, dopo anni, a vedere la famiglia in Cina. Aldo non andò mai in Norvegia, ma restò per sempre nella mia memoria e forse anche in quella di alcuni recoaresi che al fratello Gino hanno costruito un monumento in piazza.

Pensavo ai fratelli Soldà e proprio a Gino che dalle parti di Tirano durante la Seconda Guerra mondiale aiutava i profughi ebrei a raggiungere la Svizzera. Viaggiava solo con uno spazzolino da denti nel taschino e si muoveva in fretta, da buon partigiano che avrebbe poi affrontato la battaglia sulle nostre valli. I fratelli Soldà insegnavano a sciare a Sestriere, o a scalare da queste parti, anche sull’ Adamello, dove mio nonno Carlo aveva combattuto la Prima Guerra, non sapendo ancora che sarebbe poi finito in Africa e a combattere anche la Seconda Guerra come capitano degli Alpini: uomo dalla naja infinita.

Mi perdevo tra questi ricordi, nel lusso della fantasia, capendo già da subito che la natura è importante, ti può dare tutto, ci dà tutto, ovvio, ma solo quando è intrisa di storie rifulge e decuplica le sue dimensioni emotive e le sue lezioni, in questo continuo e insensato automiglioramento che è la vita. Le Alpi, gli elefanti di Annibale che l’attraversano nella neve, i primi alpinisti che scoprono i ghiacciai, tutta l’industria che si è creata su queste verticalità, quella idroelettrica ben prima di quella turistica… Mi perdevo in questi sogni a occhi aperti, assorbendo le immagini e le storie che i ricordi facevano deflagrare in me quando la porta dello scompartimento si aprì e un signore sui 30 anni, una zazzera oleosa che gli nascondeva un occhio, entrò sorridendomi e si sedette di fronte a me. C’era qualcosa che, forse proprio per la mia immaginazione troppo generosa, mi pareva un po’ fuori posto nel nuovo passeggero.

Guardava fuori dal finestrino anche lui, e poi si girava verso di me. Lo notavo con la coda dell’occhio, mentre continuavo a godermi il paesaggio. Ma ne godevo di meno, a causa dell’intruso. Mi pareva stesse prendendo le misure della situazione. Come se volesse capire se fossi in viaggio con le due signore. Mi sembrava stesse aspettando di vedere se avrei parlato con le due viaggiatrici, se le conoscevo. Passati altri due minuti, e visto che restavo in silenzio, cominciò a fissarmi più direttamente, senza interruzioni. Lanciai uno sguardo veloce verso di lui, e mi sorrise. Aveva dei vestiti un po’ consumati, forse era solo un hippie ancorato nei primi anni Settanta e non proiettato negli anni Ottanta.

Lago dei Caprioli gruppo Adamellojpeg

(Lago dei caprioli nel gruppo dell'Adamello)

Forse voleva solo essere cordiale e amichevole. Ma qualcosa nel suo sguardo mi metteva a disagio. Vidi che scivolava nel sedile, avvicinando le ginocchia alle mie. Poi appoggiò le mani sulle gambe e, con gli scossoni del treno, stava quasi per toccare le mie rotule con le unghie sporche. Qui i miei dubbi si diradarono in certezza, e stavo valutando cosa fare. Avrei potuto lasciare il vagone. Ma non era peggio? Se mi avesse seguito nel corridoio avrebbe avuto più occasioni di avvicinarmi e io meno testimoni cui chiedere aiuto. Il disagio aumentava. Non sudavo, ma ne sentivo tutti i sintomi. Cercai di aprire il mio libro. Kafka, aiutami tu a risolvere questa situazione. Ma non riuscivo a concentrarmi.

“Va a visitare suoi parenti in Svizzera?” mi chiese in quel momento una delle due signore, quella con il viso più dolce e amichevole, in un francese cantilenante tipico dei ginevrini. Il mio francese zoppicava e cercai di rispondere farcendolo con un po’ di inglese, materia nella quale invece prendevo buoni voti e che capivo a orecchio, imitando le canzoni dei Madness, i Sex Pistol, the Jam, Adam Ant, Neil Young, Cat Stevens, James Taylor, i Beatles, i Rolling Stones e la colonna sonora di Jesus Christ Superstar su cui stavo costruendo la mia passione for the English language.

Risposi dicendo la verità. No, non andavo a visitare parenti, ma ero nato a Ginevra e andavo a visitare un’amica di mia madre che aveva un figlio poco più giovane di me. Ero molto curioso di scoprire la città di cui non ricordavo nulla, avendola lasciata prestissimo. Il viso della signora si illuminò, dando rapide occhiate di disapprovazione verso il passeggero con il ciuffo lungo.

Cominciammo a chiacchierare intensamente in questo esperanto fatto di italiano, francese e l’inglese delle canzoni. L’uomo si ricompose nella poltroncina, guardò verso il corridoio dove notò qualcosa che lo fece scattare in piedi e uscire di fretta. Pochi istanti dopo, il controllore riaprì la porta del nostro scompartimento per controllare i biglietti e io sospirai, alleggerito dalla minaccia dell’uomo con la zazzera unta.

La signora si chiamava Madame Bonduelle. Quando scoprì che avrei dovuto prendere l’autobus perché nessuno sarebbe venuto ad accogliermi alla stazione, mi chiese in che zona abitava l’amica di mia madre.

“Ma è proprio nel mio quartiere. Allora ti darò io un passaggio in taxi, va bene?”

Non sapevo come rispondere. Potevo fidarmi? Ma sì, senz’altro. Viveva davvero nel quartiere dove mi dirigevo? Solo più tardi capii che era forse per proteggermi dall’uomo con la zazzera. Se fossi rimasto solo ad aspettare l’autobus alla stazione, la mia vita avrebbe potuto prendere una piega diversa. Mi sentii pieno di gratitudine per Madame Bonduelle, il cui cognome, a distanza di 40 anni, ricordo ancora a memoria pur avendo dimenticato tanti altri dettagli. Provai a pagare la mia parte, anche se avevo solo contanti in lire che non avevo ancora potuto cambiare in franchi svizzeri. Madame Bonduelle rifiutò e restò ad aspettare che mi venisse aperto il cancello del condominio ginevrino dove, quella sera, trovai ad attendermi Silvia Seiler, che mi indicò la stanza dove avrei dormito e mi diede subito una mappa della città, spiegandomi dove avrei potuto prendere l’autobus per il centro la mattina dopo.

“E queste sono le chiavi, fai come vuoi, basta che torni verso ora di cena… un po’ prima che in Italia, va bene?” Silvia parlava molto bene l’italiano perché era originaria di Campo Cologno, un paesino a meno di un chilometro dalla frontiera italiana, dove ora gestisce l’Albergo della Stazione ereditato dal nonno materno, il titolare di un’agenzia di emigrazione che spediva tanti italiani in Canada, in Australia e in America.

Sono tornato a trovare Silvia nell’estate del 2020 dopo il lockdown causato dal Covid-19. Ha 80 anni, in forma come sempre. Appena arrivato con mia madre e mia moglie, dopo aver attraversato le valli lombarde più devastate dal virus, Silvia mi ha accolto come la prima volta, consegnandomi una mappa della val Poschiavo e un orario del treno del Bernina che porta fino a St. Moritz. Depositate le valige, io e mia moglie siamo subito saliti sul primo treno, per andare a fare il giro del Lago Bianco nel passo del Bernina, a 2250 metri di altitudine.Silvia Seiler a destra con lamica Editta Dal Lagojpeg

(Silvia Seiler con un'amica)

Qui le acque si dividono equanimemente, in stile svizzero: da una parte scendono verso l’Adriatico, dall’altra vanno verso il Danubio. Ci siamo tirati qualche palla di neve, scivolando su una lastra di ghiaccio per poi visitare rapidamente St. Moritz e scoprire che è esattamente come pensavo, una sfilata di negozi di marca identica a quelle che trovi a Dubai o nei quartieri ricchi di Seoul, con qualche auto di lusso e tanti piccoli borghesi lombardi che investono qui i risparmi per acquistare un prestigio di cui sentono il bisogno, nell’ illusione che ogni vuoto sia colmabile. E, adesso, per consolarsi dal grande spavento della pandemia.

Ho guardato la cartina che Silvia, che abbiamo sempre chiamato Silvià alla francese, mi consegnava, ora con frangetta bianca molto chic, e ho pensato: sei sempre la stessa. Quella della sera di 40 anni fa che mi diede la prima lezione su cos’è l’autosufficienza elvetica e calvinista, che si propaga tra i tedeschi e gli anglosassoni per diventare un valore americano, dove si chiama self-reliance. L’arrangiarsi da soli. Il non dover fare affidamento sulla solidarietà altrui. Nemmeno i familiari o gli amici. Questo mi insegnò quella sera Silvià, consegnando nelle mie mani di quattordicenne appena salvato grazie alla gentilezza di Madame Bonduelle dalle attenzioni di uno strano passeggero, una mappa per esplorare da solo la città dov’ero nato e che non avevo mai visto prima. Forse per lei era un gesto automatico, chissà se lo aveva visto fare da suo padre con gli immigrati in partenza. Di cosa c’è bisogno, nella vita, se non di una mappa per sapere dove andare e degli orari per sapere quando andare? Il resto te lo inventerai strada facendo.

Credo sia stato l’inizio della mia condizione di emigrante, esistenza di viaggi e di indipendenza. Tutto iniziò con quella mappa, e quel viaggio da solo, in treno, affrontando il rischio del maniaco, nel 1980. La mattina dopo, con l’eccitazione della libertà che mi sprizzava dagli occhi, facendomi lacrimare di gioia, cercai il bus, arrivai in centro a Ginevra, girai perdendomi nonostante la cartina, pensando a Calvino mentre guardavo la sua statua, riflettendo sulla sua ribellione verso quel soffocante cattolicesimo che conoscevo molto bene, essendo cresciuto in un Veneto che più bianco non si poteva, tra gli anni Settanta e Ottanta. Osservando lo spruzzo del lago Lemano, cercai di costruire un collegamento tra me e il luogo, che in realtà era solo una coincidenza dovuta agli impegni accademici di mio padre. Cercavo una radice, un magico legame che si creò con quella città solo perché lo volevo.

Quel primo giorno a zonzo da solo, a 14 anni, nella città straniera dov’ero nato, a pranzo mi regalai un pasto da McDonald, che all’epoca ancora non esisteva in Italia. Nel gruppo dei nostri amici aveva assunto un valore quasi mitologico che rappresentava la modernità, agli albori della recente vampata di un eterno flusso di globalizzazione.

Guardavo sempre la serie tv “Happy Days,” e ne subivo il mito culturale americano, incerto se imitare Fonzie o Richie, tra il carisma della ribellione punk proletario-libertaria e il buonismo solidale da bravo bambino borghese, alla fai la cosa giusta e noiosa. Alla fine, mi pettinavo il ciuffo nero come l’imbranato e tontolone Potsie, cui somigliavo forse di più. Quel primo hamburger, vergognandomi un po’ di questo scivolata paninara, mi parve uno dei pasti più deliziosi della mia vita. Sapeva di futuro e di libertà.


*CARLO PIZZATI (giornalista, scrittore e docente di teoria della comunicazione. Vive nel Sud dell'India. Il suo ottavo libro è "La Tigre e il Drone" - Marsilio, autunno 2020)


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