Subcomandante, il colore della terra. Tre incontri nel Chiapas

di FLAVIO FUSI*                                

Muore Maria Luisa Tomasini, nonna degli zapatisti”: la notizia, pubblicata su una pagina interna del quotidiano di Città del Messico La Jornada, è una potente macchina del tempo capace di risvegliare nella memoria giorni lontani, personaggi, conversazioni, profumi e colori. L’anziana signora, che negli anni Novanta viveva a San Cristobal, fu testimone entusiasta dell’insurrezione e chiese agli zapatisti di essere chiamata “nonna” dei rivoltosi. Il subcomandante Marcos le rispose con questa lettera affettuosa pubblicata da un quotidiano locale: “Cara nonnina, abbiamo molto caro il suo sostegno. L’età non è un ostacolo alla lotta per la democrazia, la libertà e la giustizia nel mondo. Per stare al nostro fianco non è necessario essere giovani, ma essere umani. Dopotutto, l’età è solo una montagna di calendari scolpiti sulla pelle ma non sul cuore.” Riconosco in queste parole l’inconfondibile stile di Marcos: la tenerezza e l’ironia, l’accesa determinazione che ho imparato a conoscere nei nostri tre incontri: reali, immaginati e sognati. 


Gennaio 1994.

Aqui estamos”, siamo ancora qui.

Sono stanchi e laceri, il passamontagna calato sul volto, gli occhi accesi, gli scarponi inzaccherati di fango. Ragazzi e giovani donne che stringono tra le mani vecchi fucili, quasi bambini che si fanno vincere dal sonno sulle scale del municipio di San Cristobal, negli uffici spalancati, lungo i corridoi risonanti, davanti alle grandi finestre che si affacciano sulla piazza dello zocalo illuminata da fiochi lampioni.

E’ la notte che nessuno immaginava. Così mi racconta quelle ore Amado Avendano Figueroa, avvocato e giornalista, direttore e redattore unico del pugnace giornale locale El Tiempo: “All’una di notte del primo gennaio mi telefona una ragazza che conosco. Dice: avvocato, avvocato, ci sono i guerriglieri, li ho visti marciare sulla salita verso Chamula. Guerriglieri? Io non ci credo, e come crederlo? penso che la visione sia effetto dei  brindisi, las copas di fine anno. Ad ogni buon conto chiamo il delegato di polizia per informarlo. Grazie, dice lui, e riattacca.”

Così cominciò. Quando sale la nebbia dell’alba e il freddo penetra dentro le ossa, tra i richiami dei galli e il silenzio profondo della misera periferia, lungo baracche di fango con le porte sbarrate, una piccola colonna armata marcia sulla strada che porta dalla chiesa di San Juan de Chamula al centro dell’ antica città: passamontagna a nascondere il volto, vecchi fucili e bandoliere a tracolla,  giubbotti e scarponi scalcagnati.

Tra giornalisti ci si intende, e con Amado il giorno dopo e il giorno dopo ancora ci aggiriamo tra i soldati mascherati di questo misterioso esercito che è sorto dalla selva, ha messo in fuga poliziotti e militari e in poche ore ha conquistato sette municipi: San Cristobal, Altamirano, Las margaritas, Ocosingo, Oxchuc, Huixtane e Chanal. Interrogati, i ragazzi in armi recitano questi nomi come una antica litania: sono dimenticate terre  di indigeni, campi e villaggi carichi di  violenza e sfruttamento fin dai tempi della conquista spagnola.

Interrogati, in uno stentato spagnolo da contadini analfabeti, tutti raccontano del subcomandante. Chi è il capo? Il capo è il popolo. Chi guida la rivolta? il subcomandante, il luogotenente del popolo. Marcos non c’è, inutile cercarlo tra i colonnati dello zocalo o dentro gli uffici vuoti del posto di polizia: eppure questo nome senza volto è dappertutto, risuona in tutte le conversazioni e in tutti gli appelli, in tutti i comunicati di guerra che l’avanguardia zapatista sbatte in faccia al potere bianco di Città del Messico. 

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(Chiapas     foto da pixabay)

Veniamo dalla terra e siamo del colore della terra”, ci diranno i ragazzi soldati poche ore prima di ritirarsi e scomparire nella selva Lacandona. Così, quando le avanguardie dell’esercito arrivano in forze a San Cristobal, si trovano a riconquistare una città svuotata,  abbandonata e silenziosa. A ore di marcia dentro il mare verde della giungla, gli zapatisti presidiano i municipi liberati: ormai tutto il Messico sa che qui è stata dichiarata una guerra, e da oggi sarà difficile uccidere e reprimere, massacrare come in passato nel silenzio indifferente del Paese.

La notte, sugli altos che circondano l’antico centro coloniale, si accendono i falò dei villaggi indigeni, e nella sua piccola tipografia Amado Avendano compone con il piombo l’editoriale del giorno dopo. “C’è tanta verità, qui nel Chiapas, ma il nostro governo si ostina sempre di più nella menzogna. Ormai abbiamo perso la speranza: quando il governo dice sì, dobbiamo intendere no, e quando dice no, in realtà è sì. Ma è crollato il teatro, è crollato il palcoscenico, gli attori sono in fuga, e non è un bello spettacolo, lo spettacolo della verità…”

 palenque Chiapasjpg(Palenque, Chiapas       foto da pixabay)


Giugno 1997

La conversazione

Il cavallo – un baio nervoso – si impenna prima che il cavaliere smonti per assicurare le redini alla palizzata di legno. Troppa gente, troppi bambini che corrono sul prato che porta alla chiesetta bianca di calce. Una piccola radura, il torrente che scorre, un pugno di piccole case di mattoni e tutto intorno le pareti alte, verdi e inestricabili, sonore, della selva Lacandona. Benvenuti a La Realidad ,“primo territorio libero del Messico”: qui ci ha dato appuntamento il subcomandante, e qui alla fine  lo incontreremo, sotto l’ardente sole del mezzogiorno.

Una carezza sul collo a rassicurare la cavalcatura, un breve salto a terra e Marcos cammina accanto a noi. E’ in tutto come lo ricordiamo e come ce lo hanno mostrato in questi anni centinaia di immagini e fotografie: il passamontagna nero, la pipa in bocca, kalashnikov a tracolla. E’ alto come me, e - al passo con il mio microfono e con la telecamera - risponde paziente a poche domande per il breve tratto che ci conduce dietro la chiesa, dove è stato allestito un piccolo palco di assi di legno.

Un uomo deciso e gentile, ironico.  E questa che cerco affannosamente di imbastire, cosa è? una passeggiata, un’intervista, una conversazione, una chiacchierata tra amici? Dice Marcos: “La nostra resistenza non è terminata. Oggi, con la ribellione zapatista, la questione indigena è ormai all’ordine del giorno. Ci sono progressi, maggiore attenzione. C’è rispetto, non siamo più soli.” Rispondo: ma siete assediati, nei vostri villaggi. Il subcomandante mi guarda e con un gesto largo indica la selva. “Assediati? Siamo dentro la nostra terra, siamo del colore della terra e la nostra terra ci protegge.”

La nostra terra: ci siamo dentro da ieri, in questa terra generosa e accogliente come una madre. Siamo partiti da San Cristobal che era ancora notte, la notte fredda dell’altipiano. Per sette ore, preceduti dalle nostre guide che ci conducono oltre i posti di guardia dell’esercito, ci siamo immersi nel mare verde della selva Lacandona.

Quando la nebbia si dirada e la luce piove dall’alto, siamo in vista di La Realidad, la prima comunità zapatista battezzata da Marcos. Il nome scelto dice tutto del subcomandante e della sua visione: perché questo villaggio liberato è la realtà, ma anche il sogno del futuro Chiapas. I contadini che all’alba lasciano le case per lavorare nelle piccole milpas di mais scavate nella vegetazione sui fianchi del monte rappresentano una realtà centenaria. Ma sono anche le avanguardie del sogno quando la sera, di ritorno dai campi, calzano gli scarponi militari e imbracciano il fucile per la veglia notturna.

La giornata inizia qui con la messa mattutina. La campana chiama i fedeli, che si affollano nel grande stanzone della chiesa; sono contadini silenziosi dalle grandi mani, donne che portano in braccio neonati, bambini aggrappati alle gonne. Oggi dovremo vivere in mezzo a loro, condividere con le famiglie e la curiosità dei più piccoli le ore di un mattino che si fa sempre più caldo.

Alla fine Marcos arriva, come non te lo aspetti, o forse come te lo aspettavi nei tuoi sogni da ragazzo cancellati dal tempo: tre cavalieri sul fianco della collina verde che domina il villaggio, in mezzo Marcos, ai lati Moises e Tacho. In basso, dal folto della foresta arriva una ventata di piccoli uccelli colorati, in alto i cavalli scivolano scartando lungo il pendio, attraversano al passo la radura, si fermano a bere al torrente tra i bambini che giocano dove l’acqua è più bassa. La Realidad si anima all’improvviso, l’attesa è finita.

san cristobal de las casasjpg(San Cristobal de las casas, Chiapas       foto da pixabay)

 

11 Marzo 2001

Il palcoscenico

Davanti alla mole della cattedrale barocca di Santa Maria Assunta, all’ombra del gigantesco tricolore che sventola sull’antenna al centro della piazza, una folla immensa riempie lo sterminato spazio dello Zocalo di Città del Messico. Sono arrivati a migliaia da tutti i quartieri della città, premono sulle vie di accesso, a fatica trattenuti da transenne e agenti in tenuta antisommossa. La piazza che ha visto nei secoli ogni grande tragedia e ogni trionfo effimero nella storia del grande Paese, oggi è testimone della consacrazione della rivolta dei “piccoli” della terra messicana.

Un battesimo laico e una vera festa di popolo accoglie l’arrivo della marcia zapatista partita a febbraio dalle montagne del sud-est. La colonna disarmata dei partigiani e dei contadini ha attraversato in poco più di un mese il sud di una nazione vasta come un continente. Il potere bianco ha tentato più volte di arrestarla, deviarla, annientarla con le armi della politica, con la forza e con l’astuzia delle leggi piegate a favore dei più forti. Tutto invano: la marcia è arrivata fino alla capitale sulle ali di un sostegno popolare che in ogni città e ogni giorno ha riempito le strade di entusiasmo e solidarietà.

Qui, con in piedi ben piantati sulle pietre centenarie dello Zocalo, siamo testimoni dell’ultima sfida del subcomandante. Sul palco allestito in mezzo alla piazza parla il grande ricercato, circondato dai suoi luogotenenti mascherati, dalla guardia dei ragazzi zapatisti. “Da quasi duecento anni cammina questa terra, chiamandosi nazione e casa e patria e storia. Da quasi duecento anni cammina, mietendo il nostro sangue e il nostro dolore, la nostra miseria. Da quasi duecento anni continuiamo a stare fuori dalla casa che abbiamo costruito, che abbiamo liberato, dove viviamo e camminiamo fino alla morte. Noi, che siamo del colore della terra.”

I giornalisti e le telecamere sono assiepati in una specie di recinto alla sinistra del palco. Da lì vorrei chiamarlo, il subcomandante. Con un riflesso infantile vorrei ricordargli le nostre ore alla Realidad, dire: “siamo ancora qui, ti abbiamo seguito fino a qui…”  Mentre la piazza risponde con un boato ad ogni frase del discorso penso invece che Marcos sia tornato a Città del Messico dopo un lungo esilio per ricongiungersi con Rafael Sebastiàn Guillen Vicente, per riconoscersi dopo tanti anni in quel ragazzo - studente e insegnante - che un giorno di trenta anni fa decise di annullare storia e identità per scegliere gli antenati indigeni.

San pedro Chiapasjpg(San Pedro, Chiapas      foto da pixabay)

E’ come se Marcos sia venuto fino a qui per togliersi il passamontagna davanti allo specchio del futuro, e come se questa giornata di precoce primavera rappresenti la vittoria e insieme la sconfitta della causa indigena. I giovani e le donne che si sono uniti alla marcia lasciando i loro campi e le foreste del sud hanno conosciuto nel loro viaggio  un paese estraneo e incomprensibile: con le sue città affannose, le sue spietate periferie, la velocità senza direzione, la modernità senz’anima. In una parola: una grande nazione modellata dalla storia che è passata davanti al Chiapas come un treno che non si ferma: un sogno di luci e di colori appena intravisto nel dormiveglia, prima che l’alba spunti sulle vette della montagna. Forse è per questo che nel momento più alto dell’avventura, Marcos-Rafael Sebastìan trova accenti di tenerezza per i suoi compagni di viaggio: “Salutiamo gli zapatisti, i più piccoli di queste terre.”

E credo che proprio lì, su quella piazza trionfante, il subcomandante abbia cominciato a pensare all’addio. Ma noi siamo semplici testimoni, possiamo solo presumere e immaginare. Per quanto mi riguarda, dovunque si trovi oggi, qualunque cosa faccia, chiunque incontri, come abbia scelto di vivere, di Marcos resta quell’immagine di troppi anni fa: l’uomo che scende dalla collina, che accarezza il collo del suo cavallo, che guarda la selva come volesse abbracciarla. La selva che è tanto più grande di lui e di tutti noi: il comandante nel suo territorio.


*FLAVIO FUSI (Ha imparato il mestiere alla vecchia scuola de L’Unità e per la Rai ha consumato le suole dietro ogni crisi internazionale del Secolo breve e oltre. Non ha mai vinto premi giornalistici e non ha mai ricevuto aumenti ad personam. Ha scritto “Cronache infedeli” - Edizioni Voland - e “Campi di fragole per sempre” - Edizioni Effigi -. Medita e scrive in Maremma)

 

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