Streghe, cibo e calderoni, la festa gemella di sant'Antonio abruzzese

foto e testo di BIANCA DI GIOVANNI*

Forse è la notte delle streghe, o magari quella della luce, del sacro fuoco rigeneratore, della fine dell’inverno, dei raccolti in arrivo, o soltanto una notte di burle insensate in una processione dietro al dio Bacco. Sono molte le tradizioni, le credenze e i riti stratificati nel tempo nella festa di Sant’Antonio Abate (17 gennaio) che si celebra da sempre nella Vallelonga, nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Fuochi, torce, roghi baluginano nell’oscurità delle notti invernali, infestate dagli spiriti della natura: scheletri degli alberi spogli, cime innevate e ombre profonde dei boschi. E poi maschere nere, maschere bianche, pupazze, danze d’amore e di corteggiamenti. Una celebrazione ipnotica e rutilante, immersa in uno scenario gotico. Un carnevale d’inverno illuminato da fuochi notturni. Ma il centro della festa sta nel cibo: in paese si mangia per strada, a qualsiasi ora, insieme agli altri, da giganteschi calderoni, in un sentimento ancestrale di comunità che condivide il pane e il vino.   

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La fede per il santo degli animali è tanto forte tra le popolazioni locali, da superare qualsiasi altro appuntamento annuale: persino i santi protettori dei due paesini – San Leucio per Villavallelonga, il borgo più interno alla valle, e San Rocco a Collelongo, ad appena 4 chilometri di distanza -  impallidiscono rispetto alla festa, misteriosa e sfrenata, per Sant’Antonio. Un rito che si ripete da secoli (secondo alcuni da più di un millennio), e che sembra destinato a non interrompersi in futuro.  

Le feste nei due paesi hanno molte similitudini, ma anche “radicali” e “decisive” differenze, cosicché la distanza tra le due tradizioni diventa irriducibile per i nativi dell’uno o dell’altro borgo. Come tradizione vuole, ogni campanile ha le sue regole. Quest’anno, causa Covid, Collelongo ha organizzato una diffusione streaming per una festa a ranghi ridotti, ma comunque fedele alla tradizione. Anche Villa non si è fatta intimidire dal virus: serve ben altro per cancellare il 17 gennaio.  

La celebrazione in realtà sembra proprio a prova di virus: tutta vissuta per le strade, con incontri all’aria aperta di piccoli gruppi familiari, che si danno il cambio attorno a calderoni fumanti di zuppe di fave (Villa) e di granturco (Collelongo) dislocati per i vicoli. Le “cuttore” (o “cottore”) di Collelongo vengono preparate da alcune famiglie del paese e offerte ai viandanti. Secondo i collelonghesi la tradizione risale al  ‘600 come forma di beneficenza dei ricchi verso chi non poteva mangiare. Così ancora oggi un piatto di “cicerocchi” (il granturco cotto) non si nega a nessuno.  

A Villa  le mense imbandite si chiamano invece “panarde” e secondo quanto affermano i vecchi del paese sono “naturalmente” molto più antiche delle “vicine” cuttore, risalirebbero al Medioevo. La panarda non è solo una zuppa (che pure c’è), ma è una cena completa, in cui il piatto principale sono le fave con le panette e i tradizionali “frascarejii”, una pasta fresca e molle (quasi una polenta) affogata nel sugo di pomodoro. La panarda si tramanda di padre in figlio: chi riceve l’eredità dalla famiglia d’origine deve proseguirla anche da adulto. Così ancora oggi nel paese metà delle famiglie (sempre le stesse) cucinano pranzi e cene, mentre quelli dell’altra metà mangiano, bevono e cantano le litanie popolari da mattina a sera. I pasti collettivi si tengono a tutte le ore e chiunque può partecipare: nativi o “forestieri”.

 A Villa la festa comincia già l’11 gennaio: chi capitasse in paese quel giorno potrebbe vivere per una settimana senza spendere un euro grazie alle panarde sempre accese. Per i bambini, i ragazzi e gli uomini è una festa continua. Per alcune donne è una bella fatica cucinare da mattina a sera. Ma da quelle parti c’è una expertise che supera qualsiasi ostacolo.  

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I vicoli si riempiono di recipienti fumanti, di tavolini con piatti e vivande, riforniti da mattina a notte fonda dall’11 al 17 gennaio. Una famiglia l’anno scorso ha impastato 300 uova e quintali di farina per preparare i “frascareji”, tanto per darvi l’idea delle dimensioni del banchetto collettivo. Per una settimana a Villa i giovani scorrazzano per i vicoli, di banchetto in banchetto, suonando fisarmoniche e tamburelli, cantando la canzone di Sant’Antonio, mascherandosi, facendo scherzi. Ai suonatori che accompagnano le panarde si offre qualche mancia innaffiata dal vino. Insomma, si fa baldoria per 7 giorni consecutivi.

La notte la festa continua, e qui il protagonista è il fuoco. Il pomeriggio del 16 a Collelongo si accendono le “cuttore” e i torcioni, grandi fasci di paglia. La sera parte una processione aperta dai bambini con le tradizionali “tocette”, torce più piccole. Intanto si danza e si balla fino al mattino presto, mentre le donne sfilano con le conche di rame (“conche rescagnate”) in testa. Il giorno dopo, la parte più legata alla religione. A messa si benedicono gli animali, e un sacerdote gira per il paese a benedire le stalle.

A Villa, dopo sei giorni e sei notti di continue danze, canzoni e mangiate, il 16 ragazzi e ragazze sfilano con abiti tradizionali e con cesti addobbati, con gli animali e con i frutti della natura. Intanto un fantoccio inizia una danza del corteggiamento (la “S’gnora”). Poi arrivano due gruppi di maschere. “I mmascar brutt” con il volto dipinto di nero che trascinano catene, con le corna e una cipolla in bocca. “I mmascari begi” sono invece vestiti di bianco. Le maschere e i ragazzi rappresentano in piazza i miracoli di S. Antonio. La giornata del 17 gennaio si apre con la cerimonia dei cesti, si portano in chiesa per la benedizione i prodotti della terra.  Il pomeriggio comincia la sfilata allegorica per i vicoli del paese, con le maschere sui carri.d108547f-1d74-4719-b361-b80e506d8051JPG

Quando arrivano in piazza comincia il “ballo delle pupazze”: grandi sagome di cartone che rappresentano donne giganti. Secondo alcuni si tratta delle streghe della foresta, che con l’arrivo della notte vengono messe al rogo con una grande torcia di fuoco. Ma secondo un’altra interpretazione quelle sagome incendiate potrebbero rappresentare i giorni appena passati: l’anno vecchio che se ne va. Sia come sia, Sant’Antonio Abate per i contadini della montagna resta una luce calda e luminosa, un suono e una danza allegra e spaventosa, nel buio e il freddo dell’inverno.


*BIANCA DI GIOVANNI (Ha frequentato per 30 anni i Palazzi del potere economico per seguire i numeri della finanza pubblica per l’Unita’. Oggi si dedica alla natura estrema e incontaminata e alla lotta al riscaldamento climatico seguendo un progetto di sviluppo sostenibile su arte e natura nell’Abruzzo interno, Regione in cui è nata)


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