Shangri-La del Kerala, fra piantagioni di thè e sciarpine colorate

di MANUELA CASSARA' e GIANNI VIVIANI 

Munnar, dove si dimostra che produrre in modo umano, solidale e sostenibile, è possibile. Le vie del thè possono essere infinite, come vedremo. E anche le vie per arrivarci, a Munnar; stazione di montagna ai tempi del Raj, oggi convertita in migliaia di ettari di piantagioni di thè. Ci si poteva arrivare da Cochin, ma noi avevamo scelto di farlo dalle Backwaters, che poi sono una tappa d’obbligo, quando vai in Kerala.

Backwatersjpg

(Backwaters             foto di Gianni Viviani)

Centocinquanta chilometri scarsi in ambedue i casi. Google Maps, sempre ottimista, indicava quattro ore e mezza di percorrenza.  Che sarebbero diventate sei, anzi se non sbaglio addirittura otto, dati i detour: una sosta per mangiare, perché quella non ce la facevamo mai mancare, contando sulle dritte del driver che selezionava posti adeguati al nostro palato di occidentali; alcuni stop, e tanti, per compiacere il fotografo… guai a dirgli di “no”, se no metteva il broncio; uno, più lungo, per comprare a scatola chiusa dei puzzolenti prodotti ayurvedici in una piccola farmacia polverosa. Promettevano miracoli, ne avevamo fatto incetta, ma posso mettere agli atti che, passato il primo mese di applicazioni entusiaste, poiché miracoli zero, erano rimasti ad ammuffire in un cassetto.  Il paesaggio era affascinante: una giungla di palme, piante e coltivazioni di spezie affiancava una strada stranamente priva di buche, che sembrava asfaltata di fresco, pulita, persino asettica.

Foglie di lotojpg

(Foglie di loto      foto di Gianni Viviani)

Il Kerala, opinione personale tutta da verificare è, a mio avviso, la Svizzera Indiana, con un tenore di vita più alto che in altri stati, con un’alfabetizzazione diffusa e un benessere più che evidente. Noi ne attribuivano la causa ai numerosi simboli di Falce e Martello visti durante il percorso, specie nelle Backwater; cosa che aveva suscitato una certa orgogliosa soddisfazione nel nostro piccolo gruppo sinistrorso. Dal caldo appiccicoso della pianura eravamo arrivati, con sollievo, a 1500 metri di quota: man mano che si saliva l'aria si era rinfrescata, la luce si era fatta limpida, i contorni del paesaggio più nitidi e vivaci. A perdita d’occhio la vista spaziava su un mondo rigogliosamente e splendidamente verde, le piantagioni si susseguivano con il loro aspetto squamato, quasi un enorme rettile si fosse sdraiato su quelle colline. Per facilitare la raccolta, ogni cespuglio era separato dal suo omologo da un vialetto e l’insieme era potato e curato a perfezione.

Il Partito localejpg

(Il partito locale      foto di Gianni Viviani)

I primi a scoprire la zona erano stati, come sempre in India, gli Inglesi. Un inglese, per la precisione: John Daniel Munro, inviato nel 1867 per porre fine a una rivolta tra due statarelli adiacenti, quello di Travancore e quello di Munnar. Munro che, poiché inglese, sospetto fosse un abituale bevitore del fragrante infuso, aveva riconosciuto in quest’angolo remoto l’habitat ideale e potenziale anche per altre coltivazioni, caffè, cardamomo, tutte in seguito abbandonate per concentrarsi sul thè, molto più redditizio. Ci sarebbero voluti quarant’anni di traversie e alcuni passaggi di mano per arrivare alla Finlay Muir &Co, una trading company ramificata sul territorio, che ne aveva delegato la gestione alla Kennan Devan Hills Produce Company. Questo fino al 1964, anno  in cui subentrò, con una joint venture, la Tata Motors.

le colline di Munnarjpg

(Le colline di Munnar     foto di Gianni Viviani)

Per decenni produttore, in regime di monopolio, di un unico modello di macchina autarchica che costava pochissimo, il gruppo Tata aveva le mani in pasta in qualsiasi attività redditizia nel continente Indiano. Se l’approccio vi ricorda per caso la nostra Fiat, direi che ci avete visto giusto. Oggi Tata è più forte che mai, la sua offerta si è ampliata a camion, autobus, pick-up e una serie di eleganti berline che nulla hanno da invidiare per varietà e design alle loro colleghe coreane o giapponesi. Nulla, se non il prezzo. Costano la metà.  Tornando al thè, tredici anni dopo la Tata rileva, dalla Finlay, la totalità della società, incorporando la Kennan Devan Hills. Tutto procede per il meglio per una trentina di altri anni, fino al 2005 quando, con il business in picchiata, la Tata Tea Ltd decide di liberarsene per concentrarsi in attività più redditizie. Suona familiare?

tornando a casajpg

(Tornando a casa      foto di Gianni Viviani)

Ma qui la storia prende un altro risvolto. Tata “magnanimamente” offre ai lavoratori un’opportunità: quella di subentrare e rilevare l’attività con un WBO (workers buy out). Nasce la Kanan Devan Hills Plantations Company Private Limited (KDHP): il 99,9% delle azioni passa nelle mani dei 12.000 addetti e con esse il controllo decisionale e produttivo dei 24.000 ettari e della produzione di 21 milioni di kg di thè l’anno. Il risultato è questa comunità atipica per l'India, ma non solo per l'India. Che ci ha sorpreso, sedotto e affascinato.  Una specie d’idilliaca Shangri-La linda e ordinata, dove le singole casette colorate hanno delicate tinte pastello, ognuna con il suo piccolo, curatissimo giardinetto fiorito e il suo orticello; un villaggio dove non si trova una cartaccia per terra, che sembra sempre spazzato di fresco perché probabilmente lo è.  Già negli anni ‘20, quando ancora sotto la Finlay Muir & Co, questa piccola comunità di povera gente, vessata da un lavoro faticoso e sottopagato, vantava una clinica, una ferrovia, una funivia, un dispensario, una scuola... tutto creato e messo a disposizione dall'azienda, per tutelare e rendere autosufficiente quest’avamposto tra le nuvole, L’intento della neonata KDHP, stando al piccolo dépliant che ci avevano fornito all’entrata, era quello di creare un habitat lavorativo che fosse innovativo, produttivo e salubre per migliorare “la qualità e la produttività in ogni settore ,con il comune beneficio di tutti i partecipanti; coinvolgere tutti gli impiegati nel processo decisionale per mantenere alto il livello di interesse e partecipazione; sostenere l’importanza del ruolo del singolo per il proprio bene e  quello dell’impresa; soddisfare al bisogno di auto-realizzazione dei lavoratori”.

La raccoltajpg

(La raccolta        foto di Gianni Viviani)

La comunità, nel frattempo, si è organizzata per attirare i turisti, soprattutto indiani, ma anche qualche straniero curioso come noi. C‘è un piccolo Museo con cimeli, filmati, macchinari, spaccati di vita e di coraggio, c’è il Chai Bazaar, un negozio dove assaggiare e comprare i vari “giardini”, c’è il Natural Extract, un centro dove si estraggono piante aromatiche e medicinali.  E poi c’è Srishti, che definisce un centro di assistenza, con l’intento di dare un presente agli adulti e un futuro ai bambini diversamente abili, indirizzandoli verso l’auto sufficienza e la dignità di un’esistenza autonoma.

Rush hour jpg

(Rush hour       foto di Gianni Viviani)

Srishti comprende D.A.R.E  (Development Activities in Rehabilitations), un percorso di riabilitazione per i più piccoli con problemi di salute mentale o fisica e due piccole strutture produttive: Athulya Wealth from Waste, una fabbrica dove si rigenerano gli scarti della carta, che rinascono sotto forma di carta da regalo, biglietti augurali, oggetti in papier mache. Una piccola produzione realizzata con gusto, utilizzando solo prodotti naturali, nelle diverse fasi del riciclo, per aggiungere colore o texture alla materia e agli oggetti. L’altra attività, dati i miei trascorsi nella moda, mi ha sorpreso ed entusiasmato. Aranaya, che tradotto significa Foresta, produce sciarpe, saree, pashmine e sarong, stampati con antiche tecniche batik, sempre nel rispetto della natura. A partire dai meravigliosi colori naturali: dal blu estratto dalla pianta dell’indaco al rosso della coccinella porpora, dal verde dell’eucalipto al giallo della radice di curcuma: tinte mischiate con sapienza per creare nuove alchimie di sfumature, poi stampate su delicate trame in seta, cotone e lino, tessute con grazia, da mani sapienti e pazienti. Il nostro gruppetto ne aveva fatto incetta. E le mie sciarpine, al contrario di quelle creme ayurvediche  rimaste ad ammuffire  nei cassetti, ogni volta che le indosso riescono ancora a meravigliarmi e commuovermi,  ricordando quelle vite trasformate dall’impegno e dalla solidarietà.

Flora e faunajpg

(Flora e fauna     foto di Gianni Viviani)

Non voglio essere troppo ingenua, immagino che qualche scheletro nell’armadio da qualche parte ci sarà, ma date le condizioni lavorative altrove, in India, è sicuramente un tentativo degno di plauso e di nota. Noi abbiamo avuto l’Ingegner Olivetti.   Loro, in questa piccola  comunità isolata nelle colline del Kerala, ce l’hanno fatta da soli.

*MANUELA CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto) 

*GIANNI VIVIANI (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast ha documentato con i suoi still life i prodotti di molte griffe del Made in Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di Repubblica. La sua passione più recente sono le foto di viaggio)


clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook
clicca qui per rilanciare i nostri racconti su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram

e.... clicca qui per iscriverti alla nostra newsletter