Sardella, la 'nduja di mare che piacque a Eliogabalo

di CARLO PONTORIERI*

Tra i prodotti tipici della Calabria, sicuramente spiccano nell’immaginario ortaggi, formaggi e salumi: la cipolla di Tropea, il caciocavallo silano, la soppressata e soprattutto la ‘Nduja: questo curioso insaccato spalmabile dal nome francese (‘Nduja non è infatti che la primitiva trascrizione fonetica di Andouille) dal gusto piccantissimo ed esplosivo.

Meno conosciuta, ma sicuramente più salutare, per l’assenza di grassi animali e il trionfo di omega 3, è invece la cosiddetta ‘Nduja di mare. Ossia la Sardella.

La Sardella, detta anche caviale dei poveri, nella sua versione originaria è una conserva a base di bianchetti di acciughe o sardine, sale, peperoncino dolce e piccante, e semi di finocchio selvatico, che si prepara da sempre nelle città dello Jonio calabrese come acceleratore del gusto e della sapidità dei cibi. Prende anche il nome di Rosamarina, se si utilizza novellame di triglie, dal colore rosa, costituendone la versione più pregiata. Ottima in aggiunta alla salsa di pomodoro, con i legumi, come ripieno per speciali ciambelle a forma di girella, o anche semplicemente “conzata” con l’aggiunta di olio d’oliva sul pane caldo, appena sfornato.

L’analogia con la ‘Nduja deriva evidentemente dal suo colore rosso vivo e dal carattere speziato e piccante, grazie all’uso di una gran quantità di peperoncino nella preparazione.

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Tuttavia, c’è da dire che questa antichissima ricetta ha subito negli ultimi anni una variazione, derivata dalla recente legislazione a tutela della fauna del Mediterraneo, che ha vietato la pesca dei pesci più piccoli. E se pure la Calabria aveva ottenuto una deroga per questa sua tradizione gastronomica, la deroga è scaduta ormai nel 2010. Oggi così la preparazione della Sardella avviene nelle case spezzettando e impastando pesci più grandi “a norma di legge”, oppure nelle piccole industrie adoperando il pesce ghiaccio, il Neosalanx tangkahkeii, i bianchetti pescati nelle acque tropicali della Cina.

La Sardella così, da specialità locale, si è internazionalizzata, diventando un prodotto “glocal” a tutti gli effetti.

Per le sue origini, gli studiosi locali non hanno mancato di notare una certa somiglianza col Garum, la salsa di pesce amatissima dagli antichi romani, a sua volta considerata matrice della notissima Colatura di alici di Cetara, raffinatezza ormai celebrata dai gourmet di ogni dove.

E qui però la scoperta. Leggendo la Historia Augusta, la raccolta delle biografie degli imperatori romani a partire da Adriano fino a Numeriano, composta da diversi autori nelle età di Diocleziano e Costantino, in quella dedicata a Eliogabalo mi sono imbattuto nella seguente affermazione: Sybariticum missum semper exhibuit ex oleo et garo, quem quo anno Sybaritae reppererunt, et perierunt. (Historia Augusta, Antoninus Heliogabalus 30, 6).

Dunque, nella Historia Augusta si ritrova la descrizione, come specialità di Sibari, di una salsa di pesce, stavolta all'olio: un Garum all’olio, prova a spiegare l’autore, Elio Lampridio. Una specialità molto amata dall'imperatore Eliogabalo (dinastia dei Severi, III secolo d.C.), che la voleva sempre sulla sua tavola e la cui creazione è riportata all'anno in cui la città dello Jonio fu rasa al suolo nella guerra coi Crotoniati, cioè al 510 a. C..

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Ora, è credibile questa storia?

In parte.

In realtà, non appare improbabile che attraverso il ricordo della predilezione di quest’imperatore per una salsa di pesce di Sibari (e chissà quali spezie si usavano allora per profumarla), l’autore volesse completare il ritratto “sibaritico” di Eliogabalo: imperatore descritto come un dandy ante litteram, vestito sempre di preziosissima seta, che si faceva trasportare nei giardini imperiali su un cocchio trainato da quattro bellissime schiave nude, dedito ad ogni sfrenatezza e ogni piacere anche sessuale. In questo contesto il richiamo a Sibari e alla sua distruzione, contemporanea alla creazione della specialità di pesce da lui prediletta, serve a completare il quadro di un imperatore eccentrico e tirannico, destinato, come la viziosa città della sua salsa preferita, a una fine disastrosa, secondo i cliché storiografici dell’epoca.

Del resto Sibari, rifondata come colonia panellenica col nome di Thurii, era ormai da secoli romana col nome di Copia: se l’intenzione fosse stata quella di fornire al lettore solo l’indicazione geografica dell’origine della salsina non avrebbe avuto senso indicarla come proveniente da Sibari, toponimo ormai in disuso. Sembra perciò più verosimile che, ieri come oggi, il prodotto fosse tipico della zona, magari più in generale della Calabria jonica (oggi soprattutto dell’Alto Jonio cosentino e del Crotonese); anche se Elio Lampridio va forse preso sul serio quando ne riporta la creazione all’epoca della Magna Grecia, età di massima fioritura della civiltà dello Jonio e soprattutto d’importazione dell’ulivo nel Bruttium, come gli antichi romani chiamavano la Calabria.

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(Le rose di Eliogabalo, di Lawrence Alma-Tadema)  


In ogni caso, grazie al racconto della Historia Augusta, possiamo dire che già nel III secolo d.C.  trionfava sulla tavola di un imperatore romano una salsa di pesce calabrese, simile al Garum ma diversa dal Garum, poiché accompagnata dall’olio d’oliva, che possiamo immaginare come l’antenata dell’attuale Sardella.

Tuttavia, si dovrà aspettare il ritorno di Cristoforo Colombo dalle Americhe affinché arrivasse anche in Calabria il peperoncino, e così potesse nascere la formulazione definitiva della ricetta di questa “’Nduja di mare”, come la conosciamo noi oggi.


*CARLO PONTORIERI (Insegna diritto romano all’Università della Calabria, ma è convinto di capirne anche di musica, vino, politica e soprattutto pallone. Ha pubblicato altre cose qua e là)

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