Roma, paura e dolore nella parrocchia degli ucraini: "Non pensavamo che Putin avrebbe invaso davvero"

di ANNA DI LELLIO*

“Ma c’è la messa tutti i giorni qui? Ci sono tanti devoti?” chiede la giornalista ad un gruppo di donne appena uscite dalla chiesa dei Santi Sergio e Bacco, parrocchia degli ucraini a Piazza Santa Maria del Monte. “No, ma oggi è giovedì e noi siamo libere dal lavoro,” risponde una di loro. In questo primo giorno dell’invasione Russia dell’Ucraina, ho appena finito di fare due chiacchiere con lei e la sua amica, chiacchiere innaffiate da lagrime che non hanno risparmiato neanche me.

Non conosco l’Ucraina, ma conosco bene il Kosovo. Putin, come Milosevic, ha chiamato suo un territorio abitato da altri,  invocando il fantasma di una storia antica distorta e manipolata: l’Ucraina ribattezzata  Piccola Russia, il Kosovo riportato ai tempi della Vecchia Serbia. Putin, come Milosevic, ha negato l’esistenza di altri popoli: non ci sono Ucraini, ci sono solo piccolo russi, grandi russi e russi bianchi, come non esistono gli Albanesi fuori dell’Albania. Conosco bene cosa è successo in Kosovo a seguito di questo tipo di retorica politica. Se penso all’Ucraina, non posso che piangere con gli ucraini, e in modo particolare le donne. Mi allontano prima di rivelare i miei timori a queste donne. 


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Con la coda dell’occhio, vedo che la giornalista si presenta per fare le sue domande su come vivono la situazione in Ucraina e la vedo anche appoggiare la mano sulla spalla della donna che pare più scossa. L' emozione è palpabile sia in chiesa che fuori, dove periodicamente si riversano dei fedeli, per lo più donne, per rispondere al telefono prima di rientrare a seguire il rito religioso, che sembra interminabile. La chiesa è Cattolica, ma di rito bizantino, quindi si canta in ucraino, con il sacerdote che volge le spalle alla gente, tutta rigorosamente in piedi, e la liturgia può durare ore. In questa situazione di emergenza, nessuno si fa dei problemi a uscire ed entrare, interrompendo l’incantamento della recitazione cantata, che si avvale di un bel coro, anche se però cantano tutti. 

“Sono del Donbass, e dopo otto anni pensavo che oramai fosse finita, e invece… sono dovunque adesso,” dice piangendo la prima donna che incontro, senza neanche nominarli, i russi. “Io invece sono di un paese vicino al confine con la Polonia,” dice l’altra. Non piange, ma gli occhi che le vedo comparire sopra la mascherina sono di una immensa tristezza. Si intromette la prima, “Hanno bombardato perfino l’aeroporto internazionale Ivano-Frankivsk!” Capisco dov’è questo aeroporto solo quando torno a casa e lo trovo su una mappa, nell’angolo più a occidente dell’Ucraina, che tocca la Romania, l’Ungheria, la Slovakia e la Polonia.

La donna del Donbass ha appena spento il telefonino. Suo marito è lì, “meno male mia figlia è a Odessa.” C’è una cacofonia di voci intorno a noi, facili da captare perchè lo spazio antistante la chiesa è piccolo ed affollato. Sento una donna più giovane, calma ma con la voce sempre più rotta dalla commozione, che racconta a qualche altro intervistatore che sua madre è in Ucraina mentre parte della famiglia è in Russia. Si parlano tutti tra di loro ma lei non capisce cosa stia succedendo perchè le informazioni sono diametralmente opposte.


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Per il telegiornale di non so quale rete un giornalista intervista un sacerdote della parrocchia, che sgrana numeri – quanti sono gli ucraini in Italia (250 mila), quanti i cattolici (140 mila), quante le comunità (161) – e spiega che come chiesa, anzi esarcato, tiene a dire, il loro “primo compito è di dare un sostegno spirituale agli ucraini che sono qui, ma pensiamo anche ad aiuti concreti.”  Non so quali aiuti concreti stiano organizzando. L’impressione è di una chiesa povera, e la raccolta alimentare di zucchero e biscotti che si trova all’ingresso non sembra dover andare a sfamare gli ucraini in guerra quanto piuttosto quelli di qui. Il giornalista gli chiede cosa si aspetta dalla comunità internazionale ma la risposta è di prammatica come la domanda. 

In queste giornate di parole sulle responsabilità della NATO, sulla inscrutabilità della  mente di Putin, sulle sanzioni più  efficaci e sulla crisi energetica, si è perso davvero di vista cosa significhi quest’aggressione per la gente, lì e qui. “Ho quattro figli, due maschi e due femmine, hanno tutti lasciato i loro appartamenti agli ultimi piani e ora sono negli scantinati,” dice incredula la donna che pensava, come i figli, che Putin non avrebbe attaccato l’ovest, che non avrebbe osato avvicinarsi tanto alla Polonia. “Credevamo che lo dicesse ma poi alla fine non lo facesse. Uno dei miei figli sta cercando di andarsene, ha un bambino di quattro mesi. Ma è rimasto bloccato nel traffico perchè tutti scappano.” 

All’improvviso, cambiando tono e discorso, la donna sbotta, “Mio fratello è morto ieri.” “Come? Sotto le bombe?” “No, era andato in piscina, si è accasciato ed è morto d’infarto.” Piange perchè al fratello non hanno fatto i funerali, “non potevano uscire di casa.” Anche questa è la guerra. Si muore anche di stress, o di mancanza di cure se malati, e ai parenti non è permesso il lutto. Dopo aver menzionato il fratello, si alza un po’ i pantaloni per mostrarmi le caviglie devastate dalle vene varicose. “Non posso più andare a casa a farmi curare e qui ho fatto domanda per avere tutte le carte in regola e dunque la questura mi ha trattenuto tutti i documenti. Ma ancora non  ho ancora il tesserino sanitario e non posso andare all’ospedale.”

*ANNA DI LELLIO  (Sono Aquilana di nascita, ma mi sento più a casa a New York, Roma, e Pristina. Un po' accademica, un po' burocrate internazionale, e un po' giornalista. Ovviamente ho lavorato per l’Unità. Tra le mie grandi passioni giovanili c’erano lo sci, la lettura, i viaggi, il cinema e la politica. A parte lo sci, sostituito dallo yoga, le mie passioni attuali sono rimaste le stesse)

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