Riviera dei cedri, ovvero la Calabria e il Mondo nuovo - il fotoracconto

di TINA PANE*

La Calabria, o almeno quella piccola porzione che conosco e ho frequentato, resta per me una ferita aperta, che sanguina ogni volta che con una scusa ci ritorno. A febbraio, giusto prima del lockdown, fu per svuotare e mettere in vendita la casetta di mio padre

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 e ora, a luglio, per passare pochi giorni di vacanza insieme a un’amica expat che ogni estate torna qui, anche lei nella sua casetta, per asciugarsi l’anima e il corpo dal pervasivo freddo della capitale dell’Europa.

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Perché per molti napoletani la Calabria inizia e finisce sulla parte settentrionale della costa tirrenica cosentina ed è ben sintetizzata dalla proprietà di una casetta in un parco di abusivismo edilizio situato a monte della linea ferroviaria e della Statale 18. Questo pezzo di Calabria è il più vicino alla Campania, ma non il più facilmente raggiungibile perché d’estate percorrere la Statale 18 - dopo aver lasciato l’autostrada a Lagonegro Nord e aver percorso la bellissima Fondovalle del Noce - può equivalere a tentare di attraversare con l’auto un mercatino rionale: ci vogliono ore.

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Qui, sulla cosiddetta Riviera dei Cedri, 80 chilometri di costa da Tortora a Paola, 

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 a partire dagli anni ‘70 c’è stata una colata ininterrotta di cemento, e brutti agglomerati di case e di villette, a volte proprio di edifici condominiali a 4 o a 5 piani, sono sorti veloci lungo questa magnifica costa che alterna chilometri di spiagge larghissime a piccole baie, a improvvise fioriture di scogli o a grandi falesie,

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a isolette che spezzano l’orizzonte e localizzano una foto. È un territorio che è stato violentato ma che ti sbatte in faccia la sua bellezza anche adesso che la corsa al mattone si è fermata e che le poche attività delle imprese edili si limitano a manutenere quello che essendo stato costruito anche più di 40 anni fa comincia a decadere.

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Qui i napoletani (e la provincia) che aspiravano a una seconda casa al mare che nelle isole del Golfo, in Costiera o nella borbonica Gaeta non si sarebbero potuti mai permettere, sono sbarcati da conquistatori poveri, e con qualche milione di lire d’anticipo e un mutuo ventennale hanno coronato il sogno. Si respirava un’aria di soddisfazione e orgoglio, ancora negli anni ‘80 e ‘90 quando le famiglie si trasferivano per l’estate e si curavano i 15 metri quadri davanti casa con la fierezza di provetti giardinieri, riuscendo a far entrare in quello spazio angusto anche il tavolo e le sedie, il piatto doccia, lo stendino, la sdraio e naturalmente il kit con la brace a carbonella.

Si faceva amicizia coi vicini

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 talvolta si litigava per i rumori molesti o il posto auto, si scendeva al mare come dei vucumprà, armati di ombrellone, sediolina pieghevole e thermos, perché lì, a poche centinaia di metri da casa, attraversando inevitabilmente un sottopasso ferroviario0

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 c’era una ricchezza mai vista: la spiaggia libera. All’epoca i lidi erano pochi, spesso collegati agli alberghi, e a nessuno veniva in mente di pagare per la comodità di un posto già attrezzato. 

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All’ora di pranzo si risaliva a casa per mangiare e riposare, e poi di pomeriggio la spiaggia si rianimava, soprattutto di giovani, che erano gli ultimi ad andar via, dopo il tramonto, portandosi con se le chiavi della giornata, i sogni confidati alla chitarra, l’attesa della serata a passeggiare avanti e indietro solo per scambiarsi segnali con lo sguardo che si chiamavano fittiate.

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Tutt’intorno, a pochi chilometri nell’entroterra, c’erano paesini sconosciuti, piccoli e grandi corsi d’acqua e la frescura dei boschi e dell’odorosa macchia mediterranea, ma non s’andava quasi mai in esplorazione, se proprio si doveva perdere un giorno di mare al massimo si faceva una gita sulla Sila e si tornava carichi di soppressate piccanti, sottoli e pasta al peperoncino, di liquore al cedro e alla liquerizia, da tenere in freezer e offrire agli ospiti di sera. Dei cedri non si sapeva nulla e mai nessuno dei miei conoscenti e parenti mi ha raccontato di aver visto i rabbini che vengono a sceglierli ogni estate, perché i cedri qui sono speciali, la più pregiata delle cultivar da comprare per i riti ebraici del Sukkot.

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Poi gli anni e le generazioni sono passati e sono passate di mano le case, dai genitori ai figli, oppure vendute a terzi perché la distanza non le rendeva fruibili per i weekend e perché nel frattempo il concetto di vacanza era cambiato, dalla villeggiatura mensile si era passati alle settimane in villaggio turistico con animazione (e anche qui la Calabria ne avrebbe da raccontare, ma sul versante jonico, però) e il mondo un po’ alla volta si era fatto più vicino, più piccolo. E allora non era più un vanto dire “Ho la casa in Calabria, che bello il mare lì” se ad aprile si era stati una settimana a Sharm el-Sheikh e a giugno si erano portati i figli a Disneyland Paris.

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Le seconde case, distribuite sui ventidue comuni della Riviera dei Cedri, sono diventate improvvisamente troppe, i prezzi sono crollati, la Calabria ha perso il suo appeal.

Eppure qui, in mezzo a tanto scempio e a tanta sciatteria (non solo edilizia) la bellezza insiste a sopravvivere. I paesini dell’entroterra hanno iniziato timide politiche di valorizzazione, sui fiumi si fanno anche attività sportive, nei boschi non solo picnic ma anche percorsi, trekking, birdwaching. Nei mercati del sabato ancora si incontrano veri contadini, che vendono fiori di zucca, fichi, percoche e le strane pere-mele: Assaggiale, signora, senti quanto sono dolci.

Ma bisogna mettersi in ascolto, bisogna superare i pregiudizi, trasformarsi da villeggianti predoni in turisti consapevoli. Scalea, che per anni è stata citata come l’esempio più obbrobrioso della cementificazione, ha un centro storico assolutamente da visitare dai ruderi di Cirella nelle giornate buone si vede non solo l’omonimo isolotto ma tutto il golfo di Policastro,

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 a Diamante rinnovano ogni anno da quasi 40 anni i murales e si sono inventati il festival del peperoncino,

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 a Belvedere sono maestri di gelati e granite preparate con tutti i frutti esistenti,

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 Orsomarso dà il nome a una catena montuosa che ha una vetta che sfiora i 2000 metri di altezza.

Tornando in questa zona dopo anni e dopo il Covid, con la coscienza sporca per averla sempre sottovalutata e mal fruita, mi è balzata in faccia la Calabria di quand’ero ragazza, con le sue spiagge deserte, i lungomare silenziosi di passi e di ritrovi anche la sera,

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 i piccoli parcheggi vuoti ai lati della strada dove lasciare l’auto e scendere su calette senza nome di sabbia chiara, invase di poseidonia. Ho ritrovato quel mare avvolgente e subito profondo che però diventa cattivo e infido con le mareggiate, quando chi prova a fare il bagno riesce anche a superare le prime onde ma poi fatica molto a riguadagnarela riva.

Ho applicato anche qui la filosofia del camminare e percorrendo a piedi per la prima volta la via Poseidone ho scoperto che tra Diamante e Punta Santa Litterata,

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 sotto i piloni della Statale 18, c’è un mondo di vegetazione odorosa, di panorami non visti dall’auto, di insenature e naturalmente di seconde case, raggruppate entro parchi dai nomi evocativi: Paradiso, Aurora, Mondo Nuovo.

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Ecco cosa potrebbe diventare questa parte di Calabria, un mondo nuovo, una terra finalmente da esplorare. E rispettare.


* TINA PANE (Napoli, 1962. Una laurea, un tesserino da pubblicista e un esodo incentivato da un lavoro per caso durato 30 anni. Ora libera: di camminare, fotografare, programmare viaggi anche brevissimi e vicini, scrivere di cose belle e di memorie)

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