Ricordi la nebbia? Era persistente in Val padana

 di MARCO BRANDO*

In questi giorni a Milano e dintorni si sta favoleggiando sul ritorno della nebbia nella Val padana. La circostanza mi fa tenerezza: coloro che lo sostengono sono smemorati oppure, beati loro…, piuttosto giovani. Era ben altra cosa il nebiün che ho conosciuto io a metà degli anni Settanta, quando lasciai la mia limpida Liguria per trasferirmi a Pavia, dove ero iscritto all'università. Quello di allora era così coriaceo da impedire di vedere ciò che c'era a 3 o 4 metri di distanza, tanto più di notte. È ben descritto dal piemontese di pianura Paolo Conte, nella sua canzone "La fisarmonica di Stradella" (ascoltatela qui: https://youtu.be/f1E-QVIeMSI), scritta nel 1974: “Cos'è la pianura padana / dalle sei in avanti, / una nebbia che sembra / di essere dentro a un bicchiere / di acqua e anice eh già / l'ha detto anche oggi la radio ed è vero...". Oggi invece la scighera (così si chiama in milanese) è un velo timido che permette di allungare lo sguardo per mezzo chilometro; è il fantasma traslucido di se stessa, resa sempre più evanescente dalle temperature medie salite di almeno 5 o 6 gradi rispetto agli anni Settanta. 

In effetti devo dare ragione a Conte: quando ero bimbo la radio, da ottobre a marzo, gracchiava sempre "Prevista nebbia in Val Padana" (mio padre Pietro era un fanatico delle previsioni del tempo). Nel 1978 qualcuno ipotizzò persino di buttare giù un pezzo di Appennino ligure, intorno al passo del Turchino, in modo da spazzarla via creando una corrente d’aria (per fortuna lasciarono perdere). Quindi per me l'associazione "Lombardia = nebbia" era automatica. Inoltre a Spezia, la mia città, quando la gente diceva "Belin, oggi c'è foschia” esprimeva il massimo di esperienza "nebbiosa": non si vedeva bene l'altro lato del golfo e già ci veniva un po' di claustrofobia.Il ponte coperto di pavia nella nebbia     foto di Roberta mastrettajpg

(Il Ponte coperto di Pavia avvolto dalla nebbia    foto di Roberta Mastretta)

Finché andai a trovare mia sorella Maurizia che studiava a Milano, intorno al 1970. Dunque la prima volta che ho avuto a che fare con lei ero un dodicenne, più o meno. A un certo punto, uscito col treno dalla Val di Taro, verso Parma, mi sorpresi immerso in una luce soffusa: guardai attraverso il finestrino e intravidi un disco appena luminoso in mezzo al grigio e nient'altro, a parte l'ombra sfuggente di qualche albero spoglio. Il nebbione si diradò alle porte di Milano (come sempre, grazie al cemento e all'asfalto che lo respingono un po'); però neanche tanto, spesso la scighera lambiva spavaldamente anche il Duomo, nell’ombelico della città.

Una volta approdato a Pavia, nel novembre del 1976, cominciai a entrare in confidenza con la nebia (ha una sola b in dialetto locale), con gli alberi coperti di infiorescenze di ghiaccio perché l’umidità gelava sui rami (la galaverna, ormai scomparsa a sua volta) e con tre o quattro nevicate all’anno (ora rare, mentre quelle  giovanili mi consentivano di arrotondare, spalando la neve davanti alla case altrui). Il primo impatto col nebbione non fu facile, anche perché avevo pensato di poterla prenderla in giro, di fregarla. Il fatto è che il mio collegio universitario, il Cardano, non aveva la mensa interna, bisognava andare in centro, al Cairoli. La prima volta presi la strada verso la cena mentre la nebbia stava salendo. Pensai: "Conosco ancora poco la città. Però Pavia ha tante torri medievali. Per tornare potrò prenderle come punto di riferimento, devo solo memorizzarle". Al ritorno le torri erano sparite; era sparita pure quasi tutta la strada, con cartelli e indicazioni. Si intravedevano le luci dei lampioni più vicini e basta. Insomma, per rientrare impiegai il triplo del tempo necessario. E ci riuscii solo grazie alle indicazioni di un signore col quale feci quasi un frontale (a piedi), mentre vagavo nel centro storico.

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Di certo, il freddo e la nebbia in salsa padana non erano l'ideale per un ligure abituato alle nuvole o al sole, al bel tempo o alla pioggia (niente neve, in tutta la mia infanzia e adolescenza l'ho vista una sola volta in città, grazie a pochissimi effimeri centimetri). I frequenti mal di testa testimoniavano la mia iniziale inadeguatezza, vagamente mitigata dalla curiosa constatazione che già a novembre i jeans - stesi fuori ad asciugare - si congelavano, trasformandosi in qualcosa di simile a un baccalà. Devo ammettere che un po’ per volta, nonostante svariate crisi di astinenza da mare e sole, cominciai ad apprezzare l'atmosfera intima creata dalla nebbia: quell’atmosfera già descritta (con più efficacia, lo ammetto) dal mantovano Virgilio, un paio di millenni prima della mia Brandeide pavese.

Prima di tutto, capii che il nebbione si forma - anzi, si formava - quando il cielo è sereno, per questioni di pressione e umidità. Quindi a Pavia (e altrove nella Bassa padana, ma cito il luogo in cui vivevo come paradigma) in autunno e inverno il sole spariva per settimane, a meno che non intervenisse il vento (raro): se il cielo era sereno saliva la bruma, che nascondeva tutto sotto un gigantesco piumino; se era nuvoloso, quella caligine lattiginosa si dissolveva quasi del tutto, ma il cielo assumeva un tipico colore plumbeo. Ricordo eternità senza un raggio di sole, a meno che quest’ultimo intorno a mezzogiorno, quando era più vivace, non riuscisse ad avere la meglio per qualche ora. 

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Però devo ammettere che Pavia e la pianura immerse nella nebbia avevano un grande fascino. Certe volte, in città, si condensava prima sul Ticino, il suo fiume, verso sera; poi formava grandi rotoli che man mano emergevano, fino a risalire la discesa di Strada Nuova come un enorme rullo di zucchero filato, che alla fine inglobava tutto e tutti. Era divertente anche osservare, talvolta, automobilisti forestieri alle prese con il nulla che avanzava. Ho visto cose che voi umani “non nebbiosi”…. tipo gente affranta che guidava a passo d’uomo, con la testa surgelata completamente fuori da finestrino; talvolta affiancata da un passeggero, che li aiutava camminando a fianco dell’auto. Qualche volta mi sono offerto di fare loro strada: basta seguire i fanalini rossi della vettura che ci precede (possibilmente guidata da qualcuno di affidabile e sobrio). 

A volte persino io, dopo anni di allenamento alla guida offuscata, mi sono dovuto arrendere: nella prima metà degli anni Ottanta ero presidente provinciale dell’Arci-Uisp e, ogni tanto, dovevo partecipare a riunioni svolte nei circoli e nelle case del popolo, in qualche borgo sperduto nella campagna. Non ricordo esattamente in quale paesino della Lomellina stessi andando quella sera, alla guida della mia vecchia Fiat 128 color verde pisello. Però ricordo che, a un certo punto, non riuscivo a vedere neppure la fine del muso dell’auto, tanto meno l’asfalto e le strisce sulla carreggiata, ancor meno l’immancabile e insidiosa roggia, appena oltre il ciglio della strada. Così raggiunsi in qualche modo il primo centro abitato, Gropello Cairoli, entrai in un bar materializzatosi in mezzo al nulla e telefonai alla casa del popolo di turno (non c'erano ancora i telefonini) per dire che ero stato sconfitto dal nebbione. La riunione si svolse qualche tempo dopo.

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Comunque il nebbione mi ricorda soprattutto, anzi… mi ricorda sempre, il “vecchio” amico e compagno Beppe Pasciutti, di Sartirana Lomellina, piccolo paese nel cuore della grande Valle padana tra fiumi e risaie. Dalle sue parti lei era di casa e ancora oggi sembra trovarsi abbastanza bene, seppur in tono minore. Qual era la frase tipica di Beppe, verso i primi di agosto, nel mezzo dell’afa lombarda? “Non vedo l’ora che venga una bella nebbia per girare  in campagna intabarrato, con il mio cappello e la sciarpa, tra Sartirana e Breme, verso il Po. Marco, ma sai che magia? Chi non ha mai provato non ci può credere”. Lo diceva un po’ in italiano, un po’ in dialetto, per farsi capire meglio, perché in fondo ero e resto in ligure e ci voleva comprensione. Già, lo diceva… il mio amico se ne è andato quasi un anno fa, in un giorno in cui fuori lei c’era. Ora lo immagino lassù, mentre l’aspetta al varco, per giocarci ancora a  nascondino. Caro Beppe, sai che magia… la nostra nebbia.

 
*MARCO BRANDO (Genova 1958, acquario ascendente Gemelli. A Milano da un bel po’, nonni ligurvenetocampani, giornalista dal 1982 - con nostalgia per i quasi 17 anni a l’Unità -, scrittore di saggi dal 2006, padre di Pietro dal 2016, inadatto ai rapporti gerarchici a meno che il capo non sia lui)   

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