RECENSIONE / Baedeker del Quirinale, casa dei Capi senza Stato

di VINCENZO VASILE*

(foto dal Portale storico del Quirinale)


Nella valigia dei “globe trotter” e dentro allo zaino del pellegrino, oltre alle banali mappe turistiche, di solito c’era almeno un libro di storia e di memorie, ricordi e descrizioni di viaggiatori del passato. Chi voglia accompagnare in questi giorni con una lettura non banale il cammino (in salita) della politica verso il Colle, può contare su un denso libro di Marzio Breda: “Capi senza Stato, i presidenti della Grande Crisi italiana”.

Lo si può leggere come un compendio di utili nozioni della storia passata e di quella più attuale, nella chiave delle biografie pubbliche e private dei più recenti ultimi cinque cosiddetti Inquilini del Quirinale. Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella. Vite e ritratti tra i più diversi. Ma accomunati dall’essere i cinque presidenti entrati in quel Palazzo con un profilo solitamente basso e marginale e usciti con connotati politici e culturali, umani e caratteriali, assai differenti rispetto agli esordi e alla vita passata. Fisionomie che all’uscita dal Quirinale apparivano modificate, se non stravolte: in ogni caso evidentemente sottovalutate o quanto meno fraintese dai Grandi elettori durante le grandi e piccole manovre pre-voto quirinalizio, dai giornali e dall’opinione pubblica.


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(Scalfaro a Novara nel 1992)


Memento di cui far tesoro in queste ore di attesa: è consigliabile non sottovalutare le candidature mediane, le sagome fuori fuoco, proprio mentre appare colpita e affondata la barca di chi avrebbe voluto sfidare la prassi di pescare per il Colle dalle seconde file della politica (come erano nella Dc Cossiga e Scalfaro) o da una generazione politica considerata ormai fuori dai riflettori (come nel caso di Napolitano) o un supertecnico di sperimentate capacità di governo ma politicamente inclassificabile (come fu per Ciampi). A proposito: sembra oggi caduta l’ipotesi di Mario Draghi, pur considerato un  “decisore” estraneo, o lontano sideralmente dalle gerarchie politiche e ritenuto masochisticamente capace di commissariarle.  Circolano in risposta (dopo il veto di Berlusconi) ancora una volta nomi di seconda terza e quarta fila o di “esterni” dall’opaco look politico e mediatico.  

Con Marzio Breda ho condiviso buona parte del viaggio professionale - e direi “intellettuale” - alla scoperta degli altolocati abitanti del Palazzo dei papi, dei re e dei presidenti, e leggendo queste pagine mi vien da ricordare che - per rimanere nella metafora escursionistica - i nostri bagagli erano piuttosto leggeri: perché chi ci aveva professionalmente preceduto aveva scritto poco e male “al seguito” di presidenti taglianastri e avari di esternazioni. E come i geografi dell’antichità che scrivevano sulle mappe che non avevano abbastanza studiato: Hic sunt leones (Qui vivono animali feroci), le rare “firme” che avevano precedentemente violato quelle stanze nella Prima repubblica erano sporadici e azzimati visitatori. Tutt’al più ammessi per presidenziale concessione in cambio di un’intervista, a un pranzo privato al Torrino (per ammirare la vista diretta alla stessa altezza - in linea d’aria da un punto all’altro di Roma - come oggi si fa da un drone del Fontanone del Gianicolo) o sull’aereo della Cai (Compagnia aeronautica italiana, cioè dei “servizi”) in occasione di viaggi di Stato soporiferi quanto solenni.


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(Cossiga con Pertini nel 1985)


Breda ricorda come nel Palazzo più alto delle istituzioni italiane non abbia mai funzionato una vera sala stampa, e ti capitava - aggiungo – assai più spesso che a Roma, di potere scambiare qualche battuta col presidente e con gli stessi consiglieri dello staff fuori da quel portone, in viaggio per le province italiane (ogni fine settimana Scalfaro, anche dieci volte al mese Ciampi, e nei viaggi nelle capitali estere, che Napolitano e Mattarella, anche per risparmiare sul budget, hanno poi di molto diradato).

Non c’era granché nella busta dei ritagli sul Quirinale. Ricordo un dossier sul “caso Benvenuti”: gli attacchi della sinistra in Parlamento al presidente Saragat che si era permesso di esternare in un telegramma i suoi complimenti per un match internazionale vinto dal pugile triestino. Gronchi che in un viaggio negli Usa si era spinto a parlare, ohibò, di politica internazionale. E soltanto cronache giudiziarie e parlamentari, ma non quirinalizie erano disponibili sul “rumore di sciabole” che qualcuno sentì risuonare anche in quei saloni durante i due anni del mandato di Antonio Segni.

Marzio Breda già con il picconatore Cossiga, io a partire dal successivo mandato di Oscar Luigi Scalfaro, dovemmo invece fare corsi accelerati sul tamburo di una quasi quotidiana pioggia di esternazioni indiscrezioni silenzi eloquenti sfoghi privati e rimbalzi di voci smentite correzioni repliche tregue sfuriate e riappacificazioni. Gli esordi sono pudibondi in fotocopia un po’ per tutti i presidenti: figurarsi che a metà mandato di Cossiga va sugli scaffali delle librerie una biografia abbastanza “autorizzata” che lo elogia fin dal titolo per il proverbiale “Gusto della discrezione”. E sappiamo come questa vicenda va a finire. Scalfaro, scelto per fronteggiare la frana istituzionale provocata dalle inchieste su Tangentopoli, annuncia: "sarò il notaio del Parlamento” , sceglie un addetto stampa – Tanino Scelba - che si autodefinisce un “portasilenzi”, e questi chiede senza ottenerla la testa del quirinalista del Corriere, autore del libro che vi stiamo consigliando, dove l’episodio della mancata “purga” è riportato.


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(L'insediamento di Ciampi nel 1999)



Il fatto è che volta per volta in una prima parte dei settennati presidenza della Repubblica e stampa stentano a prendersi le misure, e ci va di mezzo la trasparenza dell’informazione, con guerre e guerricciole tra giornali carta stampata e tv. Ma è giunta l’ora di dire, approfittando del libro di Breda, che una buona parte del profluvio delle esternazioni consegnato agli archivi e addebitate a Scalfaro dalla campagna di stampa che lo aggredisce come debordante presenzialista non appena fronteggia la scalata populista di Berlusconi,  sono il frutto di nostri appostamenti, violazioni di embargo, accerchiamenti insistenti. I giornali ogni giorno ci assillavano: che fa il presidente? Che ne pensano al Quirinale? E noi giravamo la domanda. Nelle statistiche delle dichiarazioni addebitate a Scalfaro da chi lo attacca per eccessivo interventismo figureranno così anche decine di “no comment” e di frasi di circostanza da noi estorte.


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(Napolitano a una mostra sul Correggio nel 1999)


Si capisce che il vestito del “notaio” gli va stretto, frequenta il Parlamento dai tempi della Costituente, gli piacerebbe scambiare chiacchiere informali, ma si trattiene. C’è un momento in cui il vento gira: ed è quel discorso del “non ci sto” che ritroverete nel libro di Marzio. 3 Novembre 1993, Scalfaro è al Quirinale da poco più di un anno e mezzo. Noi quirinalisti siamo avvertiti solo un paio di ore prima e convocati senza tante spiegazioni nel salone dei Corazzieri: nessuno avvisa i tifosi del Napoli, impegnati in una partita di Coppa Uefa (odierna Europa Ligue) programmata in diretta sui canali nazionali, che in contemporanea invece interromperanno le trasmissioni per dare posto a un torrenziale sfogo inaspettato del presidente, che parla a braccio con gli occhi scintillanti di rabbia: “…Io non ci sto … a questo gioco al massacro. Occorre rimanere saldi e sereni poiché prima ci hanno tentato con le bombe, ora con il più vergognoso e infame degli scandali”.  

È la ridda di indiscrezioni e voci sull’uso dei fondi riservati del Sisde quando Scalfaro era ministro dell’Interno a scatenare l’ira del presidente. Ma di che cosa parla esattamente? Con chi ce l’ha quando mette in relazione la campagna calunniosa nei suoi confronti con le bombe delle stragi del ‘93? Nel libro di Marzio c’è una frase che Scalfaro gli regala tanti anni dopo, alla domanda sul perché mai non abbia fatto in diretta tv i nomi dei suoi persecutori e non abbia citato fatti e circostanze come la raccolta  di dossier infamanti raccolti dai corrotti capi del Sisde sul conto dell’amata figlia Marianna. “Avrei dovuto mettermi sullo stesso loro livello?”. La magistratura archivierà le accuse contro Scalfaro. A suo tempo una “gola profonda” mi regalò invece una frase sibillina, ma più precisa riguardo al coacervo eversivo sottostante lo “scandalo”: “… Basterebbe indagare sui telefoni dai quali partono certe rivendicazioni”.  


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(Mattarella all'assemblea generale della Cassazione)


Solo tanti anni dopo avrei letto nelle carte del processo sulla trattativa Stato-mafia una ricostruzione attendibile che giustifica pienamente lo scatto d’ira e le allusioni di Scalfaro in quella drammatica diretta televisiva: proprio da telefoni collocati vicino ad alcune sedi periferiche del Sisde partivano negli anni di avvio del settennato di Scalfaro rivendicazioni di bombe e attentati da parte della sedicente Falange armata, gli stessi ambienti colpiti dall’indagine sui funzionari che si erano arricchiti con i fondi neri del servizio. Detto e sottoscritto dall’ambasciatore Pier Ferdinando Fulci, all’epoca capo del Cesis, organismo di coordinamento tra i diversi apparati riservati.

L’incredibile cantonata presa dai giudici di Palermo in merito al ruolo di presunto pilota di trattative con Cosa nostra attribuito a Scalfaro deriva con ogni evidenza dalla risacca di quell’ondata di fango che fu sollevata vent’anni prima contro la presidenza. La ricostruzione di Breda porta a una rivalutazione di quella battaglia condotta dall’inquilino del Quirinale contro l’accerchiamento di poteri forti e oscuri.



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(Marzio Breda     "Capi senza Stato"      ed. Marsilio    euro 17,10) 


Non aspettatevi dal libro un centone aneddotico o gossip politici e giornalistici, ma soprattutto un atlante concettuale che ruota attorno a una questione paradigmatica nel caso di Scalfaro, poi ripetuta in altre forme anche per gli altri presidenti. Su che basi poggia, se vi poggia, la critica ridondante alle attività e alle caratteristiche esorbitanti dei capi dello Stato? Già il titolo – Capi senza Stato - fa intuire come l’autore propenda per giustificare, nella vaghezza del dettato costituzionale, gli interventi che possono considerarsi fuori misura con i vuoti che il resto delle istituzioni repubblicane aprivano con i loro smottamenti via via attorno al Quirinale. La storia si ripeterà con accuse fibrillazioni istituzionali tregue politiche e ritorni di fiamma.

Al lettore è affidato con queste premesse un giudizio comparativo dei diversi stili e delle differenti condotte presidenziali. Il materiale magmatico di cui si parla riguarda a ben vedere il futuro della nostra Repubblica. Dipenderà dalla scelta del  prossimo presidente se la riflessione su errori e forzature del passato potranno portare a riforme sostanziali che precisino con maggiore nettezza confini rapporti e poteri. A differenza della Prima Repubblica che vide anche dal Quirinale partire qualche input autoritario, finora c’è andata bene.


*VINCENZO VASILE (Nacque da due medici a Palermo sul finire della prima
metà del secolo scorso, ricavandone l’illusione di una indeterminata immortalità. Dopo studi e varie “occupazioni” di sedi universitarie sentendosi respinto dal mondo accademico - forse per avere scritto una tesi di laurea in due volumi di settecento pagine sulla famiglia in Marx ed Engels - intraprese una carriera giornalistica che sarebbe durata 40 anni a L’Ora, all’Unità, al Fatto quotidiano. Ha partecipato per nove anni alla redazione del programma televisivo Blunotte, trovando anche il tempo di scrivere diversi saggi su mafia, trame e Che Guevara e un romanzo breve di genere giallo satirico. Non ricorda più se, da quali e quanti di questi impegni lavorativi sia stato messo alla porta o abbia sbattuto lui la porta. Anche se a questo punto tutto ciò non ha molta importanza)


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