MOSTRE / La Cina che fu, con gli occhi di Cartier Bresson

di GIULIA GIGANTE*

(foto d'apertura © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos   riprodotta dalla mostra del MUDEC) 


Non capita tutti i giorni di poter gettare uno sguardo alla Cina che fu, a un mondo e una cultura così complessi e così diversi che furono quasi completamente cancellati dall’avvento del comunismo. L’occasione – preziosa – ci viene offerta da una mostra di grande interesse  inaugurata alcune settimane fa al MUDEC, il Museo delle culture di Milano, nella cornice post-industriale degli ex-capannoni dell’Ansaldo, in una zona della città che sta diventando sempre più vitale.

Ad aprire uno squarcio sugli ultimi giorni della Cina prima dell’arrivo delle truppe di Mao è lo sguardo empatico di un reporter d’eccezione: Henri Cartier Bresson. L’occhio del fotografo cattura istanti decisivi e immortala una galleria di persone, momenti di vita, abitudini, mestieri e tradizioni – tasselli di una cultura secolare – un attimo prima della loro scomparsa.

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(In Lui Chi Chang, la via dei negozi di antiquariato, la vetrina di un venditore di pennelli . Pechino, dicembre 1948 Vintage gelatin silver print  © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos)


Secondo Henri Cartier Bresson, ogni fotografia è come un racconto di Čechov o Maupassant: contiene un mondo intero e questa è l’impressione del visitatore della mostra che, grazie alle immagini del fotografo, si trova immerso nella realtà della Cina del 1948, ne sente scorrere la vita, ne percepisce le emozioni.

Percorrendo le sale dell’esposizione si viaggia insieme a Cartier Bresson condividendone le scoperte e le emozioni: lo stupore, la pietas, la curiosità, l’empatia. Le sue fotografie, rigorosamente in bianco e nero, raccontano in maniera originale, unendo alla testimonianza puntuale l’intensità di una visione poetica e di una profonda umanità, un mondo che si sta dileguando sotto i suoi occhi.

L’occasione del viaggio in Cina fu un reportage commissionatogli nel novembre 1948 dalla rivista “Life” con l’intento di documentare gli “ultimi giorni di Pechino”. Le due settimane inizialmente previste diventarono dieci mesi durante i quali Cartier Bresson scattò alcune delle sue fotografie più significative, segnando una svolta nella storia del fotogiornalismo per la partecipazione emotiva e la perfezione dell’equilibrio formale.

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(Un cameriere siede alla finestra aperta di una taverna, mentre un “coolie” mangia all’esterno sotto una pergola. Pechino, dicembre 1948 Gelatin silver print, 1957 © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos)


Quando giunge a Pechino, che dal 1928 non era più la capitale del paese, ad attrarlo maggiormente non sono tanto i monumenti (anche se riprende la Città proibita immersa nella nebbia), ma lo scorrere della vita: “osservavo la città in minuscoli frammenti di un centesimo di secondo” e soprattutto le persone catturate nella loro quotidianità, come il singolare personaggio “che accompagna le spose sulla loro portantina”. Ripartito precipitosamente dalla città a causa dell’arrivo, il 15 dicembre, delle truppe comuniste, si reca a Nanchino (che all’epoca era la capitale) di cui documenta la caduta, a Hangzhou, dove studia i pellegrinaggi buddisti e successivamente a Shangai, dove rimane bloccato 4 mesi, per raggiungere infine Hong Kong pochi giorni prima della proclamazione della Repubblica popolare cinese (il 1° ottobre 1949).

Da questa esperienza scaturiscono più di novecento istantanee, di cui circa duecento pubblicate con grande risonanza su “Life” e altre importanti riviste internazionali come “Illustrated” e “Paris Match”.

Nel 1958 Cartier Bresson si reca nuovamente in Cina per un reportage e, anche se si tratta di un’esperienza completamente diversa, in cui non gode più della libertà di dieci anni prima e deve girare accompagnato da una guida ufficiale che lo conduce in luoghi selezionati per mostrargli le realizzazioni della rivoluzione, riesce comunque a sfuggire ai cliché e a cogliere momenti di vita vera e aspetti poco edificanti della vita sotto il regime, come lo sfruttamento lavorativo e l’onnipresenza della propaganda.

Accompagna la mostra, che rimane aperta fino al 3 luglio, un filmato in cui Cartier Bresson spiega la sua concezione della fotografia. Uscendo dal capannone si vive un attimo di straniamento sorprendendosi di non essere nella Cina del secolo scorso.


 

*GIULIA GIGANTE (nata a Napoli, vive attualmente a Bruxelles, ama andare alla ricerca di nuovi mari, venti e conchiglie, di altri modi di vivere e di pensare, di tracce di passati remoti e recenti. Conosce dieci lingue, ma a tutte preferisce il russo ed è convinta, con Dostoevskij, che “la bellezza salverà il mondo”)

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