Louis Malle e Vive le Tour, colori e dolori di Francia

di GINO CERVI*

Quando nel 1962 Louis Malle, poco meno che trentenne, gira il documentario Vive le Tour! è già un regista famoso. A metà anni Cinquanta, ancora studente dell’Institut des Hautes Études Cinématographiques, venne scelto da Jacques Cousteau come assistente alle riprese del documentario Monde de silence (1955), che l’anno dopo vinse la Palma d’oro a Cannes – primo documentario della storia della rassegna a vincere il primo premio – e, nel 1957, l’Oscar nella sezione documentari. Dopo aver lavorato al fianco di Robert Bresson in Un condannato a morte è fuggito (1956), nel 1958 esce il suo primo lungometraggio, Ascensore per il patibolo, con Jeanne Moreau e Maurice Ronet, ma soprattutto con la colonna sonora di Miles Davis. 


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Il film, originale reinterpretazione dei canoni del film noir, è considerato uno dei manifesti della Nouvelle Vague, benché in seguito Malle non si sia mai riconosciuto del tutto nella linea ispiratrice di quel movimento espressivo. Esce nello stesso anno Gli amanti, sempre con una sfolgorante Jeanne Moreau, e del 1960 è la riduzione cinematografica del romanzo di Raymond Queneau Zazie dans le métro. Nello stesso anno in cui Louis Malle registra le riprese del Tour, realizza il suo quarto film, Vita privata, con Brigitte Bardot e Marcello Mastroianni.

In Vive le Tour!, diciotto minuti di suoni e colori per le strade di Francia, i protagonisti non sono i divi dello star system. Sono i corridori del gruppo, tutti insieme, e soprattutto la gente che aspetta il passaggio della corsa. Il film si apre al suono delle bande di paese e con lunghi piani sequenza sugli spettatori: le scolaresche, le suore e i preti; i pic-nic a bordo strada; lo stupore dei bambini al passaggio della carovana pubblicitaria; i motociclisti al seguito della gara che trasportano fotografi e cronisti (se ne vede uno addormentato sul sedile posteriore con le suole delle scarpe che sfiorano l’asfalto); paesi vestiti a festa. La voce narrante fuori campo è quella di Jean Bobet, fratello minore del grande Louison. Jean, che negli anni Cinquanta aveva corso tra i professionisti, e spesso accanto al fratello campione, terminata la carriera agonistica era passato a fare il giornalista per la radio e la televisione.

Durante le scene del rifornimento, le ravitaillement, Bobet spiega modi e tempi per non mancare la musette, momento fondamentale della corsa: una musette perduta può significare la fringale, ovvero la cotta, quando a un corridore che non si è ben alimentato finiscono di colpo le energie, e si apre il baratro del ritardo. Al suono invece di un bal musette vengono inquadrati i corridori che frugano nella borsa, che addentano un panino, che sbucciano coi denti una banana prima di trangugiarla. Commoventi i colori elementari della maglie di sessant’anni fa: il bianco-rosso-grigio della St-Raphaël-Helyett di Anquetil, il giallo-viola della Mercier, il bianco-rosso della Flandria-Faema, il giallo-blu della Peugeot, il bianco-nero della Carpano…



I corridori fanno pipì, a volte senza scendere di sella. Louis Malle li riprende con elegante discrezione. La voce di Bobet spiega la chasse à la canette, ovvero l’assalto ai bar, da parte dei gregari. È la versione transalpina del “Paga Torriani!” al Giro d’Italia. E poi fontane, secchiate d’acqua, fossi e ruscelli.

I primi piani stretti sulle gambe dei corridori, sulle caviglie, sulle cosce. E poi sulle facce durante lo sforzo massimo della fatica. O nelle dichiarazioni a caldo del dopo corsa. Si parla di mal di gambe e di culo, di caffeina. Si passa in sala stampa, al rumore delle macchine per scrivere e delle mille lingue con cui i reporter dettano i loro pezzi alle postazioni telefoniche. Poi gli schianti secchi della cadute. Il groviglio di telai e ruote in mezzo alla strada. Il gruppo “cade come un castello di carte”. C’è un Rik Van Looy, il campione del mondo, seduto per terra, sul ciglio, che si tiene dolorante il gomito e il costato. C’è la via crucis di Giuseppe Zorzi, gregario della Ignis, che si ferma stremato, viene soccorso, rimesso in sella, e poi, dopo il prolungamento di una zig-zagante agonia, stramazza a bordo strada. C’è un corridore della Gazzola, Oreste Magni o Alessandro Primessi, caduto e caricato sull’ambulanza in elicottero.


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Ecco le montagne, senza le quali, dice Bobet, “non esiste il Tour”. Le spinte in salita agli ultimi del gruppo. Le traiettorie incerte degli attardati in discesa. Il minuto finale è un capolavoro di montaggio. I primi piani sempre più stretti sulle facce sfigurate di corridori, le smorfie di fatica, i profili distillati di sudore. E alternato il fotogramma del podio finale, al Parc des Princes, con Anquetil sul gradino più altro, Jozef Planckaert secondo e Raymond Poulidor terzo.

Louis Malle montò il girato di quel Tour de France del 1962 solo tre anni dopo. Ne fece un cortometraggio di 18 minuti. Poche parole di commento, immagini che parlano più di un saggio, di una tesi. Sono passati sessant’anni, è cambiato il mondo, è cambiato il ciclismo. Ma in quei 18 minuti Louis Malle ha fermato l’essenza del Tour.


*GINO CERVI (Classe 1964, la stessa - ma solo in senso anagrafico - di Gianni Bugno. Segue il ciclismo dai tempi delle lacrime di  Michele Dancelli sul palco di Sanremo. Da 35 anni lavora nell’editoria: dizionari, enciclopedie - prima di carta, poi in cd-rom e infine sul web - , manuali scolastici di letteratura, storia e geografia, guide turistiche, storie di sport. Fa abitualmente il "meccanico" dei libri degli altri, ma qualche volta gli è capitato di correre in proprio. Sua miglior stagione il 2019, quando ha scritto un libro su Coppi e uno sul Milan. Va - ma piano - in bicicletta e vorrebbe farlo di più - ma sempre piano)