L'Italia, com'era 6) Milano operaia

di ORESTE PIVETTA*

(accompagnamento musicale di ENRICO TRUFFI)

Sono nato non molti anni dopo la fine della guerra, qualche anno dopo l’avvio del Piano Marshall, che si chiamava, per completezza, European Recovery Program, un po’ come il Recovery Fund o il Recovery Plan dei nostri giorni epidemici. Giusto per ricordarci che la storia, non tutta, qualche volta si ripete.

Sono cresciuto in una via della periferia milanese rivolta a nord, la stessa della Gilda raccontata da Giovanni Testori, di lato al Ponte della Ghisolfa (sul quale volava Coppi quando tra Bergamo e Milano si disputava ancora il Trofeo Baracchi). La vista nei giorni limpidi era sulle montagne vicine, quelle che circondano il lago di Como, e talvolta persino sul Monte Rosa. Come nei disegni di Leonardo. Quando uscivo per la passeggiata, poco lontano da casa, erano soprattutto le fabbriche e gli affascinanti tozzi cilindri dei gasometri il mio paesaggio, come nei quadri di molti pittori, luoghi dell’industria che guardavo con soggezione e con rispetto. Non sospettavo che potessero deturpare l’ambiente e neppure che potessero inquinare. Nessuno avrebbe osato esprimere un pensiero del genere, un pensiero ecologico: quelli erano monumenti che celebravano il progresso, rimesso in corsa grazie alla pace, ai soldi degli americani, allo spirito degli italiani, pronti ancora al sacrificio, ma con la speranza nel cuore, come esprime in una memorabile immagine (una storica fotografia) l’operaio che in tuta cammina lungo una strada deserta e assolata verso casa, la mano destra sul manubrio della bicicletta, la sinistra a stringere quella della moglie, sorridenti entrambi al loro avvenire.


Quanto numerosi, quanto grandi fossero quegli stabilimenti non lo so, un universo industriale a portata di mano, un universo che penetrava la città: tra imprese illustri, nazionali, capannoni semi artigianali, botteghe di poche centinaia di metri quadri, trame di una operosità continua che produceva qualcosa di importante, che costruiva la ricchezza del paese. L’unica grande fabbrica alla mia portata era l’Alfa Romeo del Portello: si producevano le automobili più belle e più veloci d’Italia. Non è rimasto nulla. La produzione si era via via ridotta fino alla zero, l’area si prestava all’edilizia residenziale più qualche aggiunta commerciale, si tentò invano di salvare una palazzina testimonianza di un passato eroico, quando le macchine si facevano a mano o quasi. Niente. Tutto demolito. Sono rimaste alcune sequenze di un film indimenticabile, “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti. I fratelli si ritrovano davanti alle mura di cinta dell’Alfa, durante la pausa di mezzogiorno, uno ha scelto per sé la vita di operaio, l’altro ha imboccato una strada pericolosa: fabbrica e coscienza proletaria contro marginalità e autodistruzione. Storie di immigrati, loro come migliaia d’altri, che fecero la fortuna di Milano “capitale industriale”, oltre che “morale”.

L’ultima memoria  del Portello è una fermata della linea lilla della metropolitana, in corrispondenza di Fiera Milano City, cioè i padiglioni espositivi (uno trasformato nell’ospedale di Bertolaso e della Moratti) rimasti in città, a un passo da Citylife, un altro simbolo della “grandezza” milanese con il centro commerciale, il parco, i tre grattacieli di Alliance, Pwc, Generali, che fanno da contraltare ai tre grattacieli, poco lontani in linea d’aria, di piazza Gae Aulenti, il più alto d’Italia (231 metri) occupato da Unicredit: da una parte e dall’altra la grande finanza che si autocelebra in verticale.  

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(Fonderia Milanese di Acciaio, operaio in un pezzo circolare di una nave    Autore non identificato   1910 ca.   Archivi Alinari)


Dove nascesse il nome del Portello la storia non spiega. La leggenda narra di una “porta” che si apriva in direzione nord-ovest, cioè verso il passo del Sempione, linea di commerci trans europei fin dal Medioevo e prima ancora, troppo importanti forse per un “diminutivo”.

L’altra direzione milanese è il nord-est, lungo la ferrovia, da Greco, dalla Bicocca a Sesto San Giovanni, Sesto rossa, la Stalingrado d’Italia, le grandi immense fabbriche, dalla gomma della Pirelli, al ferro, agli acciai della Falck o della Breda Siderurgica, le fabbriche dei grandi scioperi del ’43 e del ’44. Ciò che fu lo si può solo intuire: ciclopico, infernale, incandescente, un fiume di metalli e di uomini, tute blu e tute bianche, un esercito di uomini che si muoveva secondo i tempi del lavoro, una sirena che scandiva i turni di entrata e uscita, la mensa. Anche di questo è rimasto poco o nulla. Sotto il gigantesco carroponte che fu della Falck si animano feste e concerti. D’altra parte l’Ansaldo (saltiamo a sud-ovest) lo si menziona ancora soltanto per un congresso del Psi di Craxi. All’Ansaldo ero entrato pochi anni dopo la cessazione di qualsiasi attività: regnavano la polvere, il vuoto, il silenzio. Unico segno di vita le figurine appiccicate ad un pilastro, alcune erano strappate in parte, rimaneva Rivera in rossonero. Ero stato, sempre perché qualcuno voleva informarmi di progetti di trasformazione, dentro un’altra acciaieria, la Redaelli di Rogoredo. Ero entrato in uno spogliatoio: gli armadietti erano rimasti aperti, dai ganci pendevano pantaloni e giacche da lavoro, sotto le panche le scarpe, ovunque la polvere e qui e là le impronte, come di una improvvisa fuga. Nessuno aveva fatto in tempo a sistemare tutto, l’uscita era stata precipitosa, come per cancellare con un colpo il passato. La saracinesca era stata abbassata e si dimentica.


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(Casse di Campari Soda nella fabbrica         foto Vincenzo Aragozzini   1950 ca.         Archivio Aragozzini / Archivi Alinari)


 La storia dovrebbe ricordare almeno la rivolta degli operai di Sesto che ebbero la forza di incrociare le braccia di fronte a fascisti e nazisti. Quegli operai chiedevano aumenti di salario, ma si sa che la ragione era un’altra: era politica, contro l’occupazione, contro l’usurpazione di ogni diritto. Molti finirono nei campi di concentramento e di sterminio.

Il declino di quella epopea industriale, tra est e ovest, risale a mezzo secolo fa, anni settanta. L’inizio fu di un secolo prima. Tutto avviene in progress. Negli anni lunghi dell’industrializzazione italiana le date di partenza potrebbero essere tante. Tante tappe che segnano le contraddizioni di un’epoca: modernizzazione, reazione, sfruttamento, repressione, innovazione tecnologica... e i morti in strada, nei cantieri... Tra il 5 e il 9 maggio 1898 il generale Fiorenzo Bava Beccaris mise sotto stato d’assedio Milano, usò fucili e persino cannoni contro i milanesi che protestavano e rivendicavano salari più alti (dopo l’aumento del prezzo del pane). Morirono ottantuno persone, quattrocento e cinquanta rimasero ferite. In un vecchio libro, “Storia della grande industria in Italia”, Rodolfo Morandi, antifascista, socialista, ministro dell’industria nel dopoguerra, descrive, con una ricchissima dotazione di dati, le condizioni di lavoro all’epoca di Bava Beccaris: tredici quattordici ore, talvolta quindici sedici, denutrizione conseguenza della miseria della paga, malattie, infermità. Così nelle filande e nei torcitoi, dove la maggior parte della manovalanza era femminile e in molta parte di bambini-apprendisti. “Primitivismo dell’ambiente industriale italiano”, si intitola un capitolo del saggio di Morandi. “Miserabile come nessun altro lo è, è il suo proletariato industriale. E ciò che è peggio, langue in una ancora più profonda miseria la sua popolazione di campagna – per ogni dove, nella terra dove splendido irraggia il sole, una fosca miseria avvolge la vita sociale”. Così scriveva Werner Sombart, il grande economista e sociologo tedesco, nel 1899, un anno dopo le cannonate di Bava Beccaris.


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Tumulti di Milano del maggio 1898 Militari di Bava Beccaris  davanti al  Duomo    Foto Luca Comerio   maggio 1898     Archivi Alinari)


Da quei giorni, dai caduti di Milano, corre lo sviluppo del paese: ferro incandescente, cotoni e sete, gomma, mattoni, cemento, automobili, gru, motori, navi disegnano con le enormi ricchezze anche il futuro dei diritti dei lavoratori, malgrado Bava Beccaris e il fascismo, con impennate e ricadute, nuove conquiste dopo la Liberazione, nuovi conflitti. Il lavoro e gli ambienti cambiano, non sempre: le condizioni possono restare durissime, ma con le lotte si raggiungono salari più alti, la pulizia e la sicurezza vengono sanciti per contratto, l’automazione può alleviare la fatica. Così per decenni, fino all’anno che segna il traguardo di una battaglia per l’emancipazione: 1970, lo Statuto dei lavoratori, momento centrale di una ventennale stagione delle riforme, che si chiuderà otto anni dopo, con la legge sull’aborto, con la legge 180 sulla chiusura dei manicomi. Poi, dopo la morte di Moro, dopo la fine del patto tra Dc e Pci, dopo la morte di Enrico Berlinguer, comincia l’erosione di quella storia.  Il popolo del lavoro si scompone, tramonta la solidarietà naturale delle tabaccaie di Milano o dei metalmeccanici, la solidarietà di classe. Avanti è il precariato, sono i riders, è la solitudine dello smart working, è Amazon.


*ORESTE PIVETTA (Milanese, laureato in architettura, giornalista professionista, ha lavorato all'Unità come caporedattore, inviato, editorialista. Ha collaborato con numerose riviste, con Radiotre e con Radio Popolare. Ha scritto alcuni libri, tra i quali "Io, venditore di elefanti" (Garzanti, con Pap Khouma), "Candido Nord" (Feltrinelli), "Franco Basaglia. Il dottore dei matti" (Baldini Castoldi). Ama gli sport che pretendono tanta fatica: l'alpinismo, la corsa in montagna, il ciclismo (naturalmente in salita)


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