Lettera a Rasoul, che mi aspetta in Iran

di EMILIO RADICE


Rasoul mi scrive su whatsapp:  “Che Iddio protegga te e la tua famiglia”.  Poi mi chiede: “Quando vieni?”. Eccolo il viaggio che vibra e ti richiama, ecco il futuro itinerario su cui punterò il faro della mia motocicletta. Bushehr, Shiraz, Shahr-e-Babak, Sirijan, Bardsir…. Seguo il percorso con il dito sulla mappa dispiegata davanti a me, lascio la costa del Golfo Persico e scendo a sud est, verso il cuore caldo dell’Iran. Calcolo i giorni e le difficoltà, vado a vedere anche quando cade quest’anno il ramadan. Perché anche se adesso sto fermo, immobilizzato come tutti dalla pandemia del Covid-19, i veri viaggi non iniziano né con il decollo di un aereo né con l’avvio di un motore, ma con l’accendersi di una fantasia.

Rasoul è un uomo di circa quaranta anni e vive a Bam, nella Persia meridionale. Nel terremoto del 2003, che distrusse questa meravigliosa città di fango sul margine del deserto del Lut, perse la madre, il padre e tre fratelli. La sua casa venne rasa al suolo e lui dovette reinventarsi la vita partendo da zero. Nel bel mezzo della carovaniera su cui si svolgono i traffici con il Pakistan e l’India, cioè un tratto della storica Via delle Spezie, lui è un esperto di cotoni e di sete. E’ un commerciante di stoffe e di fili, ora in crisi a causa dell’embargo americano.

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(Barbecue di salmone nei pressi di Jolfa                 foto di Emilio Radice)

Ecco, proprio ora mentre scrivo, il bip dello smartphone mi interrompe per recapitarmi un suo messaggio: “Ciao, come stai? A Dio piacendo, ti stiamo aspettando”. Questa attesa reciproca è incominciata un paio di anni addietro quando, del tutto per caso, ci incontrammo in una stradina dell’estremo Iran settentrionale, fra le pieghe dei monti alle spalle di Jolfa. Tutti e due eravamo stati attratti dal filo di fumo di un barbecue di pesce sulle sponde del lago Saad-e Aras. Un uomo corpulento e simpatico per due soldi cuoceva alla griglia meravigliosi salmoni appena pescati in quell’angolo selvaggio di Azerbaijan iranico.

LA SCHEDA GOOGLE:    L'IRAN

Non avevo fame e andavo di fretta. Dovevo raggiungere il confine per entrare in Armenia, nel prosieguo finale di un viaggio che mi aveva portato fino a Mashaad, città sacra nei pressi dell’Afghanistan. E nell’ immediata prospettiva mettevo nel conto di dover superare due confini difficili, quello iraniano in uscita e poi quello armeno in entrata, ma in una zona militarizzata, poco battuta dal turismo e percorsa da tensioni fortissime, attriti di nazionalismi nemici e frazionamenti territoriali in equilibrio irrisolto. Il Nagorno Karabach, per dirne uno, è lì che ribolle. Allora il viaggiatore ha il dovere di preparare ogni cosa per tempo (carte, documenti, bagaglio), di non ridursi all’ultimo minuto, di controllare ogni dettaglio, di stare attento – per dire -  anche agli sticker incollati sul cupolino della moto, perché basta che ce ne sia uno sgradito a un poliziotto di frontiera per provocare il diniego di un visto. Bisogna informarsi per fare viaggi così, un poco bisogna anche studiare…

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(Iran, il castello di Khorramabad         foto di Emilio Radice)

Ma torniamo a Rasoul e al salmone alla brace. Nonostante la fretta, visto il baracchino mi ero fermato all’istante. La voglia di vivere una esperienza così saporita in un luogo tanto bello e incontaminato era stato più forte della poca fame e di ogni altra considerazione. Sceso dalla motocicletta, dunque, salutai tutti i presenti ricambiato da una sfilza di salam alaikum entusiasti e meravigliati. Venni subito raggiunto da un tè fumante ben zuccherato e dalla curiosità su chi fossi, da dove venissi, su quanti chilometri avessi fatto per arrivare fin lì e sulla mia età. “Ohooo….”. Poi venni fatto accomodare su una piattaforma di legno rivestita di tappeti, protetta dal sole con un tendone.

Rasoul con la sua famiglia, moglie, figlioletto e genitori della moglie, era su un’altra piattaforma. Mi venne a far visita. Il bambino era attratto come tutti i bambini dalla motocicletta. Ce lo misi sopra e gli scattammo alcune foto. Nonostante la mancanza di una lingua in comune ci presentammo, facemmo una sommaria e gentile amicizia. E grazie ad essa seppi pure che stavo su un itinerario sbagliato: di lì a poco sarei arrivato a Maku, verso il confine turco, ma se volevo andare in Armenia dovevo tornare venti chilometri indietro e superare Jolfa in direzione est, verso Khoda Afarin. Lì, più o meno all’altezza di Meghri, avrei trovato il valico di confine. La mia fretta a quel punto diventò quasi irrequietezza, perché non è mai consigliabile farsi cogliere “on the road” sul finire del giorno, tantomeno in zona di confine. Per cui consumai velocemente il saporitissimo salmone con verdure che mi venne portato e tornai presto in sella. Ma con Rasoul tanto era bastato perché ci fosse un filo di unione che non si è più spezzato.

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(Deserto del Kavir, una fonte di acqua salata               foto di Emilio Radice)

A volte ci vuole poco, davvero poco, a creare un legame. A volte è sufficiente un segno o un puro istinto. Ricordo come fosse adesso il fascino di un cartello, illuminato frettolosamente dal faro della moto, molti anni fa: una freccia stradale e la scritta “Alep” fosforescente nella notte. E in un secondo conobbi “la legge del più in là”, della curiosità che si aggancia alla curiosità, del passo che segue il precedente passo. Da allora quando torno da un viaggio porto con me sempre l’intenzione di quello dopo, con la nuova avventura che nasce quasi come continuazione di quella prima, in un intreccio che me la rende dolce e coerente, fin dove non so, eterna incompiuta. 

Ecco dunque che il cantiere del viaggio invernale è un continuo leggere libri, comprare carte geografiche nuove, dare nomi a luoghi prima conosciuti sommariamente, scoprire castelli a Khorramabad, navi nel deserto ad Aralsk, cupole cristiane in abbandono sull’altopiano di Ani, campane buddiste in Kalmukia e suggestivi futuri nella steppa attorno al cosmodromo di Baikonur. E poi, e poi…  Persino la fatica per procurarsi un visto difficile sul passaporto diventa una parte suggestiva di questo “viaggio freddo”: il fatto che per due volte mi sia stato negato l’ingresso in Turkmenistan, ad esempio, continua a tenere Asghabat ai primi posti delle mie future mete.

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(La piazza di Hamadan       foto di Emilio Radice)

Ma per ora, in questi tempi di Covid-19, c’è Rasoul che mi aspetta a Bam e con cui vivo il dolore della mancanza di medicine per curare suo suocero, 68 anni e con problemi di cuore, in un Paese piegato dall’embargo. Anche loro – mi dice – hanno avuto grossi problemi con il virus, ma non così gravi come da noi. Mentre Mohammad da Tehran mi riferisce che il sistema ospedaliero ha retto, anche perché in un regime populista (già: religioso e populista, questo è il regime iraniano) la rete degli ospedali è stata abbasta curata, e Kavhe da Hamadan (l’antichissima Ecbatana, sulla via per Babilonia) mi racconta che lui e il suo gruppo hanno disinfettato tutti i terminali Atm della città, come gesto di mobilitazione popolare.

 Altri uomini e altre donne potrei citare, Zahara, la piccola Milika, il poliziotto Reza… e tutti perché sono frammenti di viaggi passati che continuano a vivere oggi, nell’unico grande tour a cui ho incominciato ad appartenere da quando ho messo le ruote della motocicletta sul primo asfalto e mi sono detto di andare. Poi sul perché farlo in moto, preferendo l’incertezza di un equilibrio alla sicurezza di quattro ruote, molto ci sarebbe da dire e forse lo farò in un capitolo particolare del mio continuo racconto. Ma intanto… abbi fede Rasoul, virus o non virus aspettami, arriverò.


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