La recensione - Everest, una storia lunga cento anni

di CARLA CHELO* 

Sapete che nella spedizione del 1953, quando Edmund Hillary e Tenzing Norgay per primi raggiunsero l'Everest, vetta del mondo, gli organizzatori britannici ospitarono nei locali dell’ambasciata di Kathmandu gli scalatori e riservarono agli sherpa un garage utilizzato fino a poco tempo prima come stalla, senza bagni? E dire che la foto simbolo di quell’impresa mostra Norgay felice con una bandiera in vetta: è uno sherpa il primo uomo ritratto in cima all’Everest. Un’immagine scattata dal neozelandese Hillary, che insieme a lui raggiunse la cima, sotto le bandiere britanniche. Un privilegio - quello di arrampicarsi come partecipante e non più come portatore - che Tenzing aveva conquistato nel precedente tentativo di ascensione, pochi mesi prima, grazie ai meno aristocratici svizzeri.

Ci sono dettagli raccontati in questo bel libro sulla conquista e dello sfruttamento dell’Everest (Stefano Ardito, Everest, una storia lunga 100 anni, Laterza)  che mi hanno colpito più delle stesse straordinarie imprese che da un secolo a questa parte uomini e donne impavidi compiono alle vertiginose altezze che rasentano i nove mila metri d’altezza.

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(Everest   foto di lutz6078 da pixabay. In alto, un disegno di Lucas Grey da pixabay)

Eccone un altro, di dettagli:  nel 1960 anche i cinesi arrivano in vetta. Una spedizione preparata da anni, all’inizio in collaborazione con i russi, portata a termine in autonomia dopo il raffreddamento delle relazioni tra i due paesi. L’impresa però suscita in Occidente più dubbi che approvazione. Ardito racconta lo scetticismo che accoglie il resoconto della spedizione:

"L’articolo di Shi Zhan chun, che viene pubblicato nel 1961 sull’«Alpine Journal», subisce un editing radicale già nel titolo, che da 'La conquista del Monte Jolmo Lungma' diventa 'La conquista del Monte Everest'. Usare il nome cinese potrebbe solo creare confusione, annota Sir Basil Goodfellow, direttore della testata e responsabile degli interventi sul titolo e sul testo. Dopo aver ringraziato Shi Zhan chun per il suo contributo, Sir Basil «chiede il suo perdono se azzardiamo qualche nota critica». Prima di specificare, aggiunge che «notoriamente gli autori nelle democrazie popolari sono soggetti a qualche forma di controllo», e che «i passaggi propagandistici nel testo sono voluti, e la propaganda è sempre sospetta». Tra i motivi che fanno pensare a Goodfellow e all’Alpine Club che l’ascensione cinese possa essere un falso (un’accusa che nell’alpinismo è straordinariamente pesante) sono «le debolezze nella descrizione topografica della parte alta della montagna», gli «spazi vuoti nel racconto» e la «relativa inesperienza degli alpinisti». Dato che i quattro uomini della squadra di punta erano «debilitati dalla mancanza di ossigeno, dalla fame e dalla sete», e che la parte finale dell’ascensione si è svolta nell’oscurità, Sir Basil ricorda con scarsa eleganza che «molte volte al buio anche ottimi alpinisti hanno scambiato un cocuzzolo secondario per una vetta»… Per concludere, Sir Basil Goodfellow si trincera dietro ai dubbi già espressi da «Les Alpes», rivista del Club alpino svizzero, che parla di una relazione «dal carattere politico molto marcato», e di foto che avrebbero potuto essere state «scattate dappertutto sul versante nord dell’Everest, o anche su qualche cima minore nei dintorni». La conclusione dei redattori di «Les Alpes» è che «bisogna chiedersi se non sia giusto mettere un punto interrogativo accanto alla notizia dell’ascensione cinese». Sir Basil, che è evidentemente d’accordo, nel concludere le sue note all’articolo di Shi Zhan chun aggiunge un’acida postilla: «Molte ascensioni non sono state provate, e sono state accettate perché non c’era motivo di metterle in dubbio». «La scoperta sulla cima dell’effigie del signor Mao («MrMao’s» nell’originale) potrebbe dissipare i dubbi».

mount-everest-89590_960_720   pixabayjpg(foto da pixabay)

C’è un’altra piccola-grande storia che riguarda la misura dell’altezza dell’Everest e chiama in causa l’abilità umana. E’ stato un matematico indiano, Radhanath Sikdar, (la cui carica all’interno dell’amministrazione era di Chief computer) nel 1856, in base alle misurazioni effettuate 10 anni prima a oltre 170 chilometri di distanza, a determinare con precisione l’altezza del monte più alto del mondo. Quando in anni non lontani da noi le sue misurazioni sono state messe in dubbio, si è infine dovuto ammettere che con strumenti ai nostri occhi quantomeno limitati i calcoli del matematico indiano erano giusti.

 A proposito del nome: Everest è il cognome del topografo gallese primo direttore del Survey indiano. Ancora una volta la burocrazia anglosassone ha preferito intitolare il monte al direttore dell’ufficio invece che al suo scopritore. Il nome tradizionale della montagna è Jolmo Lungma oggi più comunemente scritto Chomolungma, quello che all’ Alpine Journal preferirono non pubblicare.  

Quando ho letto il titolo del libro di Ardito ho pensato: curioso. Se è una storia dell’Everest, 100 anni sono un periodo troppo breve, se si riferisce alle scalate forse è un po’ troppo pomposo. Ora che ho finito di leggerlo riconosco che Ardito è riuscito a scrivere una storia dello svelamento, della conquista e dello sfruttamento della montagna più alta del mondo raccontando ben più di un elenco di spedizioni.

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(foto di Enkbg da pixabay)

Per me che sono solo innamorata della natura senza essere un’alpinista è stato un bel modo di avvicinarmi ai campioni di questo sport, agli uomini e alle donne che hanno avviato una straordinaria sfida, scoperto nuove vie, aperto passaggi, spostato limiti e capacità umane che si credevano insuperabili. Dalla prima spedizione nel 1921 (che Londra si prepara a festeggiare) seguita da oltre 30 anni di tentativi e tragedie (la più nota riguarda gli scalatori Mallory e Irvine che potrebbero aver raggiunto la cima nel 1924 perdendo la vita sulla via del ritorno), alla conquista di Tenzing e Hillary nel '53, alla sfida tra nazioni per piazzare una bandiera sulla cima del mondo. Negli anni a seguire si aprono nuove vie, Rainhold Messner nel '78 arriva in cima senza respiratore e 4 anni dopo torna dal Tibet, nell’Ottanta un team scala la montagna d’inverno.

E c’è un versante scientifico: sull’Everest è attiva una stazione di ricerca metereologica che sta raccogliendo dati significativi sul cambiamento del clima. Le imprese continuano ma accanto a queste cresce un’industria che ha portato sull’Everest nel 2019 oltre 100 spedizioni. Si resta stupiti a leggere che nel 1962, quando una spedizione indiana raggiunge il colle sud, la spianata di sassi e ghiaccio a quasi 8000 metri, dove fino ad allora si sono accampate solo quattro spedizioni, viene descritta come «una discarica alla fine del mondo, inquinata da centinaia di bombole di ossigeno e da migliaia di scatolette vuote».

tibet-4029552_960_720 Eknbg   pixabayjpg (foto di Enkbg da pixabay)

Difficile immaginare come sia la montagna oggi con centinaia di spedizioni l’anno. Per salire non serve competenza alpinistica ma 50mila dollari, la tariffa richiesta dalle principali agenzie che organizzano le spedizioni dei turisti. Il primo nel 1985 è stato Richard Bass, petroliere texano. Dopo di lui, la valanga. «Bass ha mostrato che l’Everest era possibile alle persone normali. Se siete ragionevolmente allenati, e se avete un po’ di soldi da spendere, credo che l’ostacolo più serio sia trovare due mesi da sottrarre al lavoro e alla famiglia», scrive Beck Weathers, il medico miracolosamente sopravvissuto a una bufera sull’Everest.

Nonostante i servizi offerti rendano accessibili anche i passaggi più complessi, le insidie della montagna restano tante, come testimoniano le tragedie del 1996 (quella descritta da Krakauer in Aria sottile e da Beck Weathers in Everest) o i terremoti del 2014 e 2015, solo per parlare di quelle che sono state più raccontate. Tra l’altro almeno nel 1996 non furono i turisti a causare le valanghe ma alpinisti incompetenti. Sembrerà paradossale, ma il libro di Krakauer e poi il film ebbero un effetto moltiplicatore delle richieste di ascensione portandole e diverse decine l’anno. Un giro d’affari di 25, 30milioni di dollari l’anno, gestito ormai principalmente da agenzie locali e che è diventato una fonte di reddito fondamentale per la popolazione nepalese, una delle più povere al mondo. Dopo il record di ascensioni del 2019 (876 persone sulla cima), nel 2020 la montagna è tornata deserta e immacolata. La pandemia di Covid ha fermato anche le ascensioni sull’Everest.


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titolo: "Everest, una storia lunga 100 anni"  di Stefano Ardito   ed. Laterza   19 euro



*CARLA CHELO (Nata a Roma, ha lavorato per il quotidiano l'Unità, il settimanale Diario della settimana e i tg di Studio Aperto e di Tgcom24 a Mediaset. Ora viaggia e scrive solo per piacere)
   

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