Irlanda degli anni Ottanta, castelli e sparatorie

di BIANCA DI GIOVANNI *

Già dal volo quella vacanza si preannunciò avventurosa. Presi un biglietto della Iran Airways per Londra, costava pochissimo. Da lì avrei percorso in treno il tragitto verso la costa orientale della Gran Bretagna, per imbarcarmi su un traghetto in direzione Dublino. Avevo deciso di raggiungere l’Irlanda via mare e di restarci per tutto il mese di agosto. Eravamo nel cuore degli anni Ottanta.

L’aereo veniva da Tehran e mi ritrovai accanto un vecchio signore con la barba lunga. Iniziò a parlarmi con una voce dolce e modi educatissimi della guerra con l’Iraq, dei tanti giovani morti. Io lo ascoltavo senza capire bene il dramma che raccontava: ero sintonizzata su allegre vacanze irlandesi. Ci salutammo con misurata mestizia, ma all’aeroporto di Heathrow scoprimmo che i bagagli erano rimasti tutti a Roma. Così, con un vestitino di cotone troppo leggero per la serata londinese, montai su un taxi verso la stazione Victoria. Del viaggio in treno e la notte intera in traghetto non ricordo quasi nulla. Ma all’arrivo mi si parò davanti Dublino, tutta visibile dal porto.

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Stordita e infreddolita raggiunsi l’appartamento di un amico e come in un sogno vidi il mare che lambiva quasi le finestre. Bello affacciarsi proprio sull’acqua, pensai. Sprofondai nel sonno per la stanchezza. Il mattino dopo, sbirciando tra le tende, non vidi che sabbia gialla e una sensazione di straniamento mi afferrò: il mare non c’era più. Al suo posto, una vastissima distesa sabbiosa su cui si rincorrevano cani alla ricerca di pesci e piccoli granchi, accompagnati da padroni in tenuta da jogging. La marea si era ritirata, e la casa mi sembrò completamente diversa. Sulla spiaggia c’era una luce cristallina che rendeva tutto allegro, proprio come mi pareva quella gente irlandese che passeggiava di primo mattino.

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Ci vollero tre giorni, ma alla fine la mia valigia arrivò a casa.Sembrava che ogni cosa si fosse sistemata. Fino a quando, girovagando tra le vecchie birrerie di Dublino dove ancora ci si imbatteva in quartieri degradati, affollati di famiglie numerose e poverissime, di piccole gang di giovani “monelli” con la coppola e i pantaloni sdruciti, mi fu rubata la borsa che conteneva tutto il denaro che avevo appena cambiato in banca. Ancora una volta non avevo nulla. Neanche gli occhiali.

Al posto di polizia mi guardavano indifferenti: l’unica cosa che volevano sapere era se avessi il passaporto. Di solito i “terroristi” nordirlandesi “si rifornivano” di documenti stranieri per poter circolare. Ma il passaporto era l’unica cosa che avevo salvato. Così per loro il mio caso non era di  interesse. Anche al consolato italiano, dove mi recai per fare la denuncia, sembravano noiosamente rassegnati: un altro furto, l’ennesimo. C’era la fila, di turisti derubati come me.Irlanda 8jpg

La mia famiglia mi spedì del denaro, e io continuai il mio corso di inglese e le mie serate nei pub, al suono delle musiche irlandesi e delle danze popolari. La visita alla Guinness, al Trinity College (dove il mio ospite insegnava italiano), le gite sul mare, le passeggiate su O’Connell Street piena di giovani chitarristi. Il fascino irlandese era lì: in quella musica allegra e in quei panorami marini sferzati dal vento.  A metà mese mi raggiunse il mio ragazzo e decidemmo di visitare tutta l’isola viaggiando in treno. Arrivare a Belfast sembrava una faccenda rapida. Ma prima di entrare in stazione il treno si fermò per un’ora. Non capivamo cosa stesse succedendo e nessuno dava informazioni. Quando scendemmo, ci ritrovammo sotto il mirino dei cecchini inglesi che puntavano sui viaggiatori in arrivo.

C’erano militari armati fino ai denti, dappertutto. Con qualche trepidazione raggiungemmo il centro cittadino, che veniva sorvolato da elicotteri e dove ufficiali inglesi passeggiavano a coppie, sbattendo sulla mano un frustino e guardandosi attorno. Improvvisamente tutti cominciarono a fuggire, mentre dei cancelli si chiudevano per isolare il centro. Seguimmo la folla e ci dirigemmo di nuovo verso la stazione: durante la corsa vedevamo militari armati che facevano irruzione nelle piccole case e buttavano fuori vecchiette con i grembiuli da cucina, giovani donne con neonati in braccio, ragazzini impauriti.

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Saltammo sul primo treno: andava verso Derry (che irresponsabilmente avevamo chiamato Londonderry beccandoci un’occhiataccia dal bigliettaio). Il percorso della ferrovia era meraviglioso: si incuneava lungo la costa frastagliata che dava sul lembo di mare tra l’Irlanda e la Scozia. In lontananza scorgemmo anche le piattaforme petrolifere, vero motivo per cui la Gran Bretagna non aveva intenzione di separarsi dal Nord Irlanda.

 A Derry la situazione era ancora peggiore che a Belfast. La città era tutta chiusa: porte e finestre sbarrate. Strade deserte. In qualche incrocio c’erano dei falò che ardevano nel mezzo delle carreggiate. Non avevamo la più pallida idea di cosa fare: ci piazzammo davanti a un distributore tentando un improbabile autostop. Dopo due ore di deserto, si avvicinò un’auto. L’uomo alla guida ci chiese da dove venivamo. Italia, rispondemmo. Ci invitò a salire in macchina. Vi porto alla frontiera e voi uscite a piedi. Furono le uniche cose che ci disse. Tentammo di chiedere chi fosse, cosa stesse accadendo. Ma non rispose nulla. Arrivato al confine con il Donegal ci fece scendere. Camminate sempre dritto – disse - incontrerete un paese. Salutò e se ne andò.

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    Così rientrammo nella Repubblica d’Irlanda a piedi, in cammino lungo un sentiero dentro un bosco rigoglioso. Stava facendo buio, l’oscurità piano piano ci avvolse. Dietro le nostre spalle sentivamo i colpi della battaglia che stava esplodendo a Derry. Cominciavamo ad avere paura, quando in lontananza scorgemmo una luce. Era un pub, che trovammo zeppo di clienti mezzi ubriachi. Chiacchieravano allegramente, cantavano, suonavano, mentre fuori si sparava. Chiedemmo una stanza per la notte, ma non ce n’era neanche una libera. Un vecchio signore, mezzo brillo, appoggiato al bancone, ci offrì la sua roulotte che teneva come magazzino degli attrezzi per il suo allevamento di maiali. Disperati, accettammo. Sbandando ad ogni curva, ci condusse in una radura circondata da una fitta vegetazione. Ci lasciò lì, dentro un camper puzzolente, al chiaro di una luna gigantesca, e al suono delle mitragliate che sentivamo in lontananza. Non chiudemmo occhio. All’alba ci dirigemmo su una strada asfaltata e con l’autostop raggiungemmo Galway e un sicuro bed and breakfast.

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Leggendo i giornali scoprimmo che c’era stato uno scambio di prigionieri tra la Repubblica d’Irlanda e il Regno Unito, cosa che aveva scatenato la reazione dell’Ira e la repressione, di cui eravamo stati involontari testimoni. Dopo quelle 24 ore, il viaggio continuò in una tranquillità onirica. Sulle isole Aran fummo rapiti dalla bellezza impetuosa delle alte scogliere che davano sull’oceano aperto, ultimo lembo di terra prima dell’America. Gli abitanti ci salutavano con cordialità ogni mattina, parlando in gaelico. Noi rispondevamo a gesti. Vedemmo la povertà estrema nelle casette dove donne sole sferruzzavano per fare i maglioni di lana bianca che rivendevano ai turisti: le pareti tappezzate di foto di emigranti, tutti partiti per l’America. Respirammo questa natura estrema, sempre in movimento, tra pioggia, nuvole e sole, mare in burrasca, onde schiumose, strade in salita, greggi di pecore lanose. Finalmente giorni di pace e di vacanza