IL FILM - La Cordigliera dei sogni

di GIORGIO OLDRINI*

Un film pieno di emozioni, soprattutto per me, “La Cordigliera dei sogni” del regista cileno Patricio Guzman, perché ho legato una parte importante della mia vita alle vicende cilene e a molti dei protagonisti. A cominciare proprio da Patricio Guzman, che arrivò all’Avana quando ero corrispondente dell’Unità e lui, appena uscito miracolosamente vivo dallo Stadio nacional dove la dittatura di Pinochet aveva stipato migliaia di cileni, troppi dei quali ne uscirono solo torturati e morti. Patricio dalla vittoria di Salvador Allende aveva cominciato a girare col furore del documentarista quello che pensava fosse il lungo ritratto del successo dell’unica rivoluzione socialista che andava al governo vincendo elezioni democratiche e non con la violenza rivoluzionaria. Ma ben presto si rese conto che stava girando una storia di controrivoluzione alimentata dagli Stati Uniti e che proprio quella caratteristica di via democratica al socialismo era ciò che più spaventava gli Stati Uniti. La violenza rifiutata dai rivoluzionari era stata scelta dalla borghesia, dalle forze armate e dagli Usa. Nella “Cordigliera” Patricio racconta del terrore che paralizzò tutti in quei  giorni tremendi del golpe, senza sapere cosa succedesse e cosa fare. Lui chiuso in casa con Paloma, giocando ossessivamente con le bambine, perché non si spaventassero troppo e perché i due adulti non soccombessero al terrore. Fino a quando arrivarono i carabinieri e si portarono via il regista.



Paloma ci raccontò che aveva nascosto le “pizze” girate dal marito e le aveva trasportate, attraversando una Santiago battuta da carri armati e da camion carichi di militari e di prigionieri, in una grande cassa all’Ambasciata di Svezia, mettendole in salvo. Molti non uscirono vivi dallo Stadio nacional, a Patricio andò meglio, per l’intervento dell’Ambasciata svedese e di tanti cineasti del mondo che ne chiesero il rilascio. Arrivarono a Cuba e Patricio poté iniziare a montare quella che poi fu la trilogia “La battaglia del Cile”, documento essenziale ed impressionante per capire quel che successe nei tre anni della Presidenza Allende.

Con questo film ora Guzman ci parla della Cordigliera che chiude il Cile fino a farlo sembrare un’isola, stretto tra montagne alte e impervie e l’Oceano. Le Ande sono una presenza ineludibile per il Cile, e, come diceva Pablo Naruda, ne fanno un Paese alla fine del mondo, dove non si passa ma ci si va. Ero a Santiago quando tornò dopo un lungo esilio lo scrittore Ariel Dorfman. Nel primo incontro con un gruppo di amici disse incredulo: “Ho capito che stavo veramente tornando solo quando l’aereo ha superato l’Aconcagua”. All’Avana era in esilio Mario Gomez Lopez, uno dei grandi giornalisti cileni, alto, con una risata sonora, che sosteneva: “Non dobbiamo permettere a Pinochet di toglierci l’ironia”. Per tenere fede al suo impegno mi diceva “Non sopporto l’Avana. Quando mi ubriaco non capisco da che parte andare per tornare a casa. A Santiago ci sono le Ande, so subito se devo prendere a destra o a sinistra”. Ho ancora negli occhi la prima volta che sono emerso dall’ultima fermata della metropolitana di Santiago e mi sono trovato le Ande proprio lì davanti, impressionanti. La cosa curiosa è che, a parte l’Aconcagua, i cileni comuni non conoscono il nome di quelle cime che incombono su di loro. “Come si chiama quella montagna?” chiedevo. “Ande” “Va bene, ma proprio quella” “Ande”.


Patricio parte dalle montagne, con panorami mozzafiato, per ritornare sulla ossessione sua e di tanti per quel golpe. Lo fa intervistando varie persone, tra le quali Pablo Salas, un cineoperatore che scelse di restare in Cile, rischiando la morte pur di continuare a filmare, almeno in parte, quel che succedeva allora e quello che è poi accaduto negli anni del dopo dittatura. Le immagini di Salas rimandano la scena di manifestazioni represse violentemente. In azione i manganelli, i lacrimogeni, i getti di acqua potente e lurida del “guanaco”, il blindato che una sera nella Alameda mi ha irrimediabilmente rovinato un giacchino che amavo tanto. Ci sono le immagini di una manifestazione con retata di centinaia di uomini al quartiere popolare della Victoria. Ero riparato dietro un’auto con alcuni dei manifestanti quando l’esercito cominciò a sparare. Con l’ironia che avrebbe apprezzato Mario Gomez Lopez, uno dei ragazzi mi spiegò: “Quando torni in Italia scrivi che qui ci ammazzano di fame. Ah, anche sparandoci”. E un settembre, per la Festa della Patria, ecco la sfilata dei cavalieri, con la folla che improvvisamente inizia a rumoreggiare e poi a gridare all’indirizzo delle truppe a cavallo “Sa va a caer, se va a caer” sfottendo i cavalieri, ma alludendo a Pinochet. Fino a quando uno dei destrieri si imbizzarrì e fece effettivamente cadere a terra il militare.

Le Ande, secondo Guzman, hanno assistito alla storia originale e tremenda di questo Paese, che Patricio tenta ogni volta di raccontare a se stesso prima che a noi. Un Paese sorprendente che ha tentato la prima via socialista nella democrazia, che ha avuto il golpe simbolo per tanti anni della violenza e che così ha imposto un modello di liberismo assoluto, come in un laboratorio. E che in queste settimane sta scrivendo, con il risultato delle elezioni per l’Assemblea Costituente, un altro cammino originale e imprevedibile. Ma questo, forse, ce lo racconterà Patricio Guzman nel suo prossimo film.


*GIORGIO OLDRINI (Sono nato 9 mesi e 10 giorni dopo che mio padre Abramo era tornato vivo da un lager nazista. Ho lavorato per 23 anni all’Unità e 8 di questi come corrispondente a Cuba e inviato in America latina. Dal 1990 ho lavorato a Panorama. Dal 2002 e per 10 anni sono stato sindaco di Sesto San Giovanni. Ho scritto alcuni libri di racconti e l’Università Statale di Milano mi ha riconosciuto “Cultore della materia” in Letteratura ispanoamericana)

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