Governolo e Castel d’Ario, scene di lotta di classe nei Carnevali mantovani

di FABIO ZANCHI* 

Cosa c’entra la lotta di classe con il Carnevale? C’entra, eccome se c’entra.

Partiamo da Governolo, paese a una ventina di chilometri da Mantova. Là dove il Mincio si butta nel Po, si racconta che nel 452 Attila e i suoi Unni furono convinti da Papa Leone I a tornare sui propri passi. Sempre qui, parecchi anni dopo, a fine novembre del 1526, Giovanni delle Bande nere venne ferito a una gamba nel corso di un combattimento e morì dopo cinque giorni di agonia. Mica roba da niente, insomma. Altro evento storico, di ben diverso peso, quello celebrato in diciannove fotografie raccolte dagli iscritti del Pci su un tabellone poi appeso nel circolo Arci del paese, a ricordo di un Carnevale formidabile e degno di memoria: quello dell’anno 1950. Voluto e organizzato, per l’appunto, dalla locale sezione del Pci, insieme con la Lega dei braccianti e dalla cooperativa.

Quelle foto sono bellissime e struggenti, nella loro semplicità. Si vede la banda del paese, composta da trentatré fiati e un tamburo. Sul muro, una lunga e inequivocabile scritta, tracciata con calce bianca: “Scelba assassino”, con tutte le “S” al contrario. E poi i personaggi in maschera: un giocatore di calcio della squadra “Whitehead” e un altro della “Tic Tac F.C.”, che avrebbero dovuto inscenare una partita; due “polizziotti”, impersonati da un uomo altissimo e da un altro, molto basso;  un asino, cui davano vita due persone sotto un lenzuolo e una maschera dalle lunghe orecchie; i personaggi che avrebbero dovuto celebrare il processo al salariato, povero in tutti i sensi, cioè l’imputato (naturalmente soccombente), il Pubblico ministero, l’avvocato difensore. Un carro trainato a mano era il cellulare (il telefonino non c’entra, N.d.r.) della “polizzia” scelbiana. E poi tanta, tantissima gente a far da pubblico.


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Non servono tante didascalie per capire che quello che si celebrò il 21 febbraio 1950, giorno di Martedì grasso, fu un Carnevale tutto politico. Una manifestazione contro il governo del democristiano Alcide De Gasperi, due anni dopo la grande sconfitta elettorale del Fronte popolare. Una ferita che ancora bruciava, e che nelle campagne mantovane bruciava ancora di più per l’asprezza delle condizioni sociali. Da una parte c’erano contadini e braccianti ridotti alla miseria, dall’altra i padroni fondiari che potevano permettersi livelli di vita lussuosi. 

Lo scontro sociale era durissimo. Basti pensare che solo nel 1949, un anno prima, si erano tenuti 31 processi, con 179 imputati. Nello stesso anno nelle campagne mantovane ci fu uno sciopero di 36 giorni, dal 18 maggio al 23 giugno. In questa situazione – ben documentata da Maurizio Bertolotti nel suo “Carnevale di massa 1950”, Einaudi 1991 – i dirigenti della sezione del Pci ebbero l’idea di organizzare una grande manifestazione popolare contro chi seminava divisione e odio di classe. Nel Carnevale sarebbero confluite anche questioni politiche: dalla critica al piano Marshall alla lotta contro Scelba e la giustizia che picchiava durissimo sui più poveri, una giustizia di classe.

A dare alimento a questa sfida c’erano poi le parole di Palmiro Togliatti, ricordate da Bertolotti: “Le sezioni comuniste nei rioni delle città – aveva detto il leader del Pci a Firenze nell’ottobre del 1944 – devono diventare dei centri della vita popolare, dei centri ove debbono andare tutti i compagni, i simpatizzanti e quelli senza partito, sapendo di trovarvi un partito e un’organizzazione che si interessano dei loro problemi e che forniranno loro una guida, sapendo di trovarvi qualcuno che … può dar loro la possibilità di divertirsi, se questo è necessario”. Così nacque l’idea di quella rappresentazione che, attraverso la mascherata del processo al salariato, metteva sotto accusa il sistema di potere che opprimeva contadini e braccianti. Il Carnevale di Governolo, del resto, attingeva a una tradizione piuttosto diffusa, che appena un anno prima, nel ’49, a San Benedetto Po e a Suzzara aveva fatto sfilare carri allegorici contro Scelba, De Gasperi e la Confindustria.


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Negli anni successivi i Carnevali cambiarono pelle, almeno a Governolo. La ragione, in parole molto semplici, ebbe modo di spiegarla proprio a Bertolotti il segretario della sezione del Pci locale, Giuseppe Foroni: “Negli anni successivi vi furono altri Carnevali. Ma il Carnevale è passato di mano, ci andarono dentro l’Azione cattolica e la Dc, che ricorsero a Viareggio, con le maschere: è andato a fallimento. Furono anche poco intelligenti, perché eravamo qui, e non a Viareggio. Forse – è l’amara conclusione – la volontà di divisione da una parte e dall’altra è stata una delle ragioni essenziali che annullarono la capacità di mettere insieme altre manifestazioni uguali al 1950”.

Cambiamo paese e anno. L’origine del Carnevale di Castel d’Ario, dove nacque Tazio Nuvolari, a una ventina di chilometri da Mantova, vicino al confine con la provincia di Verona, risale addirittura al 1848. Anche in quel caso il motore principale fu un rovente contrasto sociale: da una parte il potere asburgico e la Chiesa, dall’altra un gruppo di possidenti e commercianti molto attivo, raggruppato nella Società del Carnevale. Questi, il 7 marzo di quell’anno, proprio l’ultimo giorno del Carnevale, chiesero il permesso di tenere nella Sala comunale “una pubblica festa per l’infima classe del popolo”, con “diffusione al popolo di polenta, aringhe, cospettoni e vino piccolo”. 

Una provocazione a più livelli. In effetti, durante la Quaresima erano vietate le feste da ballo e qualsiasi altro genere di festeggiamento. Per di più si parlava di un banchetto generale proprio nel giorno di avvio del periodo di penitenza e digiuno. Naturalmente era tutto giocato su un filo sottile: per esempio si proponeva un grande pranzo, ma pur sempre di magro, con aringhe e altro pesce. Era solo l’inizio di un braccio di ferro che andò avanti per anni. Anni durante i quali nelle campagne lì intorno nacque tra i contadini il movimento di protesta de “la boje!”, e poi la Società di Mutuo soccorso e giornali come “Il pellagroso”, tanto radicato nella popolazione da riuscire a promuovere sottoscrizioni per i profughi russi e per assicurare un piatto di minestra ai bambini poveri della scuola materna.



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La tradizione del Carnevale di Castel d’Ario in piena Quaresima è documentata da una locandina del 1885, intitolata “Baccanale di Castel d’Ario”, con l’invito assai esplicito: “Venite nel Paese dei dannati profanatori della quaresima: l’inferno è aperto anche per voi”.

In quel periodo è ancora prevalente il carattere antagonistico della manifestazione. Tanto che sul Pellagroso si arriva a contestare addirittura il Carnevale tradizionale: “Anche il Carnevale del 1885 se n’è andato; ma se sparì con il tramonto di ieri, tornerà con l’alba del 1886, perché certe istituzioni ereditate dai barbari non si dimenticano tanto facilmente. I tiranni e i preti (son sempre stati amici) di ogni tempo han favorito il Carnevale perché la povera plebe gettandosi in mezzo al chiasso della via ed applaudendo ai divertimenti borghesi non si curava della politica e riconfermava la quaresima del papa, riserbando la pellagra per sé”.

Con il passare degli anni, ma ce ne sono voluti parecchi, si affievoliscono i contorni legati allo scontro sociale. Quel che rimane è il festeggiamento a base di una straordinaria scorpacciata di massa nel giorno in cui il resto del mondo celebra il digiuno. Lo documenta un volantino del 1935: “Primo Giorno di Quaresima – La Bigolata a Casteldario”. Rimane anche, per non esagerare nelle trasgressioni, la scelta di condire la pasta (i bigoli, cioè una sorta di spaghetti) con pesce, le sarde. Il tutto è accompagnato da carri allegorici e grande allegria.  Ogni tanto spunta qualche cartello che richiama ancora ai valori alti. Come quello firmato dai volontari cuochi, nel 1991: “Nel rispetto di una tradizione, consapevoli delle ansie del presente, con la speranza di giustizia e di pace”. Gli occhi e tutti i sensi delle migliaia di visitatori alle varie edizioni della Bigolada rimangono tuttavia concentrati sul vapore e sugli aromi che escono dalle decine di pentoloni allineati in piazza.


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PS: Tra le tante sventure che il Covid ha portato con sé, c’è anche l’interruzione della Bigolada, rinviata a data da destinarsi. Nel frattempo, conviene ricorrere alla ricetta di “bigoi e sardèle” proposta dallo chef Ivano Remondini (da “La Bigolada di Castel d’Ario”, di Sandro Correzzola, Editoriale Sometti – Mantova):


1 kg di spaghetti, meglio piuttosto grossi

200 gr circa di sarde sotto sale, da diliscare

100 gr di acciughe

50 gr di tonno

150 cl di olio d’oliva

mezza cipolla

un cucchiaio di capperi

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(foto Archivio Correzzola)


Diliscare le sarde e sgocciolare le acciughe.

Unire sarde, acciughe, tonno e capperi. Sminuzzare il tutto con un coltello.

Far rosolare nell’olio la cipolla a fuoco vivace e poi toglierla.

Aggiungere il trito e passarlo a fuoco lento per 15/20 minuti.

Scolare gli spaghetti al dente e finire la cottura nel recipiente del condimento amalgamandolo alla pasta.

 

 

*FABIO ZANCHI (Da piccolo guidava trattori e mietitrebbie. Da giornalista, prima all’Unità e poi a Repubblica, ha guidato qualche redazione. Per non annoiarsi si è anche inventato, con Nando dalla Chiesa e altri spericolati, il Controfestival di Sanremo, a Mantova)

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