Due tre cose che so di Los Angeles, la città-non-città / 2

di FABRIZIO FUNTÒ

Di nuovo a ragionare sul Getty Center, Los Angeles.

La prima cosa sorprendente — e ciò che mi aveva portato lì la prima volta — è la presenza “nel” museo del Centro di Ricerca e di Studio (Getty Research Center) insieme con un altro istituto, molto furbo, che è il centro di “valorizzazione” della Fondazione, il Getty Conservation Center.

Due laboratori scientifici, dove i ricercatori e gli studiosi affluiscono da tutto il mondo. Anche perché il Trust della Fondazione mette a disposizione fondi ingenti, e privati, quindi istantanei, per questo lavoro. Una cosa che in Europa è quasi dimenticata. In Italia, è la nostra continua disperazione.

Giusto per farvi capire, alla fine degli anni ’90 oramai del secolo scorso avevo collaborato proprio con il Conservation: loro avevano restaurato la tomba della regina antico-egizia Nefertari (non Nefertiti, più vecchia di un secolo), la sposa di Ramesse II. Ma si erano accorti che riaprendola al pubblico, laggiù nella valle delle regine con un clima secco ogni oltre misura, l’alito ed il respiro stesso dei visitatori avrebbe immesso nell’ambiente, nel microclima interno, del vapore acqueo che alla lunga avrebbe danneggiato nuovamente le pitture murali così belle e così faticosamente riportate in auge, dopo mesi e mesi di restauro.

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Consigliati dalla più grande società americana di supercomputer grafici, la Silicon Graphics (che ci adorava), il Getty si era rivolto alla società che dirigevo (Infobyte) per ottenerne una versione in realtà virtuale. E fu una produzione spettacolare. Un piccolo capolavoro, realizzato insieme. Messa in mostra in Egitto - al posto di consentire la visita reale alla tomba - poi acquistata dal Canada al Giappone, come esempio di tecnologia all’avanguardia, mischiata con la cultura, la conoscenza e l’occhio artistico italiani.

Sì, perché proprio noi italiani saremmo il meglio che c’è in giro nel pianeta su molti terreni, se solo riuscissimo a riflettere su noi stessi e non fossimo continuamente pressati dagli interessi di bottega…

Ma torniamo al Getty Center.

Vi rivelerò altre due cose, che mi hanno molto impressionato.

La prima è quando ti affacci sulla bella terrazza ideata dall’architetto Meier,  con piani e fughe clamorose, e pensi di vedere in lontananza il mostro, la città-non-città che hai appena abbandonato. In realtà ti stai affacciando sul secondo protagonista dello spettacolo, la natura ed il giardino del Museo.

Già, le piante ed i fiori fanno bella mostra di sé in un’area specifica, appartata, ma visitabile e godibilissima, nei momenti in cui senti il bisogno di rilassare gli occhi e di non affollare la mente con tutti quei dipinti, disegni e manoscritti che trovi a museo, e di cui ho promesso di non parlarvi.

Ai piedi di una cascatella, si sviluppa un piccolo labirinto di piante tutte accuratamente scelte, e che poi cambiano nel corso del tempo, così da rinnovare continuamente la bella esposizione che di sé fa la natura, o meglio la Flora.

 La cosa è ancor più notevole perché pensata e voluta. Indica una comprensione del mix fra natura e cultura, fra vita del pianeta e vita della menta. Direbbero i colti, la commistione fra “zoe” (inteso con il suo significato in greco antico) e “bios”. 

L’altro aspetto, che per noi europei sembra quasi un oltraggio, e che lì appare invece come semplice, naturale e perfino geniale, è l’aspetto educativo.

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Ho avuto la fortuna, da ragazzo, di vivere immerso nel mondo dell’arte e degli artisti. Tutta gente di valore internazionale, con talenti prodigiosi. Quando studiavo filosofia all’Università di Roma, con Tullio De Mauro, abitavo in una mansardina a Trastevere di cui mi aveva concesso l’uso Graziella Urbinati. La quale era artista, sì, come pochi. Incredibile. Ma purtroppo “pentita”, e non produceva più: forse dopo la sua dolorosa separazione da Renzo Vespignani. Poi, Graziella ha avuto un figlio da Paolo Guiotto, uno scultore veneziano con cui avevo stretto un connubio intellettuale, ed insieme eravamo arrivati a creare — nei tardi anni ’80 — perfino una piccola associazione di artisti, critici, scrittori e poeti che si chiamava FRAC, e si riuniva sotto la Galleria Giulia.

Tutto questo per dire che solo uno che ha praticato l’arte, il disegno, la pittura, la scultura, riesce a cogliere nelle opere degli altri artisti il cuore, l’essenza, il tocco, i motivi di fondo, le innovazioni tecniche o stilistiche, insomma: a capire un artista nel profondo. Altrimenti si diventa dei “critici”. E mi fermo qui.

Per cui, che fa il Getty? Semplice: chiede ad artisti quotati, di Los Angeles o di San Francisco, di insegnare al pubblico (ignaro di arte) la loro mirabile tecnica. Non tutta, ovviamente: ma il loro approccio, come tengono il carboncino o il pennello in mano, insomma come lavorano.

Per cui al Getty trovi corsi di una o due settimane, ai quali ti puoi iscrivere liberamente e gratuitamente, e dove artisti di un certo spessore si mettono a tua disposizione e ti fanno un corso di pittura, di disegno, o di scultura. E qui viene il bello: mentre vivi con loro questa esperienza, e chiedi loro, e domandi, e poi stacchi un attimo, scendi giù nel museo e ti vai a vedere uno dei quadri meravigliosi di cui ti ha parlato lui, o lei, per farti capire cosa voleva che tu disegnassi e cosa voleva ottenere… in tutto questo “lavorio” piano piano entri nel mondo dell’arte, dall’interno, cominci a capirne il valore, l’importanza, i trucchi, i codici non detti.

Ecco: prova ora a pensare la stessa cosa fatta — che so io? — agli Uffizi, o alla Galleria Nazionale, o altrove.

Non si può, per mille e uno buoni motivi. A partire dalla disponibilità degli artisti stessi. E per finire con i soliti motivi sindacali, che rendono alla fine tutto impossibile.

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A fine giornata, infrangendo quella bolla in cui sei rimasto sospeso come in un mondo dei sogni, ritorni sul piazzale e aspetti la navetta che — disgraziatamente — ti riporta giù, al parcheggio sterminato, dove riprenderesti la macchina per tornare nell'inferno della “non-città”.

Ma, se sei fortunato e sai dov’è, e non è troppo tardi, puoi passare da Nozawa.

Ed era questo il terzo segreto di Fatima che vi avevo annunciato all’inizio.

Nozawa non è “un” ristornate giapponese, ma “il” ristorante giapponese. Lì non mangi, lì fai un’esperienza di vita, di sapori, di sensazioni, di profumi, di vapori, del tutto impagabile.

Una volta ci andai insieme al gruppo di Virtuality, una conference torinese di cui ero fondatore e direttore artistico. Eravamo lì per fare il giro degli Studios ed invitare supertecnici a parlare. Oggi si chiama View Conference. C’era, nel gruppo, una signora moglie di un funzionario, che appena seppe la destinazione puntò i piedi dicendo: “Io non mangio il pesce! Lo odio. Figurarsi il pesce crudo!”

E non per rispetto dei pesci. Sembrava l’inizio di una brutta serata che poteva anche finire in tragedia.

Andò a finire che la bisbetica ripulì tutti i piatti, e se non la portavamo via di peso a tempo debito avrebbe dormito lì, sui tavolini. O ci saremmo beccati un calcione nel posteriore da parte del proprietario, cosa che fece con una attrice famosissima che gli si era presentata al locale e voleva superare la fila, brandendo la sua fama come un passepartout. Si prese un bel calcione e venne buttata fuori.

Per dire.                                            (fine)


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