Da Mosca a Pechino, il treno più lungo del mondo / 1

di MARCO CORRIAS*

 La prima cosa che immagini quando programmi un viaggio sulla Transiberiana/Transmongolica, da Mosca a Pechino in treno, sono i paesaggi.  Sì, certo, i paesaggi. Ma poi, insomma, non è che sul momento ti sembrino così strabilianti. Per dire, da Mosca a Irkutsk, estremo lembo meridionale della Siberia, oltre 5 mila chilometri, è una serie infinita di boschi di conifere (tajgà) e radure e foreste di betulle, piccoli stagni e ruscelli e villaggi fatti di casette in legno dall’aria cadente e orti, addormentati lungo stradine polverose e persi nella grande pianura. E pensi a Mosca che hai appena lasciato, alla magnificenza dei suoi palazzi e dei suoi alberghi dove i nuovi ricchi ostentano i lussi più sfrenati. Qui, invece, è campagna povera, società rurale immobile nel tempo, punteggiata dai gasdotti che salvano dal freddo la vecchia Europa. La fotografia delle due Russie, descritte nei manuali di economia.


(video e testo di Marco Corrias)

   Eppure questi paesaggi, a vederli dal finestrino del treno che dopo Irkutsk e il lago Baikal entra in Mongolia per regalarti i colori ocra delle colline rocciose e della steppa dell’altopiano su cui sorge Ulan Bator, e poi, dopo il deserto, varcato il confine cinese, ti mostra il verde ordinato delle campagne, i laghetti da cartolina e persino qualche scorcio di quella follia umana che è la grande muraglia, questi oltre 9 mila chilometri di paesaggi, ecco, sai che non li potrai cancellare dalla mente e dagli occhi. Perché questo viaggio non è fatto solo di terra e di boschi e di città, ma anche di volti e costumi che mutano man mano che da ovest ti spingi a est, all’Asia di Gengis Khan, ai misteri proibiti della Cina. Ti restano impressi fin da quando lasci Mosca e monti sul treno per Kazan, capitale della repubblica del Tatarstan, la tappa più breve, appena una notte di viaggio.

    L’impatto col treno e con gli scompartimenti a quattro cuccette è quello che più preoccupa il passeggero neofita. Invece impari in fretta, dalla disinvoltura con cui i russi viaggiano nei vagoni letto, dalla semplicità con cui condividono gli spazi, dalla spontaneità con cui ti tendono la mano per presentarsi e per chiederti da dove vieni. Capisci subito che la provodnitsa che controlla biglietto e passaporto è la padrona assoluta dell’intero vagone. Consegna le lenzuola, l’asciugamano e la tazza di vetro con la base di peltro su cui dai tempi di Michele Strogoff, immagini, è stampato il simbolo delle ferrovie. E’ la stessa ragazzona dai tratti kazaki che tiene puliti e ordinati bagni e corridoi, gestisce la vendita del tè e controlla che nel samovar l’acqua sia sempre calda.


(Video e testo di Marco Corrias)

    I compagni di viaggio di questa prima tratta sono una coppia russa e una specie di orso siberiano che ogni tanto grugnisce e trascorre la notte tra fischi polmonari e allarmanti apnee. La coppia, invece, dopo alcune ore nel vagone ristorante torna in evidente stato di ubriachezza. Lei ride come una pazza nel tentativo più volte fallito di inerpicarsi su per la cuccetta superiore, malamente aiutata dal basso, con generose applicazioni di mani sul sedere, dal consorte più sbronzo di lei. La mattina dopo sorrisi, scuse e selfie con l’italianski.

   A Kazan cristiani e musulmani convivono pacificamente da secoli, alla faccia dell’Isis. Il Cremlino bianco, versione ridotta (e gratuita) del più famoso moscovita, te lo dimostra plasticamente, con i cinque minareti della moschea bianca e azzurra di Qol-Sarif che guardano a poche decine di metri di distanza le tre cupole azzurre sormontate dalle croci della cattedrale dell’Annunciazione. Questo Kremlino lo visiti in poco tempo ma ne vale la pena. Non foss’altro che per vedere la statua enorme dell’ “eroico soldato” intento a proteggere la cittadella fortificata con la sua posa guerriera e plastica da regolamentare realismo sovietico. Oppure per scoprire che la torre Siujumbike che lo domina pende né più né meno che quella di Pisa.

IMG_3897jpg (Foto di Marco Corrias)

   Da pochi giorni prima della mia partenza erano terminati i mondiali di nuoto (chi aveva sentito mai parlare di Kazan prima di questo evento?) e con gli impianti sportivi ipertecnologici anche l’intera città sembrava tirata a lucido. I giochi di luce e acqua sul fiume Kazanka, che poco distante si getta poi nel Volga, lo testimoniavano. Tanto che i tour notturni in cerca degli scorci più illuminati andavano forte tra i rari turisti, più che altro anziani nuotatori  (ne incontrammo un’arzilla coppia in treno proveniente dall’Australia) che dopo i mondiali partecipavano alle gare senior. Tra una bracciata e l’altra si aggiravano per la zona pedonale, fila ininterrotta di  belle case, di negozi di souvenir e piccoli caffè-ristoranti, quasi tutti cloni locali dei fast food global. Non si può dire, però, che la velocità dei camerieri nel servirti sia la stessa. Più che altro, fu il commento di un cliente, “i tempi sono quelli delle mense pubbliche sovietiche”. Un’ultima annotazione: anche a Kazan, come a Mosca, le padrone della strada sono le auto. I poveri pedoni che vogliano attraversare hanno pochissime chance: un passaggio pedonale ogni 3/400 metri. Il traffico, ovviamente, scorre senza intoppi.

  Due giorni a Kazan e via sul treno per Irkutsk. Parte alle due di notte. Per ore con Olga, una paleontologa di Novosibirsk, assistiamo al tormento di una mamma preoccupata che il suo bambino possa precipitare dalla cuccetta superiore che le è stata assegnata. Chiede a Olga se lo può mettere a dormire con lei giù da basso. Olga sorride paziente e accetta: è la prima lezione di tolleranza della convivenza. È donna intelligente e siberiana purosangue, ama la neve, il bianco e il silenzio delle foreste innevate. Mostra orgogliosa una foto che la ritrae grondante e in striminzito bikini all’uscita da una buca sulla superficie ghiacciata di un fiume. La figlia di 20 anni studia a Mosca. Parliamo di Putin. “Si lo sappiamo che è autoritario, e questo non mi piace. Ma è l’unico che si sa opporre agli americani, che pensano di essere sempre i padroni del mondo.”

IMG_3925jpg(Foto di Marco Corrias)

  Pensiero diffuso, anche se di difficile comprensione, che certifica la grande popolarità del nuovo Zar delle Russie. Lo stesso pensiero di Sergej, guida illuminata e coltissima, che parla un italiano perfetto e che mi scorrazza per due giorni, rigorosamente a piedi, lungo la Mosca sconosciuta, quella della casa di Dostoevskij, della piazza su cui affacciava la casa di Puskin, della chiesetta abbattuta durante i moti del 1917 o della grande cattedrale che Putin sta facendo ricostruire a tempo di record sulle sponde della Mòscova: “Putin fa bene a mostrare i muscoli agli americani,  ci fa sentire orgogliosi di essere russi. La Crimea è russa, e la parte est dell’Ucraina è russa, giusto rivendicarlo. E l’Europa sbaglia con le sanzioni. Non fanno altro che stimolare la produzione e i consumi interni.” Il nazionalismo russo, insomma, sarebbe alimentato anche dall’Occidente.

   Quella di Irkutsk è la tappa più lunga, tre notti e due giorni e mezzo di viaggio. Le foreste si sono diradate, scorrono ampie radure circondate da boschetti di betulle. Sullo sfondo gli Urali che si avvicinano segnalano che stiamo per passare nella parte asiatica della Siberia. Le brevi soste - mai oltre mezz’ora - nelle stazioni più importanti, spesso occupate da convogli chilometrici di serbatoi di gas e petrolio, sono come la ricreazione per gli scolari. Scendiamo euforici e con la voglia di sgranchirci le gambe. Ci vengono incontro piccole folle di venditrici di cibo, bevande, guanti e colbacchi. Qualcuna azzarda perfino l’offerta di aringhe salate. La provodnisa presidia l’ingresso per impedire l’accesso a estranei. “Su questi treni bisogna stare attenti” mi dice Sergej, il poliziotto più allegro e comunicativo che abbia mai incontrato.  “Quando dormite non lasciate mai in vista nulla che possa essere rubato. Ci sono spesso dei ladri.”

IMG_4099jpg(Foto di Marco Corrias)

  Sergej, poco più che un ragazzo, è felice di poter esibire il suo inglese appreso chiacchierando con i rari turisti occidentali. È di Irkutsk, è sposato e ha due figli, guadagna poco meno di 800 euro al mese e si ritiene fortunato, mi dice davanti a una birretta (lui solo Coca Cola perché in servizio) al vagone ristorante. Per ora deve rinunciare a comprare casa, e forse anche in seguito, perché qui le banche chiedono fino al 18 per cento di interessi per il mutuo. Ha studiato psicologia e ha una passione sfrenata per la storia romana. Davanti a Olga, però, non trattiene la sua natura di macho siberiano e rivela, tutto impettito, che i muscoli esibiti sotto la divisa sono frutto di lunghe sedute in palestra. La foto con Sergej è d’obbligo.

 Irkutsk si presenta dall’alto di un ponte ferroviario, divisa tra le due sponde di un enorme specchio d’acqua dove ferve una certa attività industriale. È il fiume Angara che 70 chilometri più in là confluisce nel lago Baikal. Con una certa esagerazione, Irkutsk la chiamano la Parigi siberiana. È per via dei palazzi del centro, spesso belli, che rivelano un passato di un qualche splendore. Città ricca, te ne accorgi dai negozi dei due centri pedonali e dalla via Marx. Città di frontiera, dove i simboli sovietici resistono intatti. Come la statua di un giudice intellettuale, che si dispone a giudicare un sovversivo condotto davanti a lui in catene, o la grande statua di Lenin che sembra osservare perplesso, da una piazza davanti a uno scintillante centro commerciale, il via vai di clienti. In uno slargo appartato ecco apparire un piccolo museo a cielo aperto, cannoni, carri armati e persino un missile puntato verso il cielo. Ferrovecchio, ma dal forte valore ammonitivo circa la potenza una volta sovietica e ora russa.

IMG_4314jpg(Foto di Marco Corrias)

  La Mongolia è a qualche ora di treno, e i tratti asiatici di una bimba che conduce triste un pony nella piazza centrale, destinato a essere cavalcato da bambini più fortunati, lo segnalano. Ma prima di affrontare le steppe mongoliche c’è una tappa, diciamo balneare, da onorare.

(1 - continua)


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*MARCO CORRIAS (1951, giornalista in pensione, è sposato e ha un figlio. Nato in Sardegna, vive tra Roma e Fluminimaggiore, il paese d’origine di cui nel giugno del 2018 è diventato sindaco. Ha lavorato nei quotidiani e è stato inviato per il settimanale Epoca e per Terra! del Tg5. Si è occupato di temi di attualità e di inchieste sui più clamorosi casi nazionali e internazionali. Ha scritto quattro libri, l’ultimo è “Piombo Fuso” per le Edizioni Il Maestrale)


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