Cilento, un viaggio fuori rotta e la gemma di Trentova / 1

di ANGELO MASCOLO* 

A 100 metri dall’uscita autostradale di Battipaglia, in un paesaggio brullo di capannoni industriali, un cartello marrone segnala che da qui – uno dei primi avamposti della piana solcata dal fiume Sele – parte un percorso incrociato fatto di archeologia e Cilento. Un doppio filo retto da due estremi: i templi di Paestum da una parte e dall'altra Agropoli, la porta d’ingresso alla costiera cilentana.

Dopo pochi minuti l’autostrada sparisce ingoiata dalla SS18, un rotolo di asfalto che per circa 50 chilometri esibisce spettacoli contraddittori. Aziende agricole modello, ruderi di allevamenti di bufale ridotti ormai in scheletri, colline e campi coltivati a mais o pomodori, file di immigrati a piedi o in sella a biciclette tutte scassate, acquitrini, ponti in ferro o mezzi diroccati, paludi e terreni argillosi spaccati da erpici e dal sole agostano che non dà requie. 

tempio di Nettuno Paestumjpg(Il tempio di Nettuno a Paestum                        foto di Angelo Mascolo)

Il paesaggio cambia in un modo impressionante da queste parti. Lasciata la A3 si è immersi in qualcosa che è difficile da spiegare. Una specie di bolla senza tempo fatta di dune e colline coltivate a ulivi, una regione dentro un’altra regione più vasta. La SS18 il mare lo lascia soltanto intravedere, scorre di lato al finestrino come una lunga pellicola di lapislazzulo ma è lontano, irraggiungibile. Millenni fa, in una terra argillosa che si presenta sempre uguale e senza filtri, approdarono gruppi di Greci in fuga dalla madrepatria e alla foce del Sele, l’attore generoso e ingombrante che domina la piana omonima, fondarono - alle due estremità - Poseidonia con i templi in roccia calcarea, e un santuario extraurbano dedicato ad Hera (Heraion del Silaro), la divinità che aveva protetto la traversata di questi primi migranti. 

Paestum, la città di Poseidone, l’antico dio del mare che regna tuttora su un agglomerato che non è più marittimo da tempo e forse nemmeno più fluviale, appare tra i riflessi che il vetro compone sul cruscotto. Trenta secoli di storia si mettono in fila davanti a noi, come soldati prossimi a passare la rivista, figli di pietra generati dal corpo della terra e dalla mente di uomini che nemmeno la morte ha cancellato dalla memoria. Di fronte ai templi, divisi da un lungo viale alberato e da turisti il cui vociare è affievolito dalle mascherine tirate sul naso e sulla bocca, il Museo Archeologico di Paestum rivaleggia con i templi greci con la sua facciata austera e classicheggiante. Vorrei entrarci, sapendo di dover fare i conti con una agguerrita fila di visitatori, ma il tempo è tiranno e la mia meta è altrove. tuffatorejpg

(La tomba del Tuffatore       foto Pixabay)

Tuttavia, prima di riprendere la SS18 e rituffarmi nella piana del Sele, resto nei paraggi del Museo dove ci sono negozietti di souvenir e diversi bar e ristoranti. Su un espositore trovo una cartolina, quelle vecchie che ormai quasi più nessuno spedisce. Vi è rappresentato il celebre tuffatore rinvenuto su una delle lastre tombali e appartenente alla tomba di un antico principe lucano morto nel IV secolo a.C. Quel tuffo – sul quale tanto si è scritto – oggi è ovunque. Sugli adesivi pubblicitari degli autobus Sita che solcano in lungo e in largo il salernitano, sulle copertine delle (ottime) mozzarelle di bufala e sopravvive (ancora) su queste sorpassate cartoline da viaggio. Non sarà come ammirare l’originale, lo so bene. Ma il tuffo verso l’immortalità mi invita a fare qualcosa di diverso che aspettare la fila: rituffarmi in quella terra dal mare lapislazzulo e riprendere il cammino. 

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La porta del Cilento, secondo alcuni. Per altri la perla più risplendente della costiera cilentana. Naturalmente, nel campanilismo locale ogni paesino ambirebbe a questa nomina. Un dato però è incontestabile: con Agropoli inizia il Cilento. La SS18, nel punto in cui si immette nella Statale 267, mi mostra da lontano la città. E all’inizio c’è da rimanere sbalorditi. Nessuna perla risplende davanti a me; quella che si si materializza è una rocca, una novella Troia non violata da nessun assalitore. La guardo dal finestrino, duplicata dalla fotocamera del telefonino. In realtà non è Agropoli – con il suo lungomare e le sue torri incastellate – la mia meta. Punto alla gemma più segreta che la città nasconde da millenni: la baia di Trentova. 

Per raggiungerla, come si conviene a un tesoro custodito gelosamente, mi tocca aggirare Agropoli per mezzo di un dedalo di stradine e casolari. Le indicazioni ci sono ma la strada, fatta di curvoni e saliscendi continui, sembra non finire mai. Solo dopo un ultimo inganno, uno spiazzo polveroso pieno di macchine e famiglie urlanti, il tesoro di Agropoli decide di rivelarsi.

Secondo una leggenda che molti qui considerano verità assoluta, la baia prenderebbe il nome da trenta uova di gabbiani che gli uccelli avrebbero depositato in una delle grotte di arenaria che disegnano il sorriso aperto e tagliente di Trentova. Il colore cristallino dell’acqua fa i capricci a causa del vento da levante e di orde di alghe che a forza intendono sbarcare a riva. Tuttavia è un altro il particolare che mi sorprende. Una galleria di immagini uscite da un libro fantasy o di fantascienza. Gruppi di bagnanti ammassati sulla riva resa impervia dai sassi che, alla stessa maniera dei primi homo, sminuzzano con utensili improvvisati parti di rocce. Un lavoro certosino dal quale ottengono una polvere grigia prontamente impastata con l’acqua di mare. I fanghi di argilla. Con altrettanta cura, e non senza un pizzico di curiosità, giovani e meno giovani iniziano a cospargersi il corpo e il volto di questo liquido grigio che li trasforma e in alcuni casi li deturpa.Panoramica TrentovaJPG

(Baia di Trentova, panoramica        foto di Angelo Mascolo)

Uno di questi volti, seduto sotto l’ombrellone accanto al mio, appartiene a un cilentano d’adozione. Lavora a Napoli ma scappa verso la luce di Agropoli e del Cilento appena può. «Giuvino’» mi dice muovendo le labbra impastate di fango «chiste ‘e nu paravise». Con un largo gesto della mano, manco fosse il papa benedicente, mi indica tutta la Baia ai suoi piedi. Per lui, tutto il suo universo.

Si sono fatte le quattro del pomeriggio. La canicola batte sul piazzale del parcheggio. Risalgo nella macchina rovente e, riavvolgendo il nastro di stradine senza nome, raggiungo la SS267, la statale che nasce dal cuore cittadino di Agropoli. Il paesaggio non è più schizofrenico come nella piana del Sele. Assomiglia di più a una melodia suonata al tempo di un andante costante. Per un attimo la mente si rende conto che potresti trovarti ovunque. Nell’entroterra spagnolo o in quello greco. O, per rimanere in Italia, nella Val D’Orcia. Le strade, costellate di curve e rotonde, diventano anelli o, per meglio dire, spire di un unico serpente che avvolge e stringe una dopo l’altro le cittadine più famose del Cilento. Santa Maria di Castellabate, San Marco, Ogliastro, Agnone Cilento. Un paese dopo l’altro. Ulivi pettinati dal vento, case tirate su con muri a secco, pascoli e ampie vallate. Qualche distributore ogni cinquanta chilometri con un benzinaio che di diritto sarebbe potuto apparire in una commedia neorealista di Dino Risi o Vittorio De Sica.

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A segnalarmi Acciaroli, forse la vera destinazione di questo mio viaggio, è un variopinto tabellone con su scritto «Welcome to Acciaroli-Pollica». Manco da tanto da questa cittadina e il cartello – degno più di un villaggio turistico che non di una importante località cilentana – all’inizio mi sconforta. Ma è solo un attimo. Le strade comode e asfaltate mi portano al porticciolo. Riconosco la torre di avvistamento di epoca saracena, il sapore di fritto e sale, i ristoranti vecchi screpolati dal sole e quelli nuovi. Mi accorgo di mancare da troppo tempo da Acciaroli quando mi imbatto nel pannello che indica «Lungomare Angelo Vassallo». 

Lungomare AcciaroliJPG(Il lungomare di Acciaroli            foto di Angelo Mascolo)

Mi piace pensare che non sia stato un caso essere ritornato qui a poche settimane dal decimo anniversario della morte del sindaco pescatore, ucciso in un agguato la notte del 5 settembre 2010. 

Ceno in una pizzeria del centro. L’imbrunire mi coglie di sorpresa mentre mi accingo a riprendere la Statale267 che mi riporterà a casa. Il mare di Acciaroli con le sue leggende è diventato intanto nero e agitato. A dargli un po’ di calore, in mezzo alle tenebre, solo poche lampare uscite per una nuova nottata di pesca.

*ANGELO MASCOLO (Sono archeologo, giornalista e scrittore. Ho collaborato con i quotidiani «Roma», «Metropolis» e «Il Mattino». Nel 2016 il mio romanzo "Palestra Italia" si è classificato secondo al Premio Letterario RAI «La Giara». A novembre 2017 è uscito «La primavera cade a novembre», giallo edito dalla casa editrice Homo Scrivens, arrivato alla seconda ristampa, che ha ottenuto diversi riconoscimenti a livello nazionale)

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