Camere con vista - 4) Un giro del mondo

di FEDERICA IACOBELLI*

Esistono moltissimi luoghi che non ho mai raggiunto e, considerata la natura del tempo e le sorti del mondo, c’è il caso che non possa farlo mai neanche in futuro. Ma esistono poi molti altri luoghi, spesso gli stessi, in cui sono stata portata da pagine, scene o sequenze. Andandovi così, per strade e con mezzi poco ortodossi, mi è capitato di compiere un doppio viaggio: uno fisico e l’altro psichico; uno nel posto rappresentato a partire da geografie reali e l’altro nella mente di chi l’aveva scelto e ricreato. Viaggi vissuti restando ferma nelle camere con vista che certe opere a volte diventano.

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Quanto è grande davvero il mondo, il nostro pianeta con i suoi cinque o sei o sette continenti, secondo il modo in cui si voglia contarli? Oppure, al contrario ma non proprio: quanto può essere piccolo il mondo?


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Nei racconti danesi di Hans Christian Andersen (Eventyr, fortalte for Børn, prima edizione originale 1835-1872, Fiabe e storie nell’edizione integrale italiana tradotta e curata da Bruno Berni) mi ha sempre colpito il ricorrere dell’espressione ‘il vasto mondo’, ‘per il vasto mondo’: un’immagine iperbolica, più che una definizione reale, anche perché in genere allude al puro desiderio di andare fuori, oltre, lontano, in un altrove dotato dell’ampiezza immaginifica e vaga attribuita all’ignoto, e solo a volte significa concretamente le peregrinazioni in largo e in lungo di certi personaggi a loro modo eroici.

Quel mondo di pieno ottocento veniva in effetti reso immenso anche dalla difficoltà degli spostamenti e dalla fatica e lentezza nelle comunicazioni, come Andersen stesso sperimentò e raccontò dopo essersi allontanato dalla sua Danimarca per conoscere altre terre d’Europa. Eppure, perlomeno nelle fasi finali della raccolta, le sue storie furono coeve a quel famigerato romanzo del francese Jules Verne che, figlio di esplorazioni umane sempre più ardite sia nelle geografie, sia nella tecnologia, sia nel pensiero, prefigurava già nel titolo l’impresa di un giro del globo terrestre, e il mondo lo vedeva enorme in quanto desiderato nella sua totalità, in un possesso quasi carnale, ma nello stesso tempo lo rendeva accessibile, misurato anziché smisurato e quindi rimpicciolito per un criterio non più solo di spazio ma di tempo: soltanto ottanta brevi giorni per un semplice viaggio planetario.



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Semplice ma non proprio, a dirla tutta. In Le Tour du monde en quatre-vingts jours (prima edizione originale 1872, prima edizione italiana 1874), il ricco gentiluomo inglese Phileas Fogg, abituato a un’esistenza stanziale in compagnia del suo cameriere francese Passepartout, si entusiasma per i calcoli su un ormai concepibile viaggio mondiale scaturiti dall’inaugurazione di una ferrovia indiana e, a dispetto dello scetticismo degli amici, scommette con loro per ventimila sterline che riuscirà a compierlo nel tempo minimo previsto. Così dalla stazione di Londra arriva a Brindisi e continua per mare verso Suez e poi fino a Bombay, dove cominciano i guai a causa di un equivoco poliziesco e delle incomprensioni tra diverse culture. Abitate da vagoni ed elefanti, cortei funebri e transatlantici, le strade di Fogg e Passepartout si dividono a Hong Kong per ricongiungersi a Yokohama dove i due ripartono insieme per San Francisco e attraversato il Pacifico, gli Stati Uniti e l’Atlantico sbarcano in Irlanda e preso un ultimo treno rientrano a Londra con un ritardo di cinque minuti che però si scoprirà inesistente grazie a un intero giorno guadagnato dal fuso orario del giro verso oriente. Il vasto mondo diventava prendibile, divulgabile insomma, o tale appariva almeno in parte se solo pochi suoi paesi e nemmeno tutti i continenti erano stati attraversati dai protagonisti di Verne. Di sicuro era un mondo in movimento, e vedeva muoversi i suoi sparsi, isolati abitanti più facilmente e velocemente che in altri tempi.


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Anche le immagini iniziavano a muoversi, in quegli anni. L’anno della prima proiezione cinematografica pubblica è il 1895 ma a quella data qualche film esisteva già, frutto di esperimenti lunghi decenni, e le prime proiezioni animate risalgono proprio al periodo delle ultime fiabe raccolte da Andersen e della scommessa positivista di Fogg. Era un’epoca in cui, mentre la tecnica, l’arte e la scienza progredivano velocemente, masse di persone si rinchiudevano sempre più in lavori ripetitivi ed esistenze striminzite. E mentre il lavoro risucchiava l’umanità in una bolla di tempo e di spazio, il cinema appena nato la portava di nuovo fuori, verso altri orizzonti, in quell’universo terrestre che i mezzi di trasporto avevano ridimensionato ma che le condizioni di vita dei singoli tornavano a far sentire sterminato e inafferrabile.


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Ancora oggi, a più di centoventi anni dalle origini, nelle sue forme più classiche come in quelle più sperimentali, il cinema conserva il potere, per quanto magari meno eclatante ed esposto, di portarci in giro per il pianeta non tanto nel senso dell’onnipresente virtuale quanto piuttosto di finestre socchiuse o spalancate su un mondo inteso come molteplice alterità, per guardare l’esistente attraverso gli occhi di altre e di altri e leggere così le tante e varie scritture della vita. Perciò non stupisce che sia un vero viaggio sulla superficie e fino al cuore della Terra attraverso i suoi cinque o sei o sette continenti, lungo i suoi ultimi centoventi anni, quello cui ci conduce The story of film: An Odyssey (Regno Unito, 2011), l’impressionante opera di narrazione audiovisiva documentaria del regista e critico irlandese Mark Cousins. Sono quindici ore, quindici episodi per novecento minuti totali, destinati a crescere quando nuovi materiali andranno a raccontare anche l’ultimo decennio della storia del cinema e costruiti montando sequenze di film, interviste, ritratti inediti con il girato di peregrinazioni contemporanee nei luoghi che furono set e studi e teatri di posa e sedi di produzione o d’ispirazione.


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A guidarci in una ricognizione siffatta è lui stesso, l’ideatore, sceneggiatore e regista di questa sorta di poema epico itinerante fatto di immagini e parole. La sua voce narrante over accompagna lo spettatore da oriente a occidente, da nord a sud, dal passato al presente. Ed è una voce chiara e forte, che prende sul serio l’arte amata e studiata senza tuttavia assolutizzarla, perché i paesi che visita sono le singole opere e i confini che disegna non dipendono da classificazioni a priori ma dall’impegno a cercare le relazioni tra il cinema e la realtà ora evidenziandone la capacità profetica, ora leggendone le resistenze al cambiamento. Non è solo una voce, però: è uno sguardo che viene e va e ritorna nei luoghi dell’arte narrata, che ce li mostra cambiare, e trasfigurarsi, mentre taglia e ricompone fotogrammi, scene e sequenze che ha scelto e montato e associato non per una history, ma in una story, una lettura esaustiva tematicamente e consapevolmente parziale dell’evoluzione del cinema. Ed è un saggio, pure, alla maniera anglosassone: pochi verbi nitidi e moving seguendo l’argomento portante del rapporto tra la tradizione e l’innovazione, sia tecnica che creativa, con l’impegno a cercare ciò che per diverse ragioni non sia stato visto, non sia riuscito a viaggiare. Dalla scoperta della cosiddetta settima arte, passando per Hollywood, le nouvelles vagues, i registi radicali, popolari o di protesta, l’esplorazione arriva agli ultimi giorni della celluloide e all’avvento del digitale con le sue conseguenze, fino a un finale che si apre sopra diversi scenari, realistici e immaginifici, di un presumibile futuro del cinema.


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Quali vagabondaggi e divulgazioni, mi chiedo allora, possono ancora farci sentire l’immensurabilità della mente, dei sensi, delle mani dell’uomo? Non certo quelle che raccolgono informazioni bio-bibliografiche accessibili ormai in fin troppi siti. Piuttosto, quelle che donano un punto di vista preciso rispettando la specificità di un linguaggio, o di un insieme di linguaggi, e sentendone e mettendone in luce il dialogo con la società, imprevedibile, certo, ma tanto più importante in un tempo in cui arti e culture sembrano perdere di senso e in cui il caro vasto mondo pare non saperci più mostrare quanto davvero sia piccolo, quanto davvero sia grande.


*FEDERICA IACOBELLI (Laureata in lettere classiche e specializzata in giornalismo e in sceneggiatura, lavora scrivendo e insegnando all’ISIA U. Le sue opere, specie quelle per i lettori più giovani, nascono spesso dall’incontro con la memoria di vite vere e il linguaggio di arti diverse. Tra le sue pubblicazioni i romanzi 'La città è una nave' (collana ‘gli anni in tasca’, Topipittori 2011) e 'Storia di Carla' (collana ‘i chiodi’, Pendragon 2015); i racconti 'Uno studio tutto per sé' (MottaJunior 2007, Premio Pippi 2008) e 'Lev della radura' (rueBallu 2020, illustrato da Pia Valentinis); gli albi 'Mister P' (con Chiara Carrer, Topipittori 2009) e 'Giulietta e Federico' (con Puck Koper, Camelozampa 2020). Per Edizioni Primavera dirige la collana ‘i gabbiani’, letteratura teatrale per giovani lettori).


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