Buggerru, fra l'inferno e il paradiso

di ROBERTO ORLANDO * 

Se mi chiedessero dove si trova oggi la linea di confine tra il paradiso e l'inferno non saprei rispondere. Però so con certezza dove fosse fino un centinaio di anni fa. Era un sottile strato di roccia tra il mare meraviglioso della Sardegna sudoccidentale e una miniera di calamina, un mix di zinco e piombo ingioiellato da una percentuale di argento. Il paese che è tuttora attraversato da questo confine, oltre il quale un tempo non era letteratura lasciare ogni speranza, si chiama Buggerru. Terra di pastori e pescatori - il nome Buggerru deriva dal verbo sardo mungere - è stata convertita nella seconda metà dell'Ottocento in un centro minerario divenuto famoso in tutto il mondo. La notorietà peraltro era il frutto avvizzito di una mostruosa opera di deforestazione autorizzata dal re di Sardegna, Carlo Emanuele III. 

Qui a Buggerru la svendita dell'ingentissimo patrimonio forestale, che interessò l'intera isola, andò a esclusivo vantaggio dei nonni del pittore e scultore livornese Amedeo Modigliani: proprio lui, il Modì, quello della burla. Gli avi dell'artista ottennero per pochi soldi dai Savoia il diritto di sfruttamento di 12.000 (in lettere: dodicimila) ettari di foresta e non risparmiarono nemmeno un pino marittimo che facesse ombra nella piazza principale del paese. Intendiamoci, non potevano sapere che un giorno sarebbe servita un po' d'ombra: il paese all'epoca non esisteva proprio. Ufficialmente, dicono le carte, il primo residente sarebbe arrivato soltanto nel 1864 sull'onda delle scoperte minerarie. Prima di allora qui c'erano solo alberi e sottobosco che poi rapidamente seguirono il destino di quasi tutte le foreste dell'isola. Pensa che all'epoca la Sardegna da sola produceva più legname del Canada. 

Buggerru dove linferno della miniera confinava con il paradiso della costajpg

(Fra inferno e paradiso           foto di Roberto Orlando)

A me lo ha spiegato la guida che accompagna turisti sgomenti dal paradiso della costa fin dentro l'inferno che fu, nella Galleria Henry. Non ho motivo di dubitare delle sue informazioni, perché da una guida turistica ti aspetti che dica: "Qui c'è il mare più bello del mondo". E non: "Qui trattavano le persone peggio delle bestie". Oddio, l'esempio non è dei più adeguati, perché questo potrebbe essere davvero uno dei mari più belli del mondo, anche se tutto intorno oggi gli unici alberi sono quelli della pineta artificiale piantumata negli anni Cinquanta alle spalle della spiaggia di San Nicolò per evitare che il vento insabbi i campi coltivati. Però vento e sabbia non si sono mica arresi: diverse centinaia di metri verso l'interno c'è ancora una duna, alta come una collina. Quando sei a San Nicolò, fatti indicare la strada perché dune così in Italia non ne trovi tante. Il resto, intorno a Buggerru, è tutta macchia mediterranea bassa, almeno fin dove l'altopiano di Planu Sartu si impenna per diventare montagna. 

La guida ti conduce nel girone abbandonato dell'inferno su un trenino elettrico. Se il tuo approccio è turistico ti può sembrare una bella trovata, per giunta ecologica, persino un po' romantica. Ma prima di salire a bordo la guida ti spiega qual è lo spirito giusto per affrontare il breve viaggio nel cuore della scogliera, dentro la Galleria Henry, tra le ultime tracce degli inferi a trecento metri dal porticciolo e a 50 metri sul livello del mare.

Il compressore daria per ventilare le miniere esposto nel piazzale del belvedere di BuggerruJPG

(Il compressore per la ventilazione delle miniere      foto di Roberto Orlando)

Ora però indossa il caschetto giallo, sistemagli sopra la lampada a led da post-minatore, mettiti in fila lungo i binari del trenino e ascolta.

Qui fino agli inizi del Novecento la vita umana non valeva niente. Una tonnellata di calamina valeva invece l'equivalente di un milione di euro. Qui se un minatore crepava in un cunicolo o precipitava giù dalla scogliera era una perdita soltanto per i suoi parenti più stretti. La vita di un uomo valeva meno di quella di un animale da soma: perché l'animale, oltre a dover esser preso a noleggio e nutrito, doveva anche essere ripagato al proprietario in caso di morte sul posto di lavoro. Invece il minatore no: non era previsto risarcimento. E se il suo corpo fosse finito un po' fuori mano - giù per il sentiero a picco sul mare lungo il quale tiravano pesantissimi carrelli stracolmi di minerale - si poteva pure lasciare che tornasse polvere in loco, come natura vuole, senza scomodare parenti e sacerdoti.

Nella miniera di Buggerru la Société anonyme des mines de Malfidano, la compagnia francese titolare dei diritti di sfruttamento del sito, pagava i minatori da 1 a 2 lire e mezza al giorno, a seconda delle qualifiche. Le donne venivano pagate anche meno: avevano il compito di separare a martellate il minerale dalla roccia che lo racchiudeva. Lavoravano in un piazzale al capolinea del trenino sul quale salirò con un groppo in gola, quando avrò finito di ascoltare dalla guida l'illustrazione di un'incredibile catalogo di brutalità. Se una donna restava incinta doveva lavorare fino alla vigilia del parto, dopo il quale aveva diritto a una settimana di riposo. Poi rientrava al lavoro portando con sé il neonato: lo sistemava in una cesta che doveva tenere un po' in disparte perché il pianto del piccolo non disturbasse il lavoro.

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(La chiesa costruita dalla società mineraria           foto di Roberto Orlando)

Mi dimenticavo di dirti che nel piazzale sotto la miniera in cui arrivava il minerale da ripulire a volte il vento soffiava a 150 l'ora e la temperatura, in certi giorni d'estate, arrivava fino a 47 gradi. Bufere, caldo torrido, ma anche molestie sessuali: le "cernitrici" venivano tormentate regolarmente dai capiservizio. Non potevano sottrarsi o protestare: avrebbero perso il posto. L'unico rimedio era coprirsi molto, anche d'estate, non lasciare nemmeno un centimetro di pelle scoperta. I figli delle cernitrici, appena raggiunta una certa età - anche 4 anni, che ti credevi? - cominciavano a lavorare accanto alle madri. I bambini utilizzavano piccoli martelli fatti su misura per loro e riempivano secchielli di ferro che poi dovevano trasportare fino ai vagoni del trenino. Un blocco di calamina grande poco più di un panino pesa un paio di chili: a conti fatti, un bambino di una decina d'anni poteva sollevare fino a due volte il suo peso. Speranza di vita: 40-45 anni. Nessuna possibilità di carriera: chi cominciava scavando, finiva scavando.

Il rudere di una delle case del villaggio mineraio a Planu SartuJPG

(Il rudere di una casa di minatori a Planu Sartu        foto di Roberto Orlando)

Tutti i minatori erano obbligati a vivere nel villaggio di proprietà della Société, proprio accanto alla miniera a cielo aperto, che era a Planu Sartu, cioè nell'altopiano che sovrasta Buggerru: i ruderi ci sono ancora e fanno una certa impressione quando sai a che cosa servissero. I neo assunti vivevano nelle capanne di legno, gli altri in quelle di muratura. L'affitto costava 10 lire al mese, cioè dieci giorni di stipendio per i minatori più umili. Tutti i dipendenti erano costretti ad acquistare i generi di prima necessità nello spaccio aziendale. Era a pagamento anche l'olio per le lampade da usare in miniera. Nel villaggio non circolava denaro, i gestori dell'emporio annotavano l'importo della spesa su un libretto e poi si scalava dallo stipendio del "cliente". E siccome i minatori in genere non sapevano leggere e far di calcolo venivano raggirati con metodica regolarità: alla fine del mese le spese risultavano sempre superiori alla paga e quindi tutti erano costretti a continuare a lavorare per saldare un debito praticamente inestinguibile.

Così per campare, dopo 14 o perfino 16 ore trascorse a spaccare pietre, molti andavano a pesca oppure badavano alle greggi. In miniera non si poteva nemmeno dire ciao a un amico: multa di cinque lire. Dentro la Galleria Henry non si vedeva niente perché la locomotiva era a vapore e il fumo anneriva tutto, macchinista compreso, il quale dopo qualche viaggio diventava dello stesso colore del treno: nero. Lo attestano anche alcune foto in bianco e nero, scusa in nero e basta. Fuori dalla galleria non andava meglio: il minerale veniva trasportato sempre a mano nelle due "laverie" vicine al mare, i cui ruderi fanno ancora da corona al porticciolo. Da lì i materiali preziosi venivano stivati sui leudi e portati a Carloforte. I marinai delle barche avevano un giorno di tempo per andare a Buggerru, caricare a forza di braccia 30 tonnellate di zinco o piombo, fare la traversata fino all'isola dei genovesi e scaricare tutto a bordo delle navi che facevano la spola con la Francia. Il servizio si doveva fare tutti i giorni, indipendentemente dalle condizioni del mare: chi sgarrava perdeva il lavoro. 

Il porticcciolo di Buggerru al tramonto JPG

(Il porticciolo di Buggerru al tramonto        foto di Roberto Orlando)

Questo era l'inferno normale, poi è arrivato un demonio più cattivo e le condizioni di lavoro sono peggiorate di pari passo con l'aumento dei profitti della compagnia.

Il nuovo diavolo si chiamava Achille Georgiades, greco di Costantinopoli, mandato dalla Société a dirigere la miniera Malfidano nel 1903. Lui era l'unico ad avere la macchina a Buggerru, un'auto francese che non aveva la retromarcia. Allora il direttore aveva fatto costruire nel garage della sua villa una pedana girevole in legno, cosicché l'autista potesse orientare più comodamente la macchina verso l'unica direzione di marcia possibile. Il paese a quell'epoca era soprannominato "petit Paris". Qui si estraeva l'80 per cento dello zinco mondiale. Soldi ne giravano parecchi, anche se non per tutti: c'erano boutique e buone scuole, il teatro e la biblioteca. Per inaugurare il cinema erano addirittura venuti i fratelli Lumière in persona. Anche la chiesa, con il suo scalone monumentale, era stata donata alla comunità dei credenti dalla società mineraria proprietaria dell'inferno. Nel centro del paese c'erano le ville dei ricchi, con piscine e acqua corrente, persino la luce elettrica, grandi giardini e frutteti rigogliosi.

Nel periodo di maggior splendore dell'attività estrattiva i minatori in paese erano quasi 3.500, pari a un terzo di tutta l'isola. Un esercito di schiavi. Gli abitanti in totale erano 8mila. Il minerale era abbondante e facile da estrarre. Il problema era estrarne di più e più velocemente. Così il "direttor dimonio" il 2 settembre 1904 con una circolare anticipa di un mese l'entrata in vigore dell'orario invernale, che prevedeva un'ora di pausa in meno rispetto a quello estivo: dalle 11 alle 13 anzichè dalle 11 alle 14. I minatori questa volta non ci stanno e proclamano lo sciopero. In duemila assediano la villa del direttore, il quale chiama l'esercito. Un reggimento di reclute parte da Cagliari e a marce forzate raggiunge Buggerru in due giorni.

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(Il trenino della galleria Henry                                 foto di Roberto Orlando)   

La guida della Galleria Henry racconta la storia ai turisti ammutoliti come se fosse la prima volta: la sua descrizione è precisa e appassionata e ogni tanto le sfugge qualche battuta avvelenata come quando racconta di sua nonna che era stata una "cernitrice" in miniera eppure era riuscita a scamparla fino a 94 anni: "Tiè!". 

Arrivano i soldatini e con l'aiuto di alcuni crumiri cercano di trasformare in caserma un edificio messo a disposizione dalla società mineraria. Un gruppo di operai in sciopero, circa trecento, vuole impedirlo e assedia la truppa. Oggi in paese, a questo punto della storia, la versione più accreditata è la seguente: provocatori al soldo del direttore lanciano l'intifada e diversi soldati sono colpiti dalle pietre. I militari, ragazzotti senza esperienza, si spaventano e sparano contro i minatori ad altezza d'uomo. Due manifestanti restano a terra, un terzo morirà qualche giorno dopo, i feriti sono undici. Ed è così che la storia entra nella Storia: questo è il primo episodio in cui degli operai perdono la vita durante una manifestazione per migliorare la loro condizione di lavoro; questa è la prima volta in cui viene proclamato in Italia uno sciopero nazionale, addirittura di cinque giorni, dal 16 al 21 settembre; questa è anche la prima volta in cui un governo cade per effetto di una vertenza sindacale: Giovanni Giolitti dopo lo sciopero chiede al re Vittorio Emanuele III lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate che si terranno nel novembre successivo. I socialisti perderanno 5 deputati. I minatori invece non otterranno nessun risultato: l'orario di lavoro sarà modificato a loro vantaggio soltanto molto tempo dopo. Georgiades verrà celebrato e premiato come un eroe in Francia: del resto aveva raggiunto l'obiettivo di aumentare la produttività della miniera.

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(L'altopiano di Planu Sartu                                      foto di Roberto Orlando)

Qualche anno dopo i francesi cedono la miniera a una compagnia italobritannica: gli scavi cominciavano a essere meno redditizi. Chiuso l'accordo di vendita, la Société des mines si porta via tutto che quello che può essere utile ai nuovi proprietari, dalle mappe alle traversine dei binari della Galleria Henry. Una curiosità anche sul nome della galleria: si dovrebbe pronunciare alla francese, ma tutti dicono Henry alla maniera inglese. Da allora i diavoli cominciano ad abbandonare progressivamente la miniera per lasciare campo ai sindacati che riusciranno a migliorare e di molto le condizioni di lavoro. 

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(L'hotel La Rosa dei venti riprende lo stile della laveria diroccata     foto di Roberto Orlando)

Oddio, stare là sotto anche solo sei ore al giorno non è mai stato bello, ma a un certo punto, nell'ultimo periodo di attività estrattiva, sul finire degli anni Sessanta, se una donna restava vedova perché il marito era morto di silicosi aveva diritto a una pensione di reversibilità cospicua: 15 milioni al mese. Le vedove così riuscivano a mantenere tutti i parenti fino al terzo grado e in cambio ricevevano cure e attenzioni degne di una regina. "Le vedove in paese non sono mai vissute così bene e a lungo come in quel periodo", conclude finalmente con un sorriso la nostra guida nell'inferno che fu, mentre il trenino minerario riciclato ad uso turistico sferraglia verso l'uscita del tunnel.

(1- continua)


*ROBERTO ORLANDO (Nato a Genova in agosto, giornalista professionista dal 1983. Ultimo capocronista del Lavoro. Dopo uno scombinato tour postrisorgimentale che lo conduce in molte redazioni di Repubblica è rientrato tra i moli della Lanterna. Viaggia, fotografa e scrive. Meno di quanto vorrebbe)

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